L'uscita nelle sale di
M:i:3, terzo capitolo delle imprese dell'agente Ethan Hunt, diretto da J.J. Abrams; l'imminente uscita di un altro terzo capitolo, quello dei mutanti X-Men nel film diretto da Brett Ratner; l'ultimo Telefilm Festival svoltosi a Milano e l'invasione continua delle serie tv, sono l'occasione per andare
fuorischermo, invadere, cioè, altri confini. Farci coinvolgere, fagocitare e contaminare dall'universo seriale, sempre più in fase di sviluppo, sia al cinema che, soprattutto, in televisione.
Negli ultimi anni il fenomeno ha raggiunto proporzioni molto ampie sia dal punto di vista produttivo, sia da quello della fruizione spettatoriale. E' un universo che non solo sta ricodificando i generi, proprio come era accaduto nel cinema classico hollywoodiano, ma pure sta diventando l'ancora di salvezza per la tanto amata/odiata televisione. Le serie tv si stanno liberando dall'etichetta di "storie innocue" e stanno conquistando a colpi di bisturi, aerei precipitati, indagini estreme, supereroi umani, adrenalina, cinismo e amarezza, la sfera della qualità.
Sono lontani i tempi di
Dinasty e di
Dallas, della squadra dell'
A-Team e di
Arnold, delle
bellissime
Charlie's Angeles, di Kit e Michael Night in
Supercar, di
Starsky & Hutch e di Bo & Duke in
Hazzard, cimeli straconsumati durante tutti gli anni ottanta. Prodotti godibili e scacciapensieri, realizzati senza
troppe pretese, basati su trame semplici e costruiti su strutture esili.
Ora la serialità si è evoluta, ha acquisito nuove forme e affronta temi decisamente più sconvolgenti. Dai teen-drama di
successo tra gli adolescenti come
The O.C. e
Veronica Mars, ai prodotti adrenalici e sorprendenti come
Lost,
24,
Alias,
C.S.I.. L'occhio dello spettatore si confronta con il melò dei primi anni
Ciquanta di Douglas Sirk quando vede
Desperate Housewifes, o con il western feroce mentre segue le vicende di
Deadwood; si appassiona ai casi clinici delle tante corsie ospedaliere finite dentro al tubo catodico come il famosissimo
E.R., l'ironico
Scrubs, il cinico
Dottor House o i nuovi
Grey's Anatomy e Bones, e riflette sul senso della vita/morte davanti a una puntata di
Six Feet Under e
Nip/Tuck. Lo spettatore incontra sempre più commedie, anche se quelle non sono mai mancate, ed è sempre più costretto a confrontarsi con temi attuali. Dal terrorismo alle elezioni pilotate, dai problemi governativi alla droga, dall'aborto all'omosessualità, dalla famiglia al lavoro. I telefilm vivono una nuova golden age grazie a questo diretto rapporto con la realtà.
Tutto, probabilmente, è cominciato con
Twin Peaks. La straordinaria serie creata e diretta da David Lynch ha aperto
nuovi orizzonti e valicato nuovi confini. L'essenza del famoso telefilm non era tanto scoprire chi era l'assassinio di
Laura Palmer. L'occhio aveva più interesse a percepire i motivi che c'erano dietro quella carneficina, voleva capire come
lo strano agente Cooper avrebbe risolto il caso, e cercava di reagire all'indifferenza e agli altarini degli abitanti di
Twin Peaks. Il grande successo di quella serie ruotava intorno al disordine degli indizi sparsi strada facendo, che solo
con la pazienza che lo spettatore decideva di investire, potevano acquisire di senso. Così accade nelle serie attuali.
La serialità, quindi, funziona se persiste nel tempo. Lo dice la parola stessa: è qualcosa che deve durare. Lo fa grazie a
sceneggiature studiate affinché lo spettatore non abbia mai troppi indizi su cui costruire certezze. Disorientato lo
spettatore, la serie entra in nuove dimensioni, si smaterializza. E lo spettatore partecipa al gioco, convinto e
compiacente che prima o poi tutto finisca. Che tutto si risolva. Che si ritorni, quindi, ad un ordine. L'intreccio è
lineare: prima il disordine, poi l'ordine. Una spiazzante sospensione insoddisfatta.
E' un universo ricco di stimoli perché denso di richiami attuali e di una forte ricerca di senso. Soprattutto la serialità
sta traducendosi sempre più in un grande specchio per lo spettatore dove potersi guardare e confrontare. Le serie tv
affrontano le paure, i desideri, le ansie, i sogni di ciascuno di noi. Sono come e forse meglio di una seduta di
psicoanalisi, ci suggeriscono Leo Damerini e Fabrizio Margaria, fondatori dell'Accademia dei Telefilm. Non solo
scacciapensieri, dunque.
Ecco perché tra serialità e cinema ci sono forti assonanze. La qualità, le strutture narrative, il tempo, le storie. E' curioso notare, inoltre, come il percorso artistico di molti registi abbia intersecato quello della serialità. Ecco perché è stato citato J. J. Abrams, uno dei più geniali creatori del panorama serial-televisivo, padre di
Lost e
Alias, autore di un convincente e avvincente terzo capitolo di Mission Impossible. Come lui, molti altri.
Ad esempio quel Brett Ratner, regista di
X-Men 3, autore del pilot di
Prison Break, un'altra delle serie
americane di successo prossimamente sui nostri piccoli schermi. Lo stesso Brett Ratner che ha sostituito nella
realizzazione del terzo capitolo dei mutanti il più famoso Bryan Singer (
I Soliti sospetti), perché quest'ultimo
impegnato con
Superman (altro remake, con altri sequel... tutto torna). Non solo. Singer è anche produttore
esecutivo e regista di alcuni episodi della serie
Dottor House. Poi c'è Clooney che con Soderbergh ha realizzato
Unscripted e che avrebbe intenzione di creare una serie sui Dieci Comandamenti. E mentre Tarantino si diverte a
comparire come attore in
Alias e a girare l'episodio Grave Danger di
C.S.I. , Paul Haggis, regista di
Crash e sceneggiatore di Eastwood, torna a scrivere le sceneggiature della sua prima passione/creazione:
Walker
Texas Rangers.
Ma anche prima di questi nomi illustri, le cose non andavano diversamente. Ad esempio Altman, che ha sfruttato l'attività televisiva come laboratorio espressivo del suo precoce talento, ha lavorato per la tv fino al 1964 dirigendo episodi di numerose serie (
Alfred Hitchcock Presents, Kraft Mystery theatre, Bonanza e Bus Stop) per poi tornarvi nel 1988 con la serie
Tanner '88. Anche Spielberg ha giochicchiato con la televisione prima di diventare quello che è diventato. La regia di alcuni episodi di
Colombo e
The Psychitrist e la serie
Amazing Stories ne sono la conferma. Senza dimenticare che
Duel (1971), il suo primo lungometraggio, nasce proprio come film tv, e che di recente in veste di produttore ha contribuito al successo di molte serie tra cui
Taken.
Le serie
Alfred Hitchcock Presents (1955-1962) e
The Alfred Hitchcock Hour (1962-1965) comprendevano 370 episodi, tutti di matrice hitchcockiana, ma il regista inglese ne diresse solo venti, limitandosi a selezionare le sceneggiature degli episodi rimanenti.
Universo sperimentale anche per Michael Mann, che dal 1984 al 1989 si è dedicato alla produzione di
Miami Vice, laccatissimo e patinatissimo telefilm poliziesco diventato, nel tempo, un culto raffinatissimo che nel 2006 diventerà un lungometraggio diretto dallo stesso Mann.
Parentesi televisiva/seriale pure per Lars Von Trier con
The Kingdom, due serie tv che raccontano di un ospedale
danese e i suoi fantasmi. Un film antitelevisivo, come sottolinea Franco Marineo. Talmente antitelevisivo che si è
interrotto dopo la seconda serie lasciando con il fiato sospeso milioni di spettatori. Peccato perché era
straordinariamente assurdo.
Le serie tv vivono di luce propria ma possiedono un dna cinematografico. Questo rapporto indissolubile tra serialità e cinema regge tutti gli altri rapporti che si generano di conseguenza: dal fantismo alla modalità di fruizione rituale, dal senso di perdizione alla ricerca di senso. Quello della serialità è quindi un universo sempre più popolare, non per questo scadente o irrilevante, ma aperto e affascinante, che va gestito perché non si perda nei facili consumi. Si deve valorizzare e non svendere.
(per approfondimenti, Duellanti n°26, in edicola a maggio)