In modo meno evidente rispetto a David Lynch o a Gus Van Sant,
Michael Mann prosegue con
Miami Vice (le cui
similitudini-derivazioni dall'omonimo
serial finiscono proprio qui, nell'omonimia del titolo) il proprio percorso
astratto. L'iperrealismo dello stile è infatti accompagnato da un volontario e progressivo svuotamento della sostanza
narrativa, sempre meno al centro dell'attenzione, e dunque sempre più
laterale punto di forza. Lo aveva già
mostrato in
Collateral, film che condivide con questo non solo attore (Jamie Foxx) e tecnica digitale, ma atmosfera,
linguaggio e strategie formali. E' così che Mann risolve intelligentemente il patto tra necessità commerciali (la presenza
di divi dal poco peso espressivo; l'
action degli inseguimenti; l'estrema, in quanto semplificata, fruibilità della
storia) ed esigenze d'autore: operando un trattamento squisitamente formale ad una storia esile e convenzionale (là un killer
che agisce di notte e che coinvolge nel suo cammino di morte un ignaro tassista, qui due detective infiltrati in un
temibile giro di narcotraffico), attraverso la scarnificazione del racconto e il conseguente potenziamento del segno
filmico.
Miami Vice è tutto infatti nei timbri della luce, nelle atmosfere notturne, nei contrasti chiaroscurali,
nei
ritmi musicali (ora sincopati, ora compressi, ora dilatati), nelle accellerazioni del battito percettivo, negli scarti
della macchina da presa e negli assoluti di un cinemascope che valorizza, elettrizzandoli, i volti, comprimendo il primo
piano e allargando l'imbuto infinito alle sue spalle. Cinema-cinema, insomma, dove lo sguardo è fuoco e
shot.
Romantico, adrenalinico e crepuscolare.
MASSIMO ZANICHELLI