FUORISCHERMO

 

ABBONDANZA
DI VERITA' NASCOSTE
MATTEO MAZZA

FAHRENHEIT 9/11 Alla luce delle recenti produzioni statunitensi, in risposta ad un periodo storico che continua a riservare momenti di forte riflessione, si sta affermando un’importante abitudine: rappresentare la realtà, anche (o soprattutto) quando è scomoda. Prendendo in considerazione il panorama statunitense degli ultimi tre anni, emerge da parte degli autori (da quelli più emergenti a quelli più rappresentativi) la volontà di raccontare un’America che sta cambiando, nella confusione, con le sue incoerenze e le sue ferite. I generi sono diversi, ma il risultato non cambia. C’è chi vuole attaccare il sistema con un po’ di amarezza e qualche striatura metaforica, o chi intende rivelare tutta la verità (nient’altro che la verità) riscoprendo un genere quasi perduto come il documentario. C’è chi non vuole fare film polemici, ma solo seminare dubbi scuotendo l’animo delle persone e chi invece, saggiamente, invita a riflettere, come in un vero “sistema di personaggi”, su chi sono i “buoni” e chi sono i “cattivi”. Al centro di ogni racconto, poi, indissolubilmente dalle storie dei personaggi, ci sono i nuovi luoghi e non-luoghi. Dalle cattedrali del consumo, alle città ferite e agonizzanti come cani bastonati; dalle distese aride del deserto, ai palazzoni notturni di una città come non l’avete mai vista; dalla metropoli al paese di provincia, da una costa all’altra. L’America tutta viene ricostruita attraverso le immagini e le idee di quegli autori che in questi ultimi anni hanno cercato, con sguardo critico, audace, sferzante, talvolta furbo, di rappresentare un paese vittima e colpevole di un inganno e al tempo stesso, di una tragedia.
Michael Moore (Fahrenheit 9/11) è sicuramente fra tutti quello più spietato, dinamitardo e abbondante (nei chili e nelle denuncie). Nel suo ultimo documentario (anche se qualcuno, correttamente, chiama docu-fiction) Moore cambia bersaglio, e dopo aver parlato di disoccupazione (Roger & me) e di armi (Bowling a Columbine), a salire sul banco degli imputati tocca al presidente Bush. Quella di Moore, oltre ad essere una vera campagna di annientamento ad personam, è vera controinformazione di successo. Il suo ultimo film, premiato con la Palma d'Oro di Cannes, ha guadagnato negli Usa quasi centoventi milioni di dollari. Abbondanza di dollari, consensi e dissensi. Necessario? Dilettevole? Spropositato? Finto Gabibbo o che altro? Di certo Michael Moore fa parlare di sé. Nel bene o nel male, colpisce il bersaglio, e cosa ancora più importante, invita lo spettatore ad una dura riflessione. Moore, approfondisce l'analisi del suo ragionamento fino al dettaglio, poi ci mostra la realtà dei fatti. Ha talento nell'assemblare l’abbondanza di informazioni e notizie che raccoglie; possiede una lucida ironia e uno sguardo a tratti profondo e indagatore. A volte si incontra qualche sbavatura di troppo come alcuni maliziosi interventi fuori campo, o qualche notizia pompata ma lo sguardo è diretto, audace e spesso convincente. Decisamente più garbato nei toni è invece Steven Spielberg. Il suo The terminal, presentato alla Mostra di THE TERMINAL Venezia, con la sua tenerezza tra favolistico e tragicomico, prova a rappresentare l’attuale condizione dell’America, intollerante e come sempre consumistica. Le disavventure del protagonista Tom Hanks, diventano la metafora della paranoia, dell’intolleranza, della xenofobia dell’America di Bush. Spielberg non urla come Moore, sussurra qualcosa agli american. Il suo messaggio rimane velato ma è ugualmente incisivo. Come nel precedente Catch me if you can (Prova a Prendermi), dove anche qui, l'uomo era alla costante ricerca e tutela del suo passato e dove la realtà era sempre contaminata dalla finzione. Evocando atmosfere alla Frank Capra, il "nuovo Spielberg", è un film sentimentale, umoristico e amaro. Il tempo, lo spazio e anche l’umanità si fanno confusi, come nel più classico dei non-luoghi. Il messaggio è netto: ogni American Dream è giunto al capolinea (o al terminal). Wim Wenders non è americano, ma l’America c’è la nel cuore. Il suo Land of plenty (La terra dell'abbondanza) non vuole polemizzare con nessuno. Non vuole denunciare scandali, vuol solo seminare dubbi. Anche Wenders, a suo modo, accusa Bush di aver tradito gli americani. Nel suo film emerge l'amarezza e i sentimenti nei confronti di un paese che commette sempre lo stesso errore: sentirsi al centro del mondo. Ecco allora, come nei migliori film del regista (Il cielo sopra Berlino, Lisbon Story), l'uomo nello spazio e negli spazi, in conflitto tra umanità e ideali. Le strade di Los Angeles sono terra di povertà e il sogno americano ha ceduto il posto al male di vivere. Come in Spielberg, anche questa America è afflitta dalle inquietudini paranoiche dell'inganno bushiano. La vera indagine esistenziale alla ricerca della verità è davanti a Ground Zero, dopo aver attraversato tutto il paese. Dopo aver (anche qui) scavato nelle origini. Perché l'America può sollervarsi, ma deve ascoltare quel canto di speranza e lucidità che sottilmente Wenders offre allo spettatore. Terra di abbondanza e di speranza. La città come contenitore di anime, o COLLATERAL addirittura burattinaia di anime. La Los Angeles che Michael Mann vuole rappresentare, è tutto fuorchè una città di angeli. La sinfonia noir di Collateral è pura tensione ipnotica delle immagini che avvolgono lo spettatore e lo inducono ad un’aspra riflessione. Come succedeva in Heat (La sfida) l'ambiguità del "cattivo" ci porta alle radici di questo thriller esistenziale: chi sono i buoni? e chi sono i cattivi? Anche Mann visita luoghi e non-luoghi, parla di vite che si incontrano-scontrano per fatalità. Frulla generi (noir, action, commedy) e posa il suo occhio (e quindi anche il nostro) su una città di notte, come nessuno la vede. L'America attuale, in apparenza messa ai margini, si rivela nello spietato killer, bestia intelligente forse partorita dalla stessa giungla (Tom Cruise), che riflette sulle persone e ci chiede:"Chi pensi se ne accorga, se qualcuno muore in metropolitana?". Agghiacciante. Il cinema di Michael Mann, violento e spietato, è anche un viaggio di natura antropologica. La sua notte è un viaggio nella solitudine delle anime che popolano Los Angeles. Un viaggio autentico.
La Mostra di Venezia e il Festival di Cannes, sono stati un perfetto palcoscenico non solo per questi film. Al Lido per esempio, appartenenti a questa “tendenza contro”, si è visto tra gli altri il provocante e discusso She hate me (Lei mi odia) di Spike Lee, un’ironica pseudo-parodia del potere, nel quale uomini e donne vivono in un sistema immorale dove i soldi comprano tutto; il thriller politico The Manchurian candidate di Jonathan Demme, intrigante e ossessivo, che mostra tutti i rischi della democrazia; il teatrale Embedded-live di Tim Robbins, ritratto digitale della pièce (dello stesso Robbins), arricchita dagli sguardi del pubblico in sala davanti agli errori dei potenti e agli orrori della guerra.
Facendo un passo indietro non possiamo non citare, infine, i film usciti nelle scorse stagioni, sposi di questa tendenza. Il geniale Dogville di Lars Von Trier, che mette a nudo tutta l'America, spoglia come un palco teatrale; lo sconvolgente Mystic River di Clint Eastwood, che rivela con assoluta drammaticità, i "veri" valori degli States; l'ingombrante e caustico Elephant di Gus Van Sant (palma d'oro a Cannes '03) raggelante e lucido viaggio nella tragedia di Columbine; il personalissimo 25th Hour (La 25° ora) di Spike Lee, atto d'amore verso una New York ferita nell'orgoglio e nell'anima; l'efferato Gangs of New York di Martin Scorsese, sanguinario atto d'amore nei confronti degli States, patria assoluta della con-fusione; il freddo gangster movie di Sam Mendes, Road to perdition (Era mio padre), nel quale incontriamo anche la speranza di un figlio impressionato indelebilmente dalle immagini della violenza del mondo esterno. Corruzione, violenza, persone mostruose ma anche vulnerabili, sangue che scorre a fiumi. Questa è stata l’America di questi film.
TIM BURTON Soltanto Steven Spielberg e Tim Burton hanno voluto rivisitare con i loro visionari capolavori, Catch me if you can e Big Fish, quel che resta di questo paese, in un viaggio dolce e amaro. Peculiare come ogni film faccia i conti con la delicata questione delle origini, interrogandosi, quasi sempre, sulla nascita di una nazione attraverso lo specchio dell’immagine paterna. Nella figura di un padre si condensa il desiderio di radici e la domanda di identità. Ma anche l’illusione e l’inganno della paternità, quando in fondo, i crimini dei padri, sono i misfatti dei figli.