Lo sguardo si addentra invece nel lager con
La passeggera di Andrzej Munk. Nato nel ’21 a Cracovia, di origine
ebraica, Munk dopo studi di architettura e di legge all’Università di Varsavia, si diploma nel ’50 alla Scuola di cinema
di Lodz (dove si forma la cosiddetta “Scuola Polacca” di cui fanno parte oltre al capofila Wajda Has, Kawalerowicz, ecc.),
presso la quale insegna dal 1957 al 1961. Gira cinegiornali, documentari(63) , corto(64) e lungometraggi(65) ; nel 1961, mentre sta
girando
La passeggera, ispirato ad un romanzo di Zofia Posmysz-Piasecka (che collabora anche alla sceneggiatura del
film), il 20 settembre 1961, muore in un incidente motociclistico. Il film viene completato da Witold Lesiewicz e Andrei
Brzozowski(66) , che però non portano a termine le riprese ma integrano il girato con foto di scena ed un commento fuori campo.
Il film incompiuto viene presentato nel 1964 alla Mostra del Cinema di Venezia. Jean-Luc Godard afferma che sia l’unico
vero film sul lager girato nella storia del cinema e il suo parere è riecheggiato dagli “enciclopedisti” italiani, da Di
Giammatteo (“Si tratta della più profonda testimonianza sul rapporto vittima carnefice in un universo chiuso, non
eguagliato nei tenativi successivi, come, ad esempio, nel “Portiere di notte” della Cavani(67) ), a Mereghetti (“un capolavoro
di tensione e modernità di scrittura, sicuramente la più alta rappresentazione del rapporto vittima-carnefice”(68) ), a
Morandini (“è in assoluto il miglior film di finzione realizzato sull’universo concentrazionario”(69) ).
Il film entra nel lager in flashback: la macchina da presa inquadra dei binari, accanto ai quali sono abbandonati bagagli e
masserizie; segue in panoramica verso destra due ciclisti, uniche presenze umane; poi torna verso sinistra, inquadra degli
edifici, si alza ad inquadrare dello spesso fumo nero che esce dai camini.
La regia di Munk utilizza spesso panoramiche e carrelli, con movimenti di macchina elegantissimi, prediligendo composizioni
dell’inquadratura per linee diagonali, come ancora, nella sequenza che segue immediatamente quella appena descritta e su
cui inizia il racconto in flashback della protagonista Liza: la mdp inquadra le divise a righe contrassegnate dalla stella
di David appese alla rastrelliera, panoramica verso destra a mostrare i beni e gli effetti personali sequestrati ai
prigionieri, per finire ad inquadrare il volto della narratrice, in mezzo profilo, riflesso in uno specchio(70) .
Ma, focalizzata l’attenzione sul rapporto tra la tedesca Liza (di seguito L.) e la prigioniera polacca Marta
(di seguito M.), dove la prima mette alla prova la forza del proprio illimitato potere verso un essere alla sua completa
mercé e dove è palese anche una forte componente omoerotica, la figura retorica – paradossale - attraverso la quale
traspare tutto l’orrore del lager consiste nel metterlo in distanza, nel relegarne le figure sullo sfondo, al margine
dell’inquadratura, sfocate nel secondo piano. La tragedia del lager si esprime attraverso inquadrature di servizio,
marginali alla narrazione, come gli establishing shot che mostrano campi fangosi attraverso i quali arrancano i prigionieri
o un cortile dove giacciono divise da prigioniero vuote e ammucchiate, e dove un uomo spinge il braccio nudo di un cadavere
oltre la spalletta di un carro; o i dettagli di una pistola che viene caricata, o della botola di una cella chiusa
disinvoltamente con un piede. Mentre ufficiali nazisti conversano in primo piano, sullo sfondo, fuori fuoco, si vedono
cadaveri che oscillano dalla forca, o prigionieri costretti a correre nudi, o un SS con un cane-lupo al guinzaglio che
rovescia a terra con un calcio un detenuto, o una donna che annaspa penosamente nel fango.
Il punto di vista è quello di L. e non quello di M., quello dei carnefici e non delle vittime. Le diverse versioni della
vicenda che ascoltiamo hanno nel film incompiuto una sola voce narrante, quella di L., mentre M. nei flashback rimane un
personaggio quasi completamente muto. L’orrore del lager è un orrore quotidiano, ben organizzato e rodato, cui non si
presta più attenzione. Nei magazzini si fanno correre a decine le carrozzine dei neonati sterminati; nel campo un’orchestra
di prigionieri macilenti suona una musica allegra mentre altri passano davanti a loro portando a spalla i cadaveri dei
compagni(71) . Un’SS sa piangere per un cane-lupo ucciso per vendetta, ma rimane impassibile davanti allo sterminio di migliaia
di vite.
Per L. la dimensione umana è lontana, resa impossibile dalla soverchietà del potere che si trova, come i suoi camerati,
quasi casualmente, ad esercitare; l’amore di prigionieri tra M. e Tadeusz è un affronto, un’offesa arrecata alla sua vita
alla quale umanità e amore sono preclusi. Il tentativo di piegare M. al desiderio che prova per lei rappresenta il distorto
tentativo di coniugare le due dimensioni: quella attuale del potere e della crudeltà e quella lontana e negletta del
rapporto umano e del sentimento. In una scena memorabile, L. fa correre le detenute nude, di notte; le donne sono bagliori
bianchi illuminate dalla luce dei fari che si frappongono per un attimo tra lo sguardo e la sua figura impassibile, dura;
ad un suo cenno le detenute sono uncinate alla gola e gettate all’interno di un cerchio; la sola M. verrà risparmiata.
Nella sola occasione in cui L. vacilla per soli pochi secondi, la mdp si identifica con il suo sguardo e sembra rendersi
conto dell’orrore che permea giorno dopo giorno il lager: vale la pena di seguire in decoupage lo svolgimento della
sequenza, forse una delle più agghiaccianti nella sua impassibile freddezza. La mdp inquadra il fumo nero che esce dai
camini; una panoramica a sinistra ci mostra un furgone; L. osserva la scena da dietro il filo spinato; bambini di ogni età
scendono in un sotterraneo accompagnati da donne in divise da infermiere; un uomo anziano tiene in braccio due bambini
particolarmente piccoli; di nuovo L. che guarda da dietro il reticolato; in soggettiva l’inquadratura si avvicina
all’altezza di una bambina che si ferma ad accarezzare un cane-lupo, mentre altri bambini scorrono alle sue spalle; la
bambina alza lo sguardo e la mdp segue il movimento fino ad inquadrare il soldato tedesco che tiene al guinzaglio il cane,
che la guarda sorridendo; poi la bambina segue gli altri e il viso del soldato torna serio, il suo sguardo duro fisso nella
lontananza; dal furgone vengono scaricati dei fusti; ancora L. che guarda, ancora i bambini che scendono; un soldato si
infila la maschera antigas, i guanti, si abbassa, apre i fusti, raccoglie qualche frammento di cristallo caduto a terra e
lo rimette diligentemente nel fusto; di nuovo L. in pp; il soldato versa il contenuto del fusto in un condotto; sullo
sfondo fumo nero esce dai camini; sulla figura di L. la sua voce fuori campo pronuncia le prime parole dell’intera
sequenza: “Purtroppo anch’io avevo i miei momenti di debolezza”.
Ma lo sguardo della “passeggera” non è uno sguardo semplice né univoco. La rappresentazione è mediata dai monologhi di L.
(nel film i dialoghi sono molto rari), spesso palesemente menzognero. Il racconto infatti è doppio, replicato in due lunghi
flashback. All’inizio del film la narratrice si trova a bordo di una lussuosa nave da crociera insieme al marito. Da anni
vive lontana dalla Germania e dall’Europa. La dimensione fittizia, virtuale della nave (“un’isola nel tempo”(72) , senza ieri e
senza domani, dove “ogni passeggero è un’isola”, svincolato da legami biografici, sociali, nazionali) viene spezzata da un
evento imprevisto: L. crede di riconoscere M. in una donna che sale a bordo ad uno scalo intermedio. E’ l’occasione per
iniziare a raccontare al marito una verità su Auschwitz che questi ha ignorato sino a quel momento: “Io non ero una
prigioniera, ero una sentinella”. Il racconto al marito è auogiustificatorio e autoassolutorio: L. sostiene di aver scelto
il lavoro nei magazzini, fuori dal campo, dove le condizioni delle detenute sono più umane e dove lei stessa si sforza di
renderle meno dure (“ad altri il potere aveva dato alla testa, io facevo solo il mio dovere”); sceglie M. come propria
aiutante, perché ha visto in lei “qualcosa di fragile, ingenuo e femminile” (aggettivi contraddetti dal pp di M. dallo
sguardo duro ed ostile) e le permette di incontrare l’amato Tadeusz; infine non può opporsi quando i suoi superiori
decidono la morte di entrambi i prigionieri.
Ma durante una lacuna del film, si innesca un secondo racconto, che contraddice il primo. L. invidia l’amore tra M. e
Tadeusz; vuole averla per sé, piegarla ai propri voleri, con le buone o con le cattive; il suo comportamento non è meno
spietato e crudele di quello degli altri aguzzini.
La morte di Munk interrompe il racconto, gli nega un approdo, una conclusione. Ma non la sua moralità, che era già tutta
nelle immagini girate. Il commento aggiunto fuori campo si chiede a proposito del comportamento di L.: “Il suo racconto
del gioco tra la sorvegliante e una prigioniera non è esso stesso una difesa e una fuga verso una dimensione umana? Verso
una crudeltà e un male che ancora possano dirsi umani? Restano sullo sfondo, confuso e irreale, le esistenze mute di chi
moriva anonimo, per caso (…), vittime schiacciate nel fango che L. calpestava senza accorgersene”.
In foto si vede la donna che sembra e forse è M. scendere a terra; la nave con L. a bordo prosegue il suo viaggio verso il
Nuovo Mondo.
“Non intendiamo completare ciò che lui ha lasciato in sospeso”, premettono all’edizione postuma i collaboratori di Munk.
“Non cerchiamo soluzioni che potrebbero non essere state le sue né conclusioni che la morte ha impedito al regista di
trarre”. “Tutte le lacune e le reticenze” di uno sguardo
interrotto rimangono tali. Ma “Andrzej Munk era nostro
contemporaneo. La sua inquietudine non ci è estranea. Anche se non riuscissimo ad indovinare le sue risposte, forse
riusciremo a riproporre le domande che si poneva”.
(63) Nel 1946 si trova a filmare l’esecuzione per impiccagione del nazista Artur Greiser (Egzekucja Artura Greisera).
(64)Tra i quali Zakonnica (t.l. La monaca), racconto non privo di umorismo delle avventure di una monaca che aiuta i partigiani contro i nazisti; vi compare anche il giovane Roman Polanski.
(65)Tra i quali Zezowate szczescie (t.l. La fortuna strabica, Pol., 60), nel quale si descrive con tocchi umoristici la “carriera” di un polacco “per tutte le stagioni”, prima sorvegliante in un lager, poi partigiano, infine entusiasta sostenitore del nuovo ordine postbellico.
(66)Brzozowski firma alcuni documentari sul tema, come Ostanie Zdjecia, raccolta di testimonianze su La passeggera, con interviste ai membri della troupe e a grandi registi polacchi come Wajda, Polanski, Skolimowski, o Archeologia, sulla ricerca di reperti della deportazione ad Auschwitz).
(67) “Dizionario universale del cinema”, Ed. Riuniti, 1986.
(68) “Il dizionario dei film”, Baldini e Castoldi, 1997.
(69) “Il Morandini – Dizionario dei film”, Zanichelli, 1998.
(70) Che preannuncia e tematizza visivamente il tema dello sdoppiamento nel racconto e nella memoria di cui Liza si rende protagonista,
(71) Commenta Liza: “Intanto la vita nella famiglia del campo continuava; c’erala quotidianità e c’erano le feste”. (corsivi miei)
(72) L’acqua, l’isola, l’imbarcazione sono tutte, come si già sottolineato, figure-chiave anche nella filmografia polanskiana