Se Polanski fugge dalla storia polacca per raccontare le sue inquietudini attraverso una cinematografia eterogenea marcata
sempre da una cifra personalissima e da un humor amaro e grottesco, Wajda (di seguito indicato con W.), di qualche anno più
vecchio di lui, costruisce nel corso dei decenni una filmografia che sembra mirare ad una rappresentazione esaustiva della
storia moderna della Polonia, quasi fondendosi con essa. Non sempre si tratta di una trattazione propriamente “storica”, in
quanto molti film raccontano, a caldo o quasi “in diretta” episodi avvenuti pochi anni prima o l’immediata contemporaneità.
Il risultato è un gigantesco affresco in cui (a parte incursioni in un passato antecedente, nelle quali il discorso sulla
Polonia è traslato, come nei film
Brami Raju(30) , in parte in
Pilato e gli altri(31) , o in
Danton(32) ) si va
dall’insurrezione anti-zarista del 1811-12 di
Pan Tadeusz(33) alla nascita del capitalismo polacco nella Lodz del 1880
(
La terra della grande promessa (34) ), al 1900 de
Le nozze(35) , agli anni ’30 di
Panny z Wilka(36) ; per
infittirsi negli anni della guerra con il ‘39 di
Lotna(37) , il ’41 di
Un amore in Germania(38) , il ’42 di
Korczak(39) , il ’43 di
Samson(40) e di
Wielki Tydzien(41) , il ’44 di
Generazione(42) , de
I dannati di
Varsavia(43) e ancora di
Pierscionek z orlem koronie (44), il ’45 di
Cenere e diamanti (45) e
Paesaggio dopo la
battaglia (46); per passare agli anni post bellici con i film della contemporaneità dagli anni ’60 ad oggi, passando per i
ripensamenti agli anni dello stalinismo de
L’uomo di marmo (47) e al suo seguito
L’uomo di ferro , che ci porta
agli anni di Wojtyla e di Solidarnosc.
L’interesse cinematografico di W. per gli anni tra il ’39 e il ’45, cruciali per la Polonia e per il mondo, ha una ragione
direttamente autobiografica: figlio di un militare di carriera, Andrzej si unisce all’Armata dell’Interno, i partigiani
agli ordini del governo polacco in esilio a Londra, nel 1942, quando ha appena 15 anni e vive da vicino le tragiche vicende
dell’invasione nazista che travolge la pur eroica resistenza dell’esercito polacco, della costruzione del Ghetto
all’interno della città, delle insurrezioni stroncate nel sangue e nel fuoco. W. non abbandonerà la Polonia se non
occasionalmente, e le sue vicende cinematografiche sono strettamente legate alla storia politica e culturale della sua
nazione, tra l’alternarsi di chiusure e caute liberalizzazioni che si succedono dalla destituzione di Gomulka e la
stalinizzazione della Polonia all’“ottobre polacco” e al processo di destalinizzazione; dall’avvento dell’era Breznev ai
movimenti studenteschi e alle proteste operaie del ’68 e del ’70, puntualmente represse; dall’elezione di Wojtyla al
soglio pontificio e la nascita di Solidarnosc allo stato d’assedio presieduto dal generale Jaruzelski, sino alla caduta del
muro di Berlino e alla nascita della nuova Polonia democratica, di cui Lech Walesa è il primo presidente (e di cui lo
stesso W. è senatore).
W. ritorna più volte sul tema della persecuzione degli Ebrei e della deportazione in maniera più o meno diretta in diversi
film , ma con esiti contradditori (49)che gli procurano addirittura ricorrenti accuse di antisemitismo(50) .
Samson, tratto da un romanzo di Kazimierz Brandys, del 1961, girato in cinemascope, si apre proprio con la
costruzione del Ghetto. La descrizione che ne fa lo stesso W. in un’intervista a “Positif”(51), pone immediatamente la
questione dello sguardo, interpella direttamente il nostro ruolo di spettatori: “i tedeschi che alzano muri e steccati.
Una folla di gente che
ci guarda, ed ogni volta, ad ogni mattone, ad ogni tavola che viene aggiunta,
vediamo
sempre meno persone, alla fine scompaiono completamente”. Ad essere messa in questione, pare, non è solo la coscienza dello
spettatore cinematografico, ma la passività con cui la popolazione polacca non ebrea ha potuto assistere senza opposizione
alla persecuzione degli ebrei polacchi .(52)
Passività, impotenza, fuga, occultamento, caratterizzano d’altra parte tutto l’agire di Jakub Gold, il protagonista del
film; elementi che lo apparentano immediatamente al protagonista de
Il pianista di Polanski. Uscito di prigione
dov’è stato rinchiuso dopo aver ucciso involontariamente uno studente durante un’aggressione razzista, Jakub si ritrova
nella Polonia dell’inverno ’39, invasa dai nazisti, e passa ad una nuova forma di prigionia, quella del Ghetto. Sfuggito
alle sue mura, è costretto a nascondersi in appartamenti e cantine, a vivere nel buio e nell’inazione. Quando Jakub troverà
il coraggio di ritornarvi, il Ghetto non esiste più, raso al suolo dai tedeschi dopo l’insurrezione del ’43. Riunitosi ad
un vecchio compagno di prigionia, ora partigiano comunista, Jakub trova una morte eroica durante un disperato tentativo di
resistenza.
La condizione di prigioniero e la costante presenza della morte segnano l’intera esistenza di Jakub, che passa dalla
prigione al Ghetto e dal Ghetto al buio delle cantine; recluso dopo un omicidio involontario, nel Ghetto si trasformerà in
becchino e dovrà seppellire la propria stessa madre; la ragazza che si è innamorata di lui, un’ebrea che si tinge i capelli
di biondo per fingersi ariana, dopo esserne stata respinta si consegna ai nazisti; e infine solo nella morte propria e dei
nemici Jakub troverà il riscatto e il compimento di una vita che non è mai stata degna di questo nome. A differenza dello
Szpilman polanskiano, Gold spezza l’inattività che lo riduce ad larva che vive nel buio, e proprio per questo
probabilmente, a differenza di quello, non sopravvive.
Nove anni dopo, nel 1970, W. ritorna sul tema con
Paesaggio dopo la battaglia. Ancora una volta la fonte è
letteraria, ed è costituita da una serie di racconti di Tadeusz Borowski, sopravvissuto ad Auschwitz e morto suicida nel
1959 a 29 anni. W. dichiara un coinvolgimento totale nel progetto: “Potrei facilmente immaginare il suo racconto come parte
della mia stessa biografia. Questo è il motivo per cui, quando se ne creò l’occasione, feci di tutto per trarre un film
basato su “La battaglia di Grunwald”.(53)
Anche stavolta l’esordio del film è indimenticabile. Mentre in colonna sonora arieggiano
Le quattro stagioni di
Vivaldi, vediamo da lontano dei prigionieri con consunte divise a righe che vagano spaesati nella neve. E’ l’inverno del
1945, e gli americani hanno appena aperto le porte di un campo di concentramento nazista. Il giovane intellettuale polacco
Tadeusz viene rinchiuso insieme ad altri in un campo di smistamento affidato agli americani. Ma con una disperata
rassegnazione si trova di nuovo a vivere l’esperienza della prigionia, così come quella della morte: la giovane ebrea Nina,
con cui ha iniziato una storia d’amore, viene uccisa per errore da un militare americano.
Il
Paesaggio dopo la battaglia nel quale si trova ad aggirarsi Tadeusz è contraddittorio. Contraddizioni che Tadeusz
vive sulla propria stessa pelle: intellettuale maniacalmente attaccato ai suoi libri, Tadeusz è divorato dal più devastante
dei bisogni fisiologici, la fame; la libertà appena riacquista si traduce in una nuova prigionia, la liberazione in una
nuova permanenza in una caserma SS riutilizzata dagli americani; la possibilità dell’amore si traduce in morte. Tadeusz è
scettico, la sua arma di sopravvivenza sono la durezza e il cinismo, che lo rendono insensibile sia alla rinascente
retorica del nazionalismo polacco, sia all’ottimismo comunista, sia ai tentativi consolatori della fede religiosa; è
insensibile anche al dolore, alla morte. “Arrivarono i camion con le donne nude”, dice Tadeusz, “tendevano le mani verso di
noi, ci imploravano di salvarle… dovevano essere gasate… e nessuno si è mosso, nessuno su novemila… ognuno voleva vivere:
i vivi hanno sempre ragione, non i morti”. Tadeusz è sopravvissuto grazie ad una sorta di morte spirituale, di rinuncia
alla speranza e all’umanità.
Mentre i deportati sono ancora in attesa di liberazione, già è iniziato il processo di museificazione della memoria,
rappresentato da un gruppo di americani in visita ai forni crematori(54). Forse solo la morte di Nina darà a Tadeusz quella
scossa che gli permetterà di ripartire verso quella patria sul cui territorio sono stati sterminati milioni di individui
come lui, e alla quale Nina non voleva più tornare.
Nel 1990 infine, W. riesce a realizzare in Polonia un suo progetto decennale, per il quale aveva pensato in alcuni momenti
anche ad una produzione estera. Stavolta la fonte non è letteraria (alla stesura della sceneggiatura partecipa Agnieszka
Holland) e il personaggio è un personaggio reale: il dottor Janusz Korczak, il cui nome dà il titolo al film, medico,
scrittore ed educatore ebreo polacco che dedica la sua vita alla cura degli orfani. Nell’agosto del 1942 le SS rastrellano
i circa duecento orfani ancora affidati alle sue cure per indirizzarli ai campi di sterminio. Korczak, malgrado abbia la
possibilità di avere, almeno per il momento, salva la vita, sceglie di non abbandonarli e parte con loro verso Treblinka,
dove troverà la morte in una camera a gas. Santo laico, eroe e martire, Korczak è di nuovo un eroe wajdiano nel suo non
indietreggiare davanti al sacrificio supremo.
Le preoccupazioni di W. nell’affrontare il
Korzack ricordano quelle
che saranno di Polanski nei confronti de
Il pianista, e lo spingono a ricercare uno stile cinematografico semplice
e sincero, fino al recupero della fotografia in bianco e nero dei suoi primi film, affidata ora ad uno dei migliori
fotografi del momento, Robby Müller, che ha firmato le luci di molti film di Wenders.
Ma le buone intenzioni di W., ancora una volta, si scontrano con polemiche, fraintendimenti, e accuse di antisemitismo
(che già avevano colpito
Samson, La terra promessa, Paesaggio dopo la battaglia, a dimostrazione di quanto la
questione ebraica sia un nervo scoperto anche nella cultura polacca del dopo-guerra). Stavolta le critiche arrivano dalla
Francia: Daniéle Heymann su “Le Monde”(55) rifiuta il film in modo categorico (“sull’orlo del revisionismo”)(56) e attacca in
particolare il finale del film, una scena semi-onirica nella quale le porte del treno merci che sta trasportando al campo
di sterminio di Treblinka i bambini di Korczak inaspettatamente si aprono e “noi vediamo come le piccole vittime, piene di
energia e di gioia, emergano al rallentatore dal treno della morte” per sparire nel paesaggio nebbioso. Se la biografa di
W., Betty Jean Lifton, collega il finale fiabesco ad una leggenda popolare sorta intorno alla fine (o alla non-fine) di
Korczak(57) , W. stesso preferisce ribaltare l’accusa sui francesi, a loro volta imputati di non affrontare il proprio
antisemitismo(58) .
La polemica segnala comunque il persistere di una resistenza insuperabile. Incarnazione dell’artista impegnato nella storia
civile del proprio tempo(59) , neppure W. osa violare il tabù che segna la soglia del lager e darne una rappresentazione
diretta(60) . Jakub Gold sfugge alla deportazione con la morte; i bambini di Korczak viaggiano verso Treblinka senza arrivarvi
mai (almeno nel film) e Tadeusz ne è già uscito. Se la Storia è il campo visuale in cui spazia il cinema di W., il lager è
il
fuori-campo, da cui giungono ricordi, echi e voci. Il lager rimane il buco nero della Storia, intorno al quale
ci si può aggirare, nel quale si può tentare di gettare uno sguardo da vicino,
obliquamente, ma senza entrarvi mai.
Nel 2002 Wajda si trova a parlare ancora della deportazione con
Pamietam(61) , un documentario di un’ora circa che fa
parte del progetto
Broken Silence(62) . Diversamente da tutti gli altri registi coinvolti nel progetto, W. non usa
materiali di repertorio; nelle riprese in bianco e nero si alternano le testimonianze di quattro sopravissuti alla
deportazione e le immagini di giovani che partecipano all’annuale “Marcia dei vivi” ad Auschwitz. Ancora una volta,
l’orrore del lager si nega allo sguardo, attenuato dallo scarto temporale nelle immagini e dalla mediazione verbale nelle
testimonianze.
(30) T.l.: Le porte del paradiso, Gb-Jug., 1967.
(31) Pilatus und andere, Rft, 1973.
(32)Fr., 1982.
(33)Pol-Fr, 99.
(34) Ziema obiecana, Pol. 1974.
(35) Wesele, Pol., 1972.
(36)T.l.: Le signorine Wilko, Pol-Fr, 1979.
(37)Pol, 1959. Attraverso le vicende della cavalla Lotna si racconta del fallimento della resistenza polacca contro i tedeschi.
(38) Eine liebe in Deutschland, Rft-Fr, 1983. Nel 1941, una donna tedesca, il cui marito è in guerra, si innamora di un prigioniero polacco. La legge proibisce le relazioni tra ariani e non ariani: la conclusione della storia d’amore sarà l’impiccagione per lui e la deportazione in campo di concentramento per lei.
(39)Pol-Rft-Fr, 1990.
(40)Pol, 61.
(41)V. nota 10.
(42) Pokolenie, Pol, 1954. Un gruppo di giovani nell’estate del ’44, prima e durante l’insurrezione, in cui l’Armata dell’interno e i partigiani comunisti tentano di opporsi ai nazisti. Tra due giovani nasce anche una storia d’amore; alcuni muoiono, altri vengono arrestati, ma la lotta non si ferma. Nel film recita anche il giovane Roman Polanski.
(43) Kanal, Pol, 57. Il titolo originale significa “fogna” e racconta la storia parallela di tre gruppi di partigiani in fuga nei sotterranei di Varsavia. Il desiderio di libertà, di amore, di eroismo si consumano nel buio, nella paura, nella disperazione e nella morte.
(44) T.l.: L’anello con l’aquilla coronata, Pol-Gb-Germ-Fr, 92, ambientato durante l’insurrezione di Varsavia.
(45) Popiol i diament, Pol, 1958. L’8 maggio 1945 la Germania firma la resa incondizionata. Un partigiano dell’Armata dell’interno non depone le armi e riceve l’incarico di assassinare il nuovo segretario comunista della regione, che rientra dall’esilio in Unione sovietica. Porterà a termine la sua missione a costo della morte.
(46) Krajobraz po bitwie, Pol, 1970.
(47) Czlowiek z marmuru, Pol, 1977.
(48) Czlowiek zzelaka, Pol, 1981.
(49) Nel 1977 firma inoltre le riprese dello spettacolo teatrale La classe morta di Tadeusz Kantor, a proposito del quale si veda il saggio di Francesca Contini in questa stessa pubblicazione.
(50) Su “Film” nel settembre 1961, a proposito di Samson, Konrad Eberhardt riassume così un abituale set di accuse: “…falsa immagine di questo e quello, inedaguatezza del carattere di Jakub, incapacità del film di sopportare il carico concettuale, dramma del Ghetto ancora non toccato, ecc.”.
(51) n. 74, marzo 1966. I corsivi sono miei.
(52)Uno dei giovani protagonisti di Generazione rifiuta egoisticamente, almeno inizialmente, di portare aiuto ad un amico ebreo rinchiuso nel ghetto.
(53) In www.wajda.pl (mia traduzione dall’inglese).
(54) “Un crematorio era soggetto per una cartolina. Oggi i turisti vi si fanno fotografare”, dice il commento di Jean Cayrol a Notte e nebbia di Alain Resnais (v. nota 1).
(55)13 maggio 1990.
(56) Non migliore sorte avrà il successivo Wielcki tydzien (v. nota 10), tratto da un racconto di Jerzy Andrzejewski. Anche in questo caso c’è chi, come Shlomo Schwartzberg su “Boxoffice Magazine”, parla di “tedioso revisionismo” a proposito della descrizione del comportamento dei Polacchi verso gli Ebrei all’epoca della deportazione.
(57) “The New York Times”, 5 maggio 1991.
(58)V. l’intervista rilasciata a “The Sarmatian Review”, aprile 2003.
(59)Per la forte riflessione sulla vita e la morte, sullo storico destino della sua nazione e sull’uomo tragicamente impotente davanti alla storia Wajda viene insignito nel 1999 dell’Oscar alla carriera.
(60) Su questo tema, che è la questione preliminare a qualsiasi discorso sulla rappresentazione della deportazione nazi-fascista, vedi in questa stessa pubblicazione il saggio “…” di …
(61) t.l. Io ricordo.
(62) Il progetto nasce nell’ambito dell’attività della Survivors of the Shoah Visual History Foundation voluta da Steven Spielberg dopo aver girato Schindler’s List, e intesa a raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti allo sterminio. Oltre ad aver raccolto più di 50.000 testimonianze filmate in 57 Paesi del mondo, la Fondazione affida nel 2002 a cinque registi di diversa nazionalità la realizzazione di cinque documentari. Oltre a quello di Wajda gli altri film sono Algunos que vivieron (o Some Who Lived) dell’argentino Luis Puenzo, A Holocaust Szemei (o Eyes of the Holocaust) dell’ungherese Janos Szasz, Children from the Abyss del russo Pavel Chukraj e Peklo na Zemi (o Hell On Earth) , del ceco Vojtech Jasny.