Ci siamo noi che guardiamo queste rovine, come se la violenza dei campi fosse morta sotto le macerie.
Fingiamo di sperare di nuovo davanti a questa immagine che si allontana, come se si guarisse da questa peste.
Fingiamo di credere che tutto ciò è di un solo tempo e di un solo Paese
e non pensiamo a guardarci intorno
e non sentiamo che si grida senza fine.
(“Notte e nebbia”, di Alain Resnais)(1)
Perché il caso polacco:
Varrà la pena di spendere qualche parola in apertura per giustificare come mai un capitolo di questa pubblicazione sia stato
dedicato alla Polonia e al cinema polacco, a costo di esporre delle argomentazioni già risapute.
Il ruolo storico della Polonia nella storia della deportazione è centrale: alla vigilia e durante l’avvento del Nazismo è
una delle nazioni europee che conta la maggior presenza di Ebrei e dopo l’invasione nazista diventerà l’epicentro
dell’orrore, il territorio su cui si concentrerà la massima densità di campi di sterminio.
Nello stesso tempo, malgrado le vicende storiche che seguiranno la sua liberazione dal nazismo, il tema della deportazione
e dello sterminio diventa centrale nel cinema polacco del dopoguerra, tanto da venir trattato da quasi tutti i suoi massimi
registi, molti dei quali noti anche al nostro pubblico: basti citare nomi quali quelli di Aleksander Ford, Andrzej Munk,
Andrzej Wajda, Agniezska Holland, Krzysztof Zanussi, Krzysztof Kieslowski, Roman Polanski.
Pure, anche il cinema polacco sembra soggiacere al grande tabù di fronte all’indicibilità dell’orrore dell’Olocausto: tanto
che lo sguardo gettato dai registi polacchi sul tema può essere configurato di volta in volta come uno sguardo obliquo,
distante, o interrotto. Vedremo in seguito in quale senso.
(1)Nuit et brouillard, Fr, 1956. Il documentario girato da Resnais con testi dell’ex-prigioniero Jean Cayrol (trad.
it. Di Mariella Tommasi), alterna riprese “contemporanee” negli ex-campi di sterminio e gli agghiaccianti filmati degli
archivi militari, dove si vedono detenuti in condizioni disumane, mucchi di cadaveri scheletrici spazzati via dai buldozer,
l’accumulazione delle cose appartenuti ai morti, come montagne di capelli femminili. Il film fu prima selezionato e poi
rifiutato dal Festival di Cannes.
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