FUORISCHERMO

 

TRÄNEN – LACRIME
IL CASO POLACCO
LO SGUARDO DISTANTE:
IL PIANISTA
DI ROMAN POLANSKI
MAURO CARON

POLANSKI SUL SET Si prenderà in esame di seguito il caso di tre grandi autori del cinema polacco, Polanski, Wajda e Munk, che in tempi e modi diversi si sono occupati del tema della Deportazione.
Il primo è universalmente noto. Il pianista di Roman Polanski (di seguito indicato con P.) è in effetti il caso cinematografico del 2002 e stabilisce una nuova pietra miliare nel cinema sulla deportazione(23) , come nel giro di pochi anni lo erano stati in modi diversi La vita è bella (1997) di Beinigni e Schindler’s List di Spielberg. Lo stesso Spielberg nel momento in cui progetta Schindler’s List, propone a P. di assumere la regia del film, ma questi rifiuta. E’ il 1991 (l’anno in cui P. presiede la giuria del Festival di Cannes, che premia un film eminentemente polanskiano come Barton Fink), e a quanto pare non è passato ancora abbastanza tempo da quando il piccolo Roman cercava scampo alle persecuzioni naziste per assumere la direzione di una storia che lo tocca così da vicino.
A Pierre Loubière e Gilbert Salachas di “Téleciné”, nel 1968(24) , P. dirà di aver “sofferto. Soprattutto durante l’infanzia. Ho vissuto la guerra in modo spaventoso, i miei genitori sono stati deportati in un campo di concentramento, e solo mio padre ne è tornato”. Roman nasce nel 1933 a Parigi, ma i genitori nel 1936 rientrano in Polonia, poco prima del tracollo provocato dall’invasione nazista. “L’angoscia l’ho conosciuta a Varsavia, quando ho visto i tedeschi costruire un muro attorno al quartiere dove ci avevano deportati. Quando ho capito che ci stavano murando. Era il 1942, avevo nove anni e ho capito tutto benissimo. La paura fisica l’ho conosciuta quando i tedeschi stavano liquidando il ghetto. Camminavo per la strada. Loro stavano portando via una colonna di donne. C’era una vecchia più indietro delle altre, che non ce la faceva a tenere il passo e piangeva. Improvvisamente un ufficiale tedesco ha estratto la rivoltella e le ha sparato nella schiena. E’ sgorgato il sangue, come un geyser, e la vecchia è caduta. Sono corso verso un portone e mi sono nascosto sotto una I DANNATI DI VARSAVIA scala”(25) . I suoi genitori, in tempi diversi, finiscono in campo di concentramento. Roman riesce a sfuggire ai rastrellamenti, e sopravvive fino alla fine della guerra di rifugio in rifugio, nascosto da famiglie che corrono il rischio di ospitarlo, prima in città e poi in campagna. Nel 1947 (a 14 anni) P. entra ne “La banda giocosa”, una compagnia teatrale giovanile di Cracovia e si iscrive quindi alla Scuola di Belle Arti, che lascia nel 1953 per entrare nella Scuola di Cinema di Lodz, dove recita tra gli altri in film di Wajda (Generazione, I dannati di Varsavia, Lotna, Ingenui e perversi), e di Munk (Fortuna da vendere); nel 1958 realizza il cortometraggio Due uomini e un armadio, premiato in vari festival internazionali, con il quale si suole designare l’inizio della sua carriera registica.
Tra il bambino che trema in un sottoscala del ghetto e Il pianista, si frappongono una sessantina d’anni, una quindicina di lungometraggi, una serie di non-patrie che di volta in volta lo ospitano, producono i suoi film, lo respingono.
Lo sguardo di P. sulla tragedia del Ghetto, dunque, non può che essere uno sguardo distante. Nell’intervista allegata al film nell’edizione in dvd(26) si alternano dichiarazioni di semplicità, di essenzialità, di sincerità (l’importanza dei ricordi personali nella ricostruzione di luoghi e vicende, l’esigenza di girare a Varsavia – malgrado il Ghetto non esista più) ad altre che tendono a mantenere una sorta di diaframma difensivo tra sé e la materia trattata (le risate con lo sceneggiatore in fase di lavorazione, la finzione del set). Tra la propria esperienza personale e la materia, P. d’altronde pone un filtro determinante: la vita di un altro, in quanto il film è tratto dal racconto autobiografico di Wladyslaw Szpilman (di seguito indicato con S.).
La prima parte de Il pianista ha un andamento quasi didattico, dove le tappe che precedono la deportazione vengono puntualmente scandite e marcate da didascalie temporali: dall’invasione del ’39 con le sempre maggiori limitazioni (riguardo al possesso di denaro, alle possibilità di lavorare o di accedere ai locali pubblici, al diritto di camminare sul marciapiede) e gli obblighi (la fascia identificativa che tutti i maggiori di dodici anni devono portare al braccio) cui vengono sottoposti gli ebrei, al decreto Fischer che in ottobre impone il trasferimento coatto nel Distretto Ebraico di Varsavia; alla costruzione del muro che delimita il perimetro del Ghetto, dove imperversano ben presto le violenze gratuite, con spoliazioni ed omicidi, la povertà, la fame, la morte che lascia i cadaveri sui marciapiedi; fino alla svolta contrassegnata dalla data del 16 agosto 1942, quando il Ghetto viene evacuato e i suoi abitanti vengono condotti alla IL PIANISTA stazione ferroviaria per la deportazione verso i campi di sterminio. La strategia di deprivazione economica, fisica, identitaria, è arrivata al suo culmine: gli ebrei non hanno più niente; non sono più nessuno; vengono ammassati su vagoni dove non possono muoversi; vanno alla morte come una massa improvvisamente anonima.
Privato di tutta la sua famiglia, fortunosamente sfuggito alla deportazione (come successe allo stesso Roman bambino), S. è ora un punto geometrico-narrativo su cui mano a mano si chiude un cerchio inesorabile. Gli spazi si richiudono sempre più intorno a S., che rimane sempre più solo. Impiegato dapprima ai lavori forzati, trova rifugio da amici, poi in una cantina, poi in un’altra casa, poi nell’indirizzo d’emergenza dove ritrova la vecchia amica Dorothe, poi in una casa della zona tedesca dove viene abbandonato dall’uomo che doveva aiutarlo e che viene distrutta, poi in un ospedale abbandonato; infine in una casa diroccata dove infine lo trova un ufficiale tedesco. Nel film si è aperta una frattura tra la Storia e la storia individuale di S. Contrariamente alla coralità di personaggi che contraddistingue le situazioni del film sino alla deportazione, per lungo tempo nella seconda parte del film S. è completamente solo (condizione che impone un notevole tour de force al pluripremiato interprete Adrian Brody), quasi sempre presente sulla scena (vengono alla mente le riflessioni sulla soggettiva libera indiretta di Pasolini, e la condizione errante degli eroi del cinema contemporaneo in Deleuze), e il film è senza dialoghi.
Scelta la centralità del personaggio protagonista ed eponimo, la regia di P. si mantiene distante, distaccata, fredda. Non ci sono virtuosismi tecnici, invenzioni registiche(27) ; lo stile visivo è secco, asciutto, essenziale: i movimenti di macchina sono quelli “naturali” che assecondano i personaggi e gli avvenimenti in scena. Le eccezioni significative assumono valore simbolico: il movimento verso l’alto della macchina da presa che accompagna in piano-sequenza la perquisizione nella casa di fronte a quella degli S., con le luci che si accendono di piano in piano fino all’agghiacciante scena della defenestrazione di un anziano paralitico; il carrello a precedere a ritroso che accompagna S. per le strade devastate dopo l’evacuazione del Ghetto; la gru verso l’alto che scopre il paesaggio inizialmente nascosto dietro il muro che S. ha appena IL PIANISTA scavalcato, un’allucinante Varsavia dove si stendono a perdita d’occhio edifici ridotti a mozziconi frantumati, tra i quali si perde in lontananza la figurina di S.; ancora la soggettiva che parte dal barattolo di conserva rovesciatosi sul pavimento sotto gli occhi del disperatamente affamato S. fino a scoprire gli stivali dell’ufficiale nazista, lungo la cui figura la cinepresa panoramica dal basso verso l’alto.
L’adesione emotiva dello spettatore non è ricercata e suscitata attraverso effetti di regia, ma lasciata alla semplice visione e interpretazione degli eventi.
Opera tardiva nella filmografia del regista, Il pianista sembra mancare di quelle che sono sempre state caratteristiche del suo cinema. L’ambiguità, prima tra tutte. Il cinema di P. ha sempre ricercato i margini di ambiguità che circondano storie e personaggi per rovesciarli al centro delle sue narrazioni: l’ambiguità dei rapporti tra i personaggi come nel lungometraggio d’esordio Il coltello nell’acqua, quella di situazione come in Che? o Cul de sac, quella tra i generi cinematografici come in Per favore non mordermi sul collo, quella tra realtà e allucinazione come in Repulsion, Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano; quella tra vittime e carnefici, tra vendetta e giustizia, tra bene e male, come ne La morte e la fanciulla. Ne Il pianistanon ci sono scene oniriche, né simboli: l’attualità del racconto si dà nella sua immediatezza, nella sua pregnanza che ne fa un incubo inscindibile dalla realtà.
Del pari sembra essere assente quell’humor nero, grottesco e surreale, che permea alcune delle opere citate come anche Luna di fiele, che porta già nell’azzeccato titolo italiano la contraddizione tra dolce e amaro, tra normalità ed eccezione, tra la storia e il suo essere messa in gioco (di parole, innanzitutto). Il pianista è un film dove non si ride o non si sorride mai, nemmeno amaramente; S. è un personaggio privo di ambiguità, se non quella della contraddizione tra la sua voglia di partecipare e di opporsi (tenta di collaborare con i socialisti che stampano materiale di propaganda anti-nazista; nasconde armi durante i lavori forzati; si rammarica con l’amica: “Non sarei dovuto uscire… sarei dovuto rimanere e combattere”) e la sua condizione di fuga, di reclusione, di inattività, di passività. IL PIANISTA La fissità della cinepresa che riprende a distanza in panoramica la battaglia tra resistenti e tedeschi nella strada di Varsavia, proprio sotto la finestra di S., è l’emblema visivo di una soggettività immobilizzata e raggelata, costretta ad una spaventosa inazione, che probabilmente contribuisce alla sua salvezza, mentre gli insorti vengono sterminati dai nazisti.
Eppure ripercorrendo la filmografia polanskiana è innegabile che Il pianista sia il punto di confluenza di una serie di tematiche e di situazioni che caratterizzano tutto il suo cinema. La presenza del male nel cinema di P.(28) è pervasiva e declinata in una serie di significative varianti. Il male come entità metafisica e mitica (La nona porta, Per favore non mordermi sul collo, Rosemary’s Baby) e insieme come presenza costante e realistica nella storia (La morte e la fanciulla); il male come potere corruttore (Macbeth), che spesso esce vincitore nei conflitti contro chi lo ostacola (Chinatown); il male come introiezione che mina l’integrità mentale e morale degli individui (Repulsion, L’inquilino del terzo piano); il male che si manifesta come ambiguità, che corrompe tutto e tutti, vittime e innocenti compresi (La morte e la fanciulla, Tess). E il male nel cinema di P. vince: alleandosi con la morte o addirittura con la vita, come nel sardonico Rosemary’s Baby); a volte ammirando beffardo il proprio trionfo e la propria impunità, come fa Miranda ne La morte e la fanciulla, a volte trascinando nell’abisso le proprie pedine (come nel Macbeth o in Luna di fiele).
L’inquilino del terzo piano introietta al proprio interno una colpa inconoscibile e indefinibile ma non per questo meno inesorabile e meno meritevole di punizione, che lo accomuna da un lato al Gregor Samsa trasformato in scarafaggio dalla penna di Kafka, dall’altro al senso di vergogna colpevole provato dalle vittime dell’Olocausto: gettatosi dalla finestra e sopravissuto, non potrà che risalire faticosamente le scale per gettarsi di nuovo in un vuoto esistenzialistico e metafisico. La fanciulla nel Sudamerica delle dittature ha subito la tortura (associata all’accompagnamento musicale di Schubert, il cui brano dà il titolo al film: barbarie e cultura decadente si mescolano come nel Terzo Reich), come gli Ebrei nei campi di concentramento: ora la sua sete di giustizia si confonde con il desiderio di vendetta contro un individuo della cui colpevolezza non può possedere una certezza assoluta; gli sposini della Luna di fiele verranno irretiti come tanti “normali” nazisti dal fascino del male di cui si rendono più o meno consapevoli complici.
Il cinema di P. è inoltre da sempre un cinema concentrazionario, che rinchiude i personaggi in ambienti ristretti(29) , dove le possibilità d’azione sono limitate o inibite: che sia di volta in volta una barca sul lago Masuri (Il coltello nell’acqua), un castello isolato dalla marea (Cul de sac: un titolo programmatico); un appartamento a Manhattan (Rosemary’s Baby) o a Parigi (L’inquilino del terzo piano), una villa a Capri (Che?), ma anche, paradossalmente, la nave di Pirati, film che si vorrebbe d’avventura ariosa e marinara. Gli spazi chiusi, claustrofobici sono una reminescenza inconscia non tanto dei campi di concentramento, quanto dei nascondigli cui ebrei come Roman furono costretti a ricorrere per sfuggire ad un destino atroce. Ancora una volta L’inquilino del terzo piano esemplifica la situazione di un individuo kafkianamente schiacciato dalla colpa, chiuso in uno spazio fisicamente e psichicamente claustrofobico, che finisce per far propria la condanna inespressa che il mondo ha pronunciato contro di lui; così come il kammerspiel de La morte e la fanciulla inscena rispettando le tre unità aristoteliche il conflitto tra bene e male, giustizia e vendetta, seduzione e resistenza.
IL PIANISTA S., d’altra parte, condivide con molti protagonisti polanskiani un altro tratto: l’impotenza. Vittime non sempre totalmente consapevoli, impediti in qualche modo dagli spazi ristretti che si trovano ad abitare, gli “eroi” polanskiani (Rosemary, J.J. Gittes, Trelkowski, Tess e gli altri) hanno una possibilità d’azione limitata, e la loro volontà di resistenza e di ribellione è di solito destinata ad infrangersi contro un male fatto sistema che li circonda e li schiaccia.
Gli artisti S. e P. sopravvivono alla tragedia del ghetto seguendo due strategie diverse: S. si rifugia nel cuore di Varsavia, si incista nei suoi luoghi segreti, le case disabitate, gli appartamenti deserti, le cantine, le rovine. P. sceglie una strada diversa e mette tra sé e il ghetto tutta la distanza possibile, una distanza fatta di decenni, di luoghi, di film. Per entrambi, per fortuna c’è il lieto fine: se nella prima sequenza vediamo S. al pianoforte mentre le finestre esplodono sotto i colpi delle granate tedesche, alla fine lo vediamo ancora al piano, applaudito dalla folla in teatro; P. lascia una Polonia distrutta e prostrata, passata dal dominio nazista alla cappa politica e culturale dello stalinismo, per tornarvi solo dopo una sessantina d’anni, mettere in chiaro i propri incubi, e riscuotere un successo planetario.

(23)Un elenco non esaustivo dei riconoscimenti raccolti dal film include tre Oscar (regia, attore, sceneggiatura); il premio della Japanese Academy; i premi Bafta (in Inghilterra) come miglior film e miglior regia; il premio del pubblico al Bermuda International Film Festival; i premi come miglior film, miglior regia e miglior attore dell’associazione dei critici di Boston; la Palma d’Oro al Festival di Cannes; il premio dei critici spagnoli; il Leone ceco; i César francesi come miglior film, regista, attore, fotografia, musica, scenografia, suono; il David di Donatello in Italia; il premio del Cinema europeo per la miglior fotografia; il Fotogramas de plata; il Goya spagnolo come miglior film europeo; l’Harry Award; il premio per la miglior regia dei critici cinematografici italiani; premi della giuria e del pubblico al Cinema Junpo, al Concorso cinematografico Mainichi; le Aquile americane della Motion Picture Sound Editors come miglior film, colonna sonora, scenografia, suono; il premio del Circolo dei critici di San Francisco (elenco tratto da www.imdb.com).
(24)Citato in “Roman Polanski” di Flavio De Bernardinis e Stefano Rulli, Il Castoro editore, 1995, pag. 11.
(25)Ibidem, pag. 22.
(26) Una storia di sopravvivenza, prodotto da Keith A. Cox.
(27) In Una storia di sopravvivenza (v. nota precedente) le interviste coincidono su questo punto: “Era importante che questo film fosse sincero. Bisognava mettere da parte le idee brillanti e narrare soltanto le cose così com’erano nei nostri ricordi. (…) Volevo che fosse come nella vita. Non volevo dare più del necessario” (Polanski). “Avevamo capito che sarebbe stato un film quieto, con pochi movimenti di macchina e luci semplici. Tutto doveva essere invisibile, dovevamo dimenticare la tecnica, i trucchi. (…) Per servire il film dovevamo soltanto raccontare la storia con onestà e conformemente ai nostri ricordi” (Pawel Edelman, direttore della fotografia). “Bisogna essere rigorosi, non aggiungere niente di inutile” (Brody).
(28)Ricordiamo per la cronaca che il male ha inseguito Polanski ben al di là del ghetto: nel 1969 la setta satanica di Charles Manson fa irruzione nella villa di Bel Air mentre P. è in Europa e compie una strage in cui trova la morte tra gli altri la moglie Sharon Tate, che aspetta un bambino; qualche anno più tardi P. è accusato di aver molestato sessualmente una minorenne e viene rinchiuso in carcere per 42 giorni: dopo aver abbandonato gli Usa nel 1978 non vi potrà più rientrare, nemmeno per ricevere l’Oscar assegnatogli nel 2003 per Il pianista.
(29) Preferibilmente isole o imbarcazioni. Ma in Frantic un’intera metropoli europea e cosmopolita come Parigi (pur con un richiamo all’acqua e all’isola nel finale ambientato accanto ad una falsa Statua della Libertà) diventa un ambiente ostile e claustrofobico in cui il protagonista si muove da straniero indesiderato.