All’indomani della Prima Guerra Mondiale, la ricostituita Polonia, inglobando la Bielorussia e la lituana Vilnius,
appartenenti alla Russia, e la Galizia, appartenente all’Austria, arriva a contare una popolazione ebraica di tre milioni
di individui, in quella che può essere considerata la più grande comunità ebraica europea. Una concentrazione così
massiccia non è senza conseguenze e provoca gravi tensioni interne, con ricorrenti pogrom che diventano particolarmente
virulenti durante la guerra del ’20-21 contro la Russia bolscevica.
La comunità ebrea polacca tra le due guerre è variegata e composita, sia in senso socio-economico che culturale che
politico. Accanto ad un’esigua minoranza di banchieri, industriali e grossi commercianti, si trova la massa dei piccoli
commercianti, degli artigiani, e anche degli operai che lavorano nelle fabbriche urbane; mentre l’urbanizzazione porta ad
una maggiore integrazione sociale degli Ebrei polacchi, sopravvivono comunità chiuse dove si parla solo l’yiddish e si
rispettano rigorosamente i costumi tradizionali e i dettami della religione; nascono molte formazioni politiche
antagoniste, da quelle ispirate all’integralismo religioso fino a quelle di tendenza marxista; dalle organizzazioni
sioniste che propugnano il ritorno in Palestina a quelle che mirano all’ottenimento dei diritti civili, alla difesa
dell’autonomia culturale e al miglioramento delle condizioni di lavoro. Si sviluppano il movimento di emancipazione
femminile e la pubblicistica ebraica.
Questa comunità vivace e contraddittoria viene investita in pieno dall’ondata nazista. Nel settembre del 1939 la Polonia
viene aggredita prima dalla Germania da ovest e poi dall’Unione Sovietica da est. In meno di un mese viene cancellata dalle
carte geografiche, spartita tra gli aggressori e la Lituania. Sui quasi due milioni di Ebrei polacchi annessi alla Grande
Germania, si scatenano immediatamente le violenze naziste, con omicidi su larga scala, incendi di sinagoghe, stupri e
saccheggi. Gli ebrei polacchi vengono deportati nelle città maggiori, dove prendono forma i ghetti di medioevale memoria,
all’interno dei quali l’autorità viene affidata allo Judenrat, composto dai personaggi più influenti della comunità e
assoggettato alle forze di occupazione. Gli ebrei vengono identificati sui documenti, costretti a portare al braccio una
fascia bianca con una stella di Davide blu, limitati nei movimenti, soggetti al coprifuoco; nello stesso tempo comincia il
trasferimento di massa degli ebrei tedeschi, austriaci, moldavi e boemi nel Governatorato di Polonia, dove vengono spesso
adibiti a lavori forzati. Nell’inverno-primavera del ‘40 viene costruito il ghetto di Lodz; tra il ’40 e il ’41 i ghetti di
Varsavia, Cracovia, Lublino, Czetochowa, Kielce, Lwow. Depredati di tutto, costretti a vivere in quartieri sovrappopolati e
privi di servizi, molti trovano la morte per la fame e gli stenti. Nel 1941 i nazisti danno il via alla “soluzione finale”:
l’evacuazione e la deportazione verso oriente di tutta la popolazione ebraica. La persecuzione degli ebrei iniziata in
Germania per via legislativa già nel 1933, la politica concentrazionaria con la ghettizzazione degli ebrei polacchi, e
infine l’operazione di sterminio di massa già sperimentata nel 1939 con l’”operazione T4”, ai danni di circa 100.000 malati
mentali, handicappati, anziani infermi, “asociali”, trovano l’apoteosi con la costruzione e la gestione dei campi di
sterminio, collocati nella gran parte proprio sul territorio polacco. Chelmno (150.000 morti) entra in attività alla fine
del ’41, Belzec (560.000 morti) e Sobibor (200.000 ebrei morti oltre ad un numero imprecisato di prigionieri sovietici)
nella primavera del ’42; poi Treblinka (750.000 morti), Auschwitz-Birkenau (1.000.000 di morti), Maidanek (80.000 morti):
l’industria dell’orrore e della morte diviene una delle principali attività della Polonia nazista. La scelta della Polonia
è dovuta a diversi fattori: come abbiamo visto alla fine degli anni ’30 ha una densità di popolazione ebraica elevatissima,
che tiene vivo un forte sentimento antisemita storicamente radicato nella popolazione, e che viene convogliata nei ghetti
prima e ei campi di concentramento poi, dove verranno inviati anche gli ebrei deportati dall’ovest; dal punto di vista
logistico inoltre la Polonia possiede una buona rete del trasporto ferroviario e regioni scarsamente popolate che possono
ospitare e nascondere il più grande massacro organizzato mai concepito nella storia dell’umanità.
Fallita nel fuoco e nel sangue l’insurrezione del Ghetto nel ’43, nell’agosto ‘44 a Varsavia scoppia una nuova insurrezione;
ma nell’arco di due mesi l’eroica rivolta dei polacchi viene schiacciata dalla potenza nazista: i sovietici rimangono
attestati al di là della Vistola, senza intervenire; gli Alleati promettono aiuti che non arriveranno mai. Dopo 63 giorni
di insurrezione si contano 250.000 morti e la città è distrutta al 90% (il centro storico ricostruito di Varsavia è oggi
riconosciuto come patrimonio dell’umanità dall’Unesco).
La liberazione dei detenuti dai campi di concentramento, dopo la morte di circa sei milioni di persone, avverrà solo nella
prima metà del 1945: il 25 gennaio i Russi entrano ad Auschwitz in quella che oggi la Repubblica italiana celebra come la
Giornata della Memoria.
Per la Polonia inizia una nuova fase storica, quella dell’influenza sovietica, che durerà fino alla fine degli anni ’80 del
secolo scorso.