Tra i registi americani di spicco della postmodernità - David Lynch, Joel & Ethan Coen, Gus Van Sant, Quentin Tarantino - si
staglia con decisione anche il profilo di Michael Mann (Chicago, 1943), tra i cineasti più
cinematographer del
nostro presente, e tra gli autori più brillanti e personali nel riuscire a coniugare le regole dello spettacolo
hollywoodiano con le proprie sperimentazioni/ ossessioni, fino ad approdare, almeno da
Heat (1995) in poi, ad uno
stile peculiare assai riconoscibile.
In questi giorni è nelle sale il suo ultimo film
Miami Vice, che pochissimo - anzi nulla, eccetto il titolo - ha a
che spartire con l'omonimo serial televisivo che lo stesso Mann firmò come produttore esecutivo nel 1984, quando aveva già
all'attivo per il cinema due film personali ma inosservati come
Strade violente (1981) e
La fortezza
(1983).
Serial che certo lasciò un segno nell'elaborazione stilistica di
Manhunter (1986), suo primo importante
film (oggetto nel 2002 di un debole remake con un cast all star), un thriller ibrido e postmoderno, non sempre riuscito ma
già potente e allucinatorio, notturno e visionario, che mutua con esiti discontinui ma affascinanti una certa estetica
kitsch tra pop e videoclip; che si segnala per la prima apparizione narrativa del personaggio di Hannibal Lecter (qui
interpretato da Brian Cox), nato dalla penna di Thomas Harris (il film è tratto dal suo romanzo
Red Dragon), in
anticipo sui film di Jonathan Demme e Ridley Scott, nonché sull'iconografia in seguito conferitagli da Anthony Hopkins; e
che consegna uno dei serial killer più complessi e problematici (e dunque tra i più attraenti) della storia del cinema:
"Dente di Fata", superbamente interpretato da Tom Noonan, personaggio che stacca decisamente per fascino ed interesse
quello del protagonista, l'agente Will Graham, un William L. Petersen (il Gil Grissom di
C.S.I.) meno brillante
rispetto a
Vivere e morire a Los Angeles firmato da William Friedkin un anno prima.
Erede della grande tradizione classica americana, Michael Mann si è cimentato con i principali generi cinematografici
(l'action di
Strade violente, l'horror de
La fortezza, il thriller di
Manhunter, l'avventura
intinta di storia de
L'ultimo dei Mohicani, il dramma civile di
Insider, il biopic di
Alì)
e con
un nutrito numero di star hollywoodiane (James Caan, Russel Crowe, Tom Cruise, Daniel Day-Lewis, Colin Farrell),
spesso con risultati sorprendenti (dall'essere riuscito con Heat a mettere insieme la coppia Al Pacino-Robert De
Niro dai tempi del
Padrino - parte II, dove però non comparivano nella stessa inquadratura, alla metamorfosi di
Will Smith per il ruolo di Cassius Clay in
Alì),
ma è con il noir che Mann riesce a meglio esprimere il suo
incredibile talento visivo e il suo mondo interiore. Noir che non solo attraversa trasversalmente diverse sue opere -
da
Manhunter ad
Insider, un coraggioso dramma d'impianto civile girato come un thriller -,
ma compone
la materia di tre film indissolubilmente legati tra loro: il già citato Heat, Collateral (2004) e, appunto, Miami Vice.
Di questo trittico, il capostipite è senz'altro
Heat, attualmente il capolavoro di Mann per respiro,
profondità e avvolgenza. Una storia corale che mescola diversi personaggi e destini, un taglio sincretistico nel registro
narrativo (epico come un western, romantico come un melodramma, avvicente con un poliziesco, cupo, appunto, come un noir),
uno stile che afferma, per la prima volta nella filmografia del regista, quegli stilemi visivi che ritorneranno, anche con
accenni più radicali, nei film successivi: la luce notturna e i timbri chiaroscuri; l'apertura alare dei grandangoli; il
contrappunto primo piano-campo lunghissimo, che spesso convivono anche all'interno dell'inquadratura, dove i volti vengono
sagomati per allargare lo spazio retrostante; la controllata oscillazione (per nulla "modaiola") della cinepresa, alternata
a movimenti di macchina "sinfonici", che mirano al raccordo e al largo respiro; la giustapposizione tra montaggio sincopato
e stasi narrativa, tra rumori assordanti e silenzio. I suoi film godono di una purissima carica cinematografica, e il
linguaggio di Mann gioca per opposizione con i contrasti, i contrappunti, gli iati, le cesure, gli asindeti, le distonie,
tanto nel gioco delle immagini e nei riverberi della fotografia, quanto con i suoni, i rumori e il commento musicale del
sound design.
I temi contenuti in queste "scatole sensoriali" appartengono al repertorio classico del cinema americano di genere
(soprattutto western, gangster, noir e poliziesco):
la solitudine dell'individuo, l'amicizia virile, il confronto, la
sfida, il senso dell'onore e della lealtà. I suoi personaggi esprimono profili tutti d'un pezzo, terribilmente coerenti,
ma anche sfumati, chiaroscurali, mobili. Un
epos che sostanzia il profilo di un eroe pienamente moderno: solo,
silenzioso, efficiente, perfettamente aderente al proprio destino, che spesso si chiude con la morte o l'annientamento.
E niente in loro è più lontano della tradizionale suddivisione tra buoni e cattivi. Sono soprattutto uomini, colti del
loro agire e nelle loro contraddizioni, nella loro poetica del fare, vibrando dentro di loro il pulsare della vita e il
divenire delle cose. Così le coppie di antagonisti del cinema di Mann - il detective Graham e il serial killer Dente
di Fata di
Manhunter, il poliziotto Vincent Hanna e il rapinatore Neil McCauley di
Heat, il giornalista
televisivo Lowell Bergman e il "delatore" Jeffrey Wigand di Insider, il killer Vincent e il tassista Max di
Collateral - scoprono nell'altro il lato speculare del proprio essere, consapevoli di possedere valori assoluti
assai simili pur se di segno opposto, che li portano all'estremo limite del proprio agire, anche di fronte alla realtà
dell'autodistruzione (Dente di Fata, McCauley e Vincent moriranno per essere stati se stessi fino in fondo).
Heat è uno di quei rari film che si offrono non solo come visione ma come esperienza. Tre ore di grande,
invidiabile fluidità narrativa (lo script è dello stesso regista), sembrano perfino insufficienti per elaborare il grande
affresco psicologico-esistenziale che si sviluppa e dipana attraverso una storia parallela di destini e crocevia intorno
alle figure carismatiche del detective Hanna (Al Pacino) e del rapinatore McCauley (Robert De Niro), schierati sulle sponde
opposte delle legalità, e pertanto avversari, ma dichiaratamenti affini nel rigore e nel perfezionismo del proprio lavoro,
anche se, proprio per questo, irrimedibilmente perdenti nei sentimenti: Hanna, dopo due matrimoni falliti, è in crisi con
la terza moglie (Diane Venora), e un giorno si ritrova nella vasca da bagno la figliastra Lauren (Natalie Portman) con le
vene dei polsi tagliate, mentre McCauley non riuscirà a coronare la fuga con Eady (Amy Brenneman), mantenendo fede alla
propria filosofia di vita («non fare entrare nella tua vita niente da cui tu non possa sganciarti in trenta secondi netti
se senti puzza di sbirri dietro l'angolo»), nel momento esatto in cui manda tutto all'aria per punire Waingro, il traditore
che aveva messo a rischio il colpo alla banca, sventato dalla squadra di Hanna in uno dei conflitti a fuoco più emozionanti
della storia del cinema: una sequenza-shock di tre minuti di sola sparatoria ambientata per le strade di Los Angeles, in
mezzo ai civili, senza musica, capace di produrre nello spettatore stordimento e ipnosi al contempo. Questo acme
parrossistico arriva direttamente dalle due scene di massacro (iniziale e finale) del
Mucchio selvaggio di Sam
Peckinpah, così come la decisione del gruppo di accettare l'ultima impresa suicida.
Ed è proprio l'impossibilità/infelicità dell'amore a svelare la vena romantica del cinema di Mann, così sottovalutata
dalla critica da rischiare di passare inosservata. E' il
romanticismo crepuscolare delle storie d'amore tra
Vincent/Justine (Al Pacino/Diane Venora) e Chris/Charlene (Val Kilmer/Ashley Judd) in
Heat; è quello
potenziale tra Max (Jamie Foxx) e Annie (Jada Pinkett Smith) in
Collateral; è quello
tempestoso e
fiammeggiante tra Occhio di Falco (Daniel Day-Lewis) e Cora (Madeleine Stowe) e quello
non consumato, tutto
interiorizzato, espresso con la forza dello sguardo - tra i più poetici e puri mai visti - tra Uncas (Eric Schweig) e
Alice (Jodhi May) ne
L'ultimo dei Mohicani; è quello
malinconico tra Sonny Crockett (Colin Farrell) e
Isabella (Gong Li) in
Miami Vice; è quello
impossibile tra Dente di Fata (Tom Noonan) e Reba (Joan Allen) in
Manhunter, e tra McCauley (Robert De Niro) e Eady (Amy Brenneman) in Heat.
Collateral e
Miami Vice agganciano il plot e lo stile di
Heat - ormai uno stile "alla Michael
Mann", che permea e si approfondisce nei due film successivi:
Insider e
Alì - ma ne radicalizzano la
forma, conducendola verso un'espressione sempre più astratta.
Collateral, così come
Miami Vice, condivide con
Heat il tema della coppia e parte della struttura
narrativa. Al confronto/scontro Hanna/MacCauley fa infatti eco quello tra Vincent e Max. Ambedue le coppie vedono schierati
i protagonisti sugli opposti poli del vivere e della giustizia (Hanna è un poliziotto e Max un tassista, mentre il bandito
McCauley e il killer Vincent - che, tanto per mescolare le carte è lo stesso nome di Hanna - appartengono al mondo
dell'illegalità). Ambedue si muovono in una metropoli notturna (vero soggetto di
Collateral). Ambedue arriveranno,
attraverso due sequenze memorabili (la sparatoria urbana di Heat e lo scontro a fuoco nella discoteca in
Collateral) e secondo differenti strategie narrative (la coppia di
Heat si muove su direzioni narrative
parallele e ha soli due momenti di contatto: la chiacchierata al ristorante e il finale all'aeroporto, mentre quella di
Collateral rimane fianco a fianco in tutto il corso del film, separandosi solo nel prefinale della storia), al
confronto/scontro finale, che vede la morte di McCauley da una parte e di Vincent dell'altra, uccisioni doverose (il senso
della giustizia in
Heat, la difesa di un'innocente in
Collateral) ma a loro modo eseguite controvoglia e
per forza, come se una parte della simbiosi - sancita dalla permanenza di Hanna (che addirittura tiene la mano di McCauley
nel momento del trapasso) e di Max davanti alle salme morenti del proprio alter ego - si fosse consumata senza redenzione.
Miami Vice ripropone il tema della coppia già di
Heat e
Collateral ma rovesciandola di segno: i
due protagonisti - Sonny Crockett (Colin Farrell) e Ricardo Tubbs (Jamie Foxx, il Max di Collateral) - appartengono alla
stessa "sfera morale", per così dire, essendo ambedue schierati sulla stesso fronte della giustizia e formando un sodalizio
obbligato per lavoro ma spontaneo e verace nei sentimenti. La trama di
Miami Vice (le disavventure di una coppia
di detective di Miami infiltrati in un pericoloso giro di narcotraffico per conto dell'FBI) è ancora più esile e meno
originale di
Collateral (un killer a pagamento deve eliminare cinque bersagli nel corso di una notte prendendo in
ostaggio un tassista come complice), che già segnava il passo in quanto a complessità e novità rispetto ai film precedenti
e a
Heat in particolar modo. Speculare è invece lo stile e l'ordito figurativo, a cominciare dalla commistione
tecnica tra digitale e pellicola, che permette di filmare senza ostacoli e soluzione di continuità l'odissea notturna di
Vincent e Max, come gli inseguimenti e gli scontri a fuoco di
Miami Vice - che si apre in discoteca, citando la
scena madre di
Collateral, e che contiene al suo interno anche diversi riferimenti a
Heat, tra cui la
discesa forsennata delle scale da parte di Sonny, del tutto identica a quella di Hanna in ospedale dopo il tentato suicidio
della figliastra; la casa sull'oceano di Sonny che richiama quella di McCauley; il confronto finale tra i due schieramenti
(polizia e narcotrafficanti), con tanto di cecchini nascosti, che ricorda l'imboscata tesa a McCauley da Van Zant - fino
alla moltiplicazione forsennata di cangiantismi, screziature e baluginii di luce e colore (si noti anche il look inedito
dei tramonti filmati in digitale).
Se dunque gli ultimi due film di Mann tradiscono minor originalità narrativa, e una maggior aderenza a valori di genere
della produzione mainstream, la parola "collateral" diventa esplicativa di nuova poetica: l'astrazione. E tanto
Collateral (film) quanto Miami Vice la sostanzierebbero come manifesti filmici. E proprio la parola
"filmico" assume una connotazione chiave: il progressivo svuotamento della sostanza narrativa, sempre meno al centro
dell'attenzione, e conseguentemente sempre più laterale punto di forza, lascia libero spazio - con effetto, appunto,
collateral(e) - all'elaborazione di uno stile iperrealistico sganciato dal mordente della fiction a vantaggio di
un'esplorazione visiva, anzi visionaria, per non dire allucinatoria, del fatto filmico. E proprio
in questi due film
così evidentemente lontani dalle opere precedenti in quanto a profondità e articolazione di storia e intreccio
(semplificato fino ai minimi termini in fatto di fruibilità),
così come d'impronta attoriale (Tom Cruise, Jamie
Foxx e Colin Farrell non hanno certo l'allure e la tridimensionalità di Al Pacino, Robert De Niro, Daniel Day-Lewis,
Russel Crowe)
si assiste a questa metamorfosi: il trattamento squisitamente formale di una materia convenzionale verso
un alto tasso di verosimiglianza e pregnanza visiva attraverso l'iperrealtà dell'immagine cinematografica, e la
scarnificazione del racconto a vantaggio di un segno filmico potenziato a dismisura. Così tanto
Collateral
quanto
Miami Vice sono interamenti contenuti nei timbri della luce, nelle atmosfere notturne, nei contrasti
chiaroscurali, nei ritmi musicali sincopati/compressi/dilatati secondo il registro emotivo delle scene, nelle
accelerazioni del battito percettivo, negli scarti della macchina da presa e negli assoluti di un cinemascope che
valorizza, elettrizzandoli, i volti, comprimendo il primo piano e allargando l'imbuto infinito alle sue spalle. Cioè nel
potere immaginifico - assoluto - dell'audiovisione.
Cinema-cinema, dunque: da vedere, da ascoltare, da vivere come una
lunga esplorazione emozionale in chiave romantica, adrenalinica e crepuscolare. Il rischio del futuro è nel
formalismo e nella serialità, ma oggi tutto questo si offre come qualcosa di terribilmente eccitante.