Essere figlio, cioè essere portatore di uno sguardo, di un patrimonio. Entrare a far parte di un corpo che deriva da altri
corpi. Essere figlio, cioè essere come un riflesso, un collegamento temporale, una conferma del passato, una testimonianza
per il presente una speranza per il futuro.
Ultimamente il percorso cinematografico affrontato da alcuni registi/autori sembra aver preso traiettorie molto precise, che
vanno a dimostrare come la figura del figlio inserita nel rapporto con la famiglia, sia la traduzione migliore per definire
la propria linea autoriale.
Inarritu, Clint Eastwood,
Sofia Coppola e Alfonso Cuaron hanno dimostrato, attraverso il loro ultimo cinema, quanto il
figlio resti inevitabilmente condizionato, responsabile, ispirato o deviato dalle scelte dei genitori. Prevale pure una
considerazione che va ad intaccare qualcosa di enorme come il concetto stesso di società e luogo vitale: il figlio, in
questo tipo di cinema, è il ponte che collega nel tempo le generazioni, oppure, più tragicamente, che spezza questa
linearità temporale.
Inarritù, ad esempio, racconta il presente. Il regista messicano sceglie uno sguardo spietato per raccontare le dinamiche
famigliari e lo fa incentrando il suo discorso sul rapporto genitore/figlio. Già in
Amores Perros , il rapporto tra
Octavio e sua madre è uno dei motori scatenanti dell'intero ciclo narrativo, mentre il personaggio di El Chivo, il barbone,
rappresenta un primo livello di colpa in quanto l'uomo, in passato, aveva abbandonato la figlia. La deframmentazione
famigliare in
21 grammi raggiunge l'apice assumendo toni ancora più tragici. Ancora una volta è un'incidente
automobilistico a incrociare tre vite lontane. Questa volta, però, nell'incidente perdono la vita il marito e i due figli di
Cristina Peck. Redenzione, vendetta e amore assumo qui valenze estreme che partono inconsapevolmente dallo stesso
incidente. Infatti, proprio grazie al tragico fatto, Paul Rivors riceverà il cuore del marito defunto, quasi a sottolineare
una continuità temporale di una vita ma anche di un rapporto di creazione/salvezza. Sembra che Inarritu compia un processo
graduale di avvicinamento al mondo infantile e al rapporto stesso genitore/figlio. Se in Amores Perros il figlio
rappresenta l'oggetto del desiderio tra Octavio e Susana, e questo non si vedrà mai nel film, in 21 grammi i figli ci sono
ma escono subito di scena a causa dell'incidente. Questo tipo di esplorazione in
Babel assumme nuove prospettive.
Le tre storie sono tutte concentrate sul rapporto genitore/figlio e tutte restano in bilico tra la vita e la morte. Non solo.
In Babel la figura del bambino assume una funzione centrale di vittima e colpevole, lasciando lo spettatore completamente
solo. Nell'incidente/sparatoria i protagonisti attivi sono i bambini marocchini, quelli passivi gli adulti. Bambini che
peccano di leggerezza, non di cattiveria, ma che ugualmente restano responsabili. In Messico, invece, sono i figli di Susan
e Richard a mettere nei guai Anita, perché involontariamente non la salvano (ancora una volta bambini attivi, adutli
passivi). Infine in Giappone, Chieko, a causa dell'incastro di eventi, mentre subisce il passato come una condanna del
presente, riesce, almeno parzialmente, a redimere il padre (figlia attiva, padre passivo). Si ottiene in questo modo, un
passaggio completo da figure che mancano totalmente, a figure che totalmente agiscono.
Clint Eastwood e Sofia Coppola, invece, interpretano il presente attraverso una rilettura apocrifa del passato. Percorsi
simili che assumono forme diverse. Eastwood nell'ultimo
Flags of your fathers, ribalta il significato di una
leggenda, andando a fondo dentro un pezzo di memoria, dentro alla storia con la s maiuscola. Non c'è solo una nazione che
cambia punto di vista su un episodio considerato straordinario, ma che in realtà risulta essere semplicemente un episodio,
c'è anche, e soprattutto, un figlio alla ricerca della verità su suo padre che era presente sul monte Suribachi. Un figlio
che non si accontenta di sapere chi aveva realmente piantato la bandiera. Un uomo che vuole particolari, racconti in prima
persona, storie vere non interpretazioni, perché vuole farsi un'idea, una ragione, soprattutto vuole ritrovare lo sguardo
di suo padre e farlo suo. Ovvero cerca nel passato per capire il proprio presente. E' da questo rapporto padre/figlio,
almeno negli ultimi tre film, che Eastwood instaura una
specia di lotta con l'America con l'intenzione di riscoprirne l'autenticità. In
Mystic River lo faceva prima con la
"morte dell'anima" dei ragazzini, vittime della pedofilia, poi con la morte carnale della figlia di Jimmy Markum, fatto
che scatenarà una serie di conseguenze tragiche. In
Million Dollar Baby, invece, Frankie Dunn assumeva una posizione
di redenzione e inquietudine nei confronti della propria figlia, senza però mai esternare quale fosse la causa di tale
silenzio. Una mancanza che poi lo stesso Frankie cercherà di colmare prendendosi cura di Maggie.
Sofia Coppola ricodifica a suo modo, quindi a colpi di rock e vintage, una condizione della crescita umana, una sensazione,
un passsaggio, un cambiamento come l'adolescenza. Il suo
Maria Antonietta affonda nel XVIII secolo per ridefinire
non solo l'adolescenza, ma anche uno dei personaggi più discussi della storia di Francia. La sua teoria è semplice: come
faceva una ragazzina di quattordici anni a sopportare tutte quelle pressioni? Come faceva a soddisfare un intero stato e a
pensare alla prole? Una condizione temporale sospesa che si aggrava proprio con l'arrivo del principale obiettivo: fare
figli. Un rapporto madre/figlio che fatica ad arrivare e che soprattutto sembra bloccare la crescita, lo sviluppo, la
vitalità della ragazzina Maria Antonietta. Come in
Il giardino delle vergini suicide è ancora una volta il contesto
famigliare, la sua mancanza, o anche la sua estrema presenza, il nucleo da cui parte la riflessione di Sofia Coppola. Nel
suo giardino raccontava un contesto estremo, relazioni
deviate e reazioni tragiche. In
Lost in traslation, anche se il discorso subisce una virata temporale e tematica
(non assistiamo in realtà ad un vero e proprio rapporto genitore/figlio se non a quello sfumato di Bob al telefono con la
moglie), il risultato non cambia. Charlotte è poco più che un'adolescente e da poco si è sposata. La sua nuova condizione
di donna, l'incontro con Bob e la Tokyo destabilizzante su cui poggia i piedi, l'aiuteranno a rendersi conto della sua
solitudine descritta come realmente appare: un luogo che invade le persone. Sofia Coppola parla con le imaggini e libera le
sensazioni con la musica.
Chi invece guarda al futuro è Alfonso Cuaron. Lo fa con uno sguardo disperato, nero e pessimista, ma non rinuncia alla
speranza.
I figli degli uomini racconta come saranno mondo e umanità nel 2027, quando ormai la sterilità sarà il
vero pericolo da affrontare. Nel cortocircuito vitale/immaginario costruito da Cuaron si alternano sparatorie, colpi di
scena, discuisizioni filosoficofuturiste e una buona dose di adrenalina spalmata in tutto il film. Prevale un senso di
smarrimento e angoscia al solo pensiero che l'ultimo nato è morto e con lui quel poco di ordine logico rimasto nella mente
degli umani, che per ribellarsi alla condizione estrema che sono costretti a sopportare, scelgono come unica risposta la
guerra e lo scontro mortale. L'immaginario fanta-politico delineato da Cuaron assume quindi una valenza prospettica e
tristemente finita. Cuaron ipotizza un finale fisso, rigido ingenerabile perché le donne sono sterili e gli uomini si
uccidono, si odiano. Sembra sottindere che gli stessi profili disperati e privi di speranza degli uomini ritratti nel 2027
siano quelli derivanti dal 2006. Un passaggio involuto di tradizioni e valori. Un'assenza di coordinate e orientamento. Ma
come già detto, la speranza è proprio l'ultima a morire. Ecco che il miracolo avviene e che assistiamo ad una nuova nascita.
Quattro sguardi, diversi. Quattro forme di cinema piene di immagine-senso. Questo è il sistema comunicativo del presente in
cui viviamo. Un modo, una maniera, un'insieme di messaggi uno in fila all'altro che sembrano continuamente mettere all'erta
lo spettatore. Perché stare a guardare, probabilmente, non basta.