FUORISCHERMO

 

LA RIVOLUZIONE DEI SERIAL
- prima puntata -
HILL STREET BLUES E' esagerato affermare che le novità più interessanti dell'attuale produzione statunitense mainstream arrivano dalle fiction televisive dei serial, anziché dalla maggior parte delle produzioni per il grande schermo?
La qualità del cinema americano del presente sembra infatti misurarsi più attraverso l'estro degli indipendenti - da Jim Jarmusch al gruppo formato dai due Anderson (Paul Thomas e Wes), da Todd Solondz (puntualmente ostracizzato dalla distribuzione di casa nostra), da Alexander Payne, da Sofia Coppola, da Spike Jonze e via dicendo, passando per la vena altalenante di un Abel Ferrara - o di alcune figure carismatiche dai rapporti pressoché conflittuali (David Lynch) o più o meno intelligentemente risolti (Michael Mann) con le major, che non attraverso i prodotti di queste ultime, dalle commedie scipite ai faraonici blockbuster governati dagli effetti speciali.
La produzione televisiva, d'altro canto, ha saputo negli ultimi due decenni gradatamente svincolarsi da soggetti per famiglie, regie anonime e buonismo generalizzato per inventare fiction coraggiose, scomode, a tratti urticanti, con script di ferro, originali nel trattamento narrativo, nei personaggi, nella drammaturgia, pur muovendosi nell'ambito di un format codificato dai generi e costretto nello spazio circoscritto dello schermo televisivo.
Una carrellata cronologica, suddivisa per generi, sulle principali tappe di questa metamorfosi ci aiuterà forse a focalizzare nel dettaglio un fenomeno che - a quanto pare - non ha nessuna intenzione di arrestarsi.

Il "nuovo" poliziesco moderno tra realismo e sperimentazione
STARSKY & HUTCH Ricordate Starsky & Hutch, T.J. Hooker e Miami Vice? La recitazione finto-introversa di Paul Michael Glaser (Dave Starsky), i manierismi imbolsiti dell'ex capitano Kirk (Stark Trek) William Shatner (T.J. Hooker), o addirittura le pose da fotomodello di Don Johnson (James "Sonny" Crockett)? Il manicheismo psicologico e l'artificiosità narrativa, totalmenti sganciati dal quotidiano in nome di un'astrazione compiacente puntualmente risolta dall'happy ending (Starsky & Hutch); i risvolti reazionari delle storie (T.J. Hooker); lo stile patinato e griffato da video-clip (Miami Vice): tutto questo viene completamente azzerato dal neo-realismo affatto consolatorio di Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues, 1981), la serie dei primi anni Ottanta, prodotta da Steven Bochco (che nel decennio successivo avrebbe assestato un altro bel colpo al sistema con NYPD) e sceneggiata da Mark Frost (nel 1990 complice con David Lynch dello script di Twin Peaks), che ha rovesciato i cliché del poliziesco seriale. Non più infatti improbabili, stereotipate coppie di "eroi" deus ex-machina dai caratteri antitetici (il biondo e il bruno, il veterano e la recluta, il bianco e il nero), ma la vita (tra pubblico e privato) di un gruppo di poliziotti di un distretto periferico non ben identificato di una metropoli non ben identificata; non più sequenze girate in studio ma riprese per la strada; non più uno stile luminoso e neutro, devitalizzato e superficiale, ma una fotografia sporca e chiaroscurale; non più sigle musicali orecchiabili e sgargianti ma un "basso continuo" per piano, sintetizzatori e violini dai temi agrodolci; non più storie da tavolino, atte a confortare e compiacere, ma i dubbi, le contrarietà e le afflizioni della vita quotidiana che investono il coro dei personaggi. Dal HILL STREET GIORNO E NOTTE tenente italoamericano Frank Furillo (Daniel J. Travanti), innamorato dell'avvocato Joyce Davenport (Veronica Hamel) e tormentato dalle crisi esistenziali dell'ex moglie Fay (Barbara Babcock), al frustrato Ray Calletano (René Enriquez), dall'empatico detective Henry Goldblume (Joe Spano) all'insensibile tenente Howard Hunter (James B. Sikking), implacabile capo di una squadra di tiratori scelti. Le vicende non si esauriscono necessariamente in una puntata (Hill Street è stato uno dei primi serial in senso stretto, cioè dotato di una struttura temporale consequenziale, di contro alla molteplicità delle series precedenti, caratterizzate da episodi autoconclusivi) e non finiscono necessariamente bene: a volte ci scappa perfino il morto ("novità" drammaturgica di rilievo rispetto al passato), come nel caso dell'agente Joe Coffey (Ed Marinaro), ucciso per strada da un rapinatore. Non più spettacolari inseguimenti mozzafiato in automobile per le vie della città, ma un registro più verosimile e psicologico, in cui l'elemento tragico, aspro e malinconico viene compensato da una serie di umoristici siparietti o personaggi macchiettistici (uno su tutti: Mick Belker, interpretato da Bruce Weitz, un detective, perennemente sudicio e ringhioso, che lavora come infiltrato, che ha l'abitudine di mordere gli arrestati riottosi, e la cui vita si equidivide tra le telefonate di una madre ingombrante e i teneri sentimenti verso la poliziotta Robin Tartaglia). Non più salvataggi dell'ultima ora a suon di sgommate, ma storie appese ad un filo, fragile come le nostre vite. Non più poliziotti tutti d'un pezzo, paladini di una giustizia da esportazione, ma personaggi SULLE STRADE DELLA FICTION credibili (cioè individui) dotati di contraddizioni, conflitti e chiaroscuri: «i protagonisti di Hill Street Blues sapevano rivelarsi poco professionali, omertosi, amorali, venali, indisciplinati e volgari. […] Non apparivano del tutto insensibili alle tentazioni dell'abuso di potere, del carrierismo, dell'alcol, del sesso a pagamento e delle scommesse clandestine, vizi che in fiction precedenti erano stati quasi sempre attribuiti a poche, isolate "mele marce", comunque destinate a non rimanere impunite» (Roberto Pastore, Sulle strade della fiction. Le serie poliziesche americane nella storia della televisione, Lindau 2002, pp. 121-122). Hill Street rappresenta uno spartiacque, un punto di rottura, un nevralgico break con il concetto di telefilm poliziesco fino a quel momento in voga nelle principali produzioni televisive.
Nello stesso torno di tempo un altro serial introduceva importanti novità a livello di script: New York, New York (Cagney & Lacey, 1982), protagoniste due detective nella metropoli della Grande Mela: la mora e materna Mary Beth Lacey (Tyne Daly) e la bionda e single Christine Cagney (Sharon Gless), nome che la associava umoristicamente ad una delle icone maschili più rough del cinema hollywoodiano degli anni Trenta/Quaranta: James Cagney. La novità radicale dei personaggi (una coppia di poliziotte) e dello stile (per nulla spettacolare, prosaico più che realistico, interamente agganciato a storie e problematiche del quotidiano), che di fatto sancivano una considerevole distanza dal calligrafismo glamour delle Charlie's Angels, non avrebbe trovato seguito.
Più tardi, all'inizio degli anni Novanta, e sempre per mano di Steven Bochco, le novità di Hill Street sarebbero state radicalizzate da New York Police Department (NYPD Blue, 1993). Un'altra storia corale, NYPD ambientata nel 15° distretto di New York, ma con inedite soluzioni stilistico-drammaturgiche (che causarono una vera e propria ondata di polemiche e invettive - negli USA la serie fu bollata con la "R" del divieto ai minori e da noi Canale 5 lo mise in onda in seconda serata con il bollino rosso e privandolo delle frasi più oscene): riprese con camera a mano, dal taglio semidocumentaristico e instabile; montaggio frenetico e sincopato, il cui ritmo serrato trova l'appoggio di una colonna sonora irta di percussioni; fotografia urtante, dove la saturazione del buio si alterna ad abbacinanti esposizioni; un linguaggio verbale realistico e crudo, che non disegna il turpiloquio e che parla volgarmente di sesso; una vis drammaturgica senza respiro, concitata e delirante; una serie di situazioni criminose al limite della sopportazione, che dipingono un degrado psicologico e materiale molto simile ad una moderna bolgia dantesca di reietti, assorbiti e consumati da un buco nero morale; e soprattutto dei personaggi (primi tra tutti i protagonisti), mai come ora davvero "borderline" (soprattutto nell'economia di un sistema di fiction da prima serata). Scomodi e disturbanti (certo "non politicamente corretti" all'interno di una politica di spettacolo per famiglie), e perennemente perseguitati da un destino avverso e crudele. Al ruvido, divorziato detective John Kelly (David Caruso, poi starring in Jade di William Friedkin e nel recente C.S.I. Miami) costerà cara la relazione tormentata con la poliziotta Janice Licalsi (la Amy Brenneman di Heat di Michael Mann), rea di aver ucciso a sangue freddo due mafiosi per proteggere il padre (un poliziotto corrotto): Kelly perderà infatti il posto per aver deposto il falso in sua difesa. Chi gli subentra, Bobby Simone (Jimmy Smits, co-protagonista di Nei panni di una bionda di Blake Edwards), sposerà la collega Diane Russell, ma morirà per le conseguenze postoperatorie di un trapianto di cuore. La loro "spalla", in realtà protagonista indimenticabile della serie, Andie Sipowicz (un intenso Dennis Franz, già caratterista nei film di Brian De Palma - da ANDY SIPOWICZ Vestito per uccidere a Omicidio a luci rosse passando per Blow Out - e co-protagonista di Hill Street Blues, dove impersonava un detective che viene cacciato dal corpo di polizia), è un poliziotto manesco e rabbioso, alcolista, razzista e puttaniere, tormentato dalla morte del figlio per mano di rapinatore: «rozzo, insofferente, aggressivo e qualunquista, ma sostanzialmente onesto, giusto e all'occorrenza compassionevole, Andy Sipowicz è il personaggio forse più sfaccettato nella storia del poliziesco teleseriale americano» (Pastore, op.cit , p. 151). Intreccerà una tenera storia d'amore con il vice procuratore distrettuale Sylvia Costas (da lui apostrofata prima della loro relazione come "pissy little bitch"), che diventerà la sua seconda moglie, gli darà un figlio maschio, ma troverà la morte in un conflitto a fuoco. In un sol colpo la crudezza di NYPD azzerava non solo i polizieschi pacchianotti (Starsky & Hutch, T.J. Hooker, C.H.iP.s., Hunter e via dicendo), ma rendeva persino datato un modello storicamente importante come Hill Street Blues.
Negli stessi anni un'altra serie, firmata da Dick Wolf, avrebbe lasciato un segno indelebile: Law & Order - I due volti della giustizia (Law & Order, 1990). La novità risiedeva non tanto (e non solo) nel linguaggio scabro, teso e cronachistico, già inaugurato da Hill Street, o dagli squilibri ottici provocati dalla macchina a mano, poi assurti a sistema linguistico con NYPD (Law & Order è dal punto di vista cronologico proprio in mezzo a questi due capostipiti), ma nella bipartizione narrativa del racconto. Nella prima parte compaiono le indagini svolte da una coppia di detective della omicidi di Manhattan: nel giro di vite dei ruoli al giovane, impetuoso Mike Logan LAW & ORDER si affiancano in successione il sergente Max Greevey (il George Dzundza di Nessuna pietà di Richard Pearce), poi ucciso; Phil Cerreta (il Paul Sorvino di Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese) e infine Lennie Briscoe (Jerry Orbach). Nella seconda entrano in scena i protagonisti della procura distrettuale, tra cui spicca il personaggio di Ben Stone (il Michael Moriarty del Cavaliere pallido di Clint Eastwood), affiancato dal coloured Paul Robinette. La suddivisione in due parti della struttura - il suo sdoppiamento, per così dire - si riflette internamente in una dicotomia giustizia/legge, colpa/verità non sempre risolta, anzi spesso conflittuale, dove il sistema giuridico mostra le sue penombre procedurali e il suo sistema perfettibile, dove i dubbi non vengono a volte dissipati, dove la società e l'uomo pagano a caro prezzo i decorsi e le incertezze della macchina giuridica. Tra i sordidi casi di cronaca nera e la prassi processuale che ne dovrebbe garantire la redenzione/espiazione, si aprono zone sdrucciolevoli, incerte, ambigue. Questa "falle" - che hanno nella serie, è bene specificarlo per non generare percezioni improprie, un decorso discontinuo, perché altre volte, nel pieno rispetto del mutare e del divenire della vita, accade che i colpevoli paghino effettivamente il fio delle loro colpe - caratterizzano anche il considerevole spin-off di questa serie: Law & Order - Unità Speciale (Law & Order - Special Victims Unit, 1999), sempre creato da Dick Wolf e interamente dedicato ai crimini sessuali. Ne sono protagonisti, accanto all'esperto capitano Donald Cragen (Dann Florek, proveniente dalla sezione omicidi proprio della "serie classica"), i detective Elliot Stabler (Christopher Meloni, che LAW & ORDER rovescia di netto il ruolo negativo rivestito nell'inquietante Oz, di cui parleremo in seguito) e Olivia Benson (Mariska Hargitay), affiancati dapprima dal novellino Brian Cassidy (Dean Winters, il temibile O'Reilly di Oz) e dall'afroamericana Monique Jeffries (Michelle Hurd), e in seguito da John Munch (Richard Belzer, arrivato dalla Baltimora di Homicide) e da Fin Tutuola (Ice-T, già nei Trasgressori di Walter Hill e poi nel Nostro Natale di Abel Ferrara): Cassidy lascerà infatti la squadra perché incapace di tollerare gli orrori del quotidiano verso i quali si sente impotente testimone, mentre la Jeffries verrà sollevata dall'incarico per un profilo psicologico ritenuto a rischio per questo tipo di lavoro. Anche qui, come già nella serie madre (e a differenza di Hill Street e di NYPD, da cui si distanzia anche per uno stile più classico) non vengono esplorate le vite private dei protagonisti (anche se, strada facendo, veniamo a conoscenza delle traversie familiari di Stabler, che dovrà affrontare un divorzio, e del terribile segreto custodito nel cuore dell'incallita single Benson, all'origine della sua scelta di entrare in questo corpo speciale della polizia newyorkese), che restano sempre sullo sfondo della vicenda, quasi a non voler turbare la concentrazione dello spettatore sulle aberrazioni del quotidiano: stupri (di ogni genere e natura), incesti, pedofilia, perversioni, maltrattamenti, abusi. Mai la visione domestica è stata costretta ad assistere a tanta brutalità e violenza,e mai forse questa scottante materia ha goduto di un trattamento così serio e rigoroso in una fiction televisiva: stupiscono non solo l'originalità e l'abile ductus narrativo delle storie - intrecci spesso complessi e labirintici, non scevri di sequenze shock e di colpi di scena (in quasi tutte le puntate si assiste al meccanismo del whodunit, cioè della scoperta del colpevole) -, ma lo spessore degli interrogativi, delle problematiche, delle analisi e delle diagnosi sull'origine e la fenomenologia di questo male irriducibile, sulle sue implicazioni morali e LAW & ORDER sulle sue derive giuridiche, abbordando senza paura il concetto di legalità e indagando senza sosta quello della colpa, sfoderando acute e allarmanti considerazioni sulla sua ipotetica derivabilità da tare genetiche, malattie ereditarie, consumismo mediatico e business farmacologico. All'altro capo del sistema, quello penale, agiscono l'affascinante vice-procuratore distrettuale Alexandra Cabot (Stephanie March), che sarà costretta a lasciare il campo dopo diverse stagioni alla rossa Casey Novak (Diane Neal) per la protezione testimoni, e lo psichiatra forense George Huang (B.D. Wong, un altro dei "reduci" di Oz, dove interpretava padre Ray, un coraggioso prete di origine asiatica), che spesso funge da anello narrativo tra l'indagine poliziesca e l'azione processuale. L'Unità Speciale accentua a differenza del prototipo la sua predilezione per il registro kammerspiel, riducendo al minimo le scene in esterni (quasi tutte riconducibili al prologo), azzerando gli inseguimenti (peraltro già rari nella serie madre) e concentrando l'azione negli interni (appartamenti, locali, uffici, tribunali, centri di recupero, ospedali, chiese, oltre all'onnipresente stanza degli interrogatori). Nel finale non sempre i conti tornano: anche quando le cause vengono vinte e i serial killer incarcerati, spesso c'è qualche innocente che paga un duro prezzo nei risvolti collaterali della storia, e aleggia - come una sorta di dissonante, cupo basso continuo esistenziale - un malessere, un mood negativo, un senso di perdita e d'impotenza, che non producono risarcimento e catarsi nello spettatore affamato di giustizia e di un accomodante happy end.
Tra i due poli di Law & Order (a dire il vero ne esiste un terzo, ma più debole, che è Law & Order - Criminal HOMICIDE Intent, dove il detective Robert Goren - interpretato da Vincent D'Onofrio, già "Palla di Lardo" in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick e fanatico poliziotto omicida in Strange Days di Kathryn Bigelow - gioca al gatto con il topo con i colpevoli, aggiornando uno schema inaugurato dal tenente Colombo) si situa Homicide (Homicide - Life on the Street, 1993), apice di maturità del poliziesco seriale americano, creato da Paul Attanasio (cui si deve lo script di Donnie Brasco di Mike Newell) e prodotto da Tom Fontana e Barry Levinson (il regista di Forrest Gump, Sesso e potere, Sleepers), che più tardi ritorneranno in veste di producers con il feroce, indimenticabile Oz. Tratto dal libro-reportage di David Simon Homicide: a Year on the Killing Streets, la serie racconta professione e vita privata di un gruppo di detective della Omicidi di Baltimora (nel Maryland, scelta originale, che allarga i confini di una "geografia poliziesca" generalmente appannaggio delle due grandi città costiere, regine dell'immaginario filmico americano: New York e Los Angeles). Un racconto fluviale (122 episodi lungo 7 stagioni più un lungometraggio conclusivo), ispirato a fatti veri, che sembra rintracciare il percoso stilistico-tematico di NWPD mentre in realtà ne estremizza il linguaggio (fotografia sgranata, camera a mano, con frequenti "sgrammaticature": stacchi sull'asse, anche con ripetizioni dell'azione, montaggio fratto), sviluppando al contempo una narrazione fluviale, scandita da storie parallele, morti e rimpiazzi, in un andirivieni di personaggi che è una delle novità strutturali più importanti del poliziesco moderno (e che lo spettatore, naturalmente portato a familiarizzare con i protagonisti, tollera malvolentieri). Sotto il cipiglio autoritario del tenente di colore Al HOMICIDE Giardello (Yaphet Kotto, già in Alien e Prima di mezzanotte), che si ritroverà verso l'epilogo della serie ad avere come dipendente, e non senza difficoltà, il figlio Mike, ex agente speciale dell'FBI, si disegnano dei caratteri a tutto tondo, realistici e ricchi di sfaccettature. Nella prima parte emergono le figure del pingue Stan Bolander (Ned Betty), poi ucciso a sangue freddo; del cinico John Munch (Richard Belzer, più tardi protagonista del casting di Law & Order - Unità Speciale); dell'ambiziosa, idealista Kay Howard (Melissa Leo, vista recentemente in 21 grammi di Alejandro Gonzaléz Iñárritu); e dello scriteriato Beau Felton (Daniel Baldwin), che lascerà il corpo dopo un divorzio e una storia tormentata con la collega Megan Russert (Isabella Hofmann - più tardi, a causa di subdole manovre politiche, promossa tenente al posto di Giardello e subito silurata), per ritornarvi tragicamente come uno dei nomi in rosso segnati sulla lavagna (i cadaveri degli ammazzati). Nel tempo diventa invece centrale la coppia formata da Frank Pembleton (Andre Braugher) e Tim Bayliss (Kyle Secor). Frank, di colore, veterano sulla quarantina, studi gesuiti alle spalle, modi eleganti e mente acuminata, è un maestro nell'inchiodare i sospetti nella "trappola" (la stanza degli interrogatori). Tim, bianco, più giovane, è una recluta dal cuore dolce e di animo sensibile, che diventerà con il tempo un abile detective. Il primo, dopo la nascita di una bambina, affronterà una separazione e un ictus, il secondo resterà segnato per sempre dal HOMICIDE caso insoluto di Adina Watson, una bambina barbaramente uccisa. Allargherà i propri orizzonti spirituali con discipline di meditazione orientale, e le proprie attitudini sessuali frequentando l'affascinante gestore gay di un bar. Non mancano i personaggi in chiaroscuro: da Stuart Garthy (Peter Gerety), un poliziotto di pattuglia con ambigui trascorsi di servizio (in una puntata ha dimostrato chiari sintomi di vigliaccheria), che farà coppia con la determinata Laura Ballard (Callie Thorne), a Mike Kellerman, che intreccia una relazione con l'anatomopatologa Juliana Cox (Michelle Forbes, poi nella seconda stagione di 24) prima di uccidere a sangue freddo uno dei più pericolosi spacciatori della città, scatenando una lunga sequenza di faide e vendette tra il clan e il corpo di polizia che segnerà indelebilmente storia, personaggi ed epilogo del serial (epilogo dove anche i detective sopra ogni sospetto sapranno dimostrare un "lato oscuro", e qualcuno di sporcherà anche le mani con il sangue). Kellerman, sempre più incalzato dal duro Paul Falsone (Jon Seda, comparso in L'esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam, Verso il sole di Michael Cimino, Undisputed di Walter Hill, e nell'episodio pilota di Oz), lascerà il corpo di polizia (diventando un investigatore privato), per non rischiare di danneggiare Meldrick Lewis (Clark Johnson) e Terri Stivers (Toni Lewis), testimoni del fatto e suoi involontari complici.
Il moderno poliziesco dei serial (affresco sociale, razziale e morale dell'America contemporanea) è una discesa nel buco nero dell'anima dei suoi protagonisti.
(1- continua)