Alla luce delle recenti produzioni statunitensi, in risposta ad un periodo storico che continua a riservare momenti di
forte riflessione, si sta affermando un’importante abitudine: rappresentare la realtà, anche (o soprattutto) quando è
scomoda. Prendendo in considerazione il panorama statunitense degli ultimi tre anni, emerge da parte degli autori (da
quelli più emergenti a quelli più rappresentativi) la volontà di raccontare un’America che sta cambiando, nella confusione,
con le sue incoerenze e le sue ferite. I generi sono diversi, ma il risultato non cambia. C’è chi vuole attaccare il
sistema con un po’ di amarezza e qualche striatura metaforica, o chi intende rivelare tutta la verità (nient’altro che la
verità) riscoprendo un genere quasi perduto come il documentario. C’è chi non vuole fare film polemici, ma solo seminare
dubbi scuotendo l’animo delle persone e chi invece, saggiamente, invita a riflettere, come in un vero “sistema di
personaggi”, su chi sono i “buoni” e chi sono i “cattivi”. Al centro di ogni racconto, poi, indissolubilmente dalle storie
dei personaggi, ci sono i nuovi luoghi e non-luoghi. Dalle cattedrali del consumo, alle città ferite e agonizzanti come
cani bastonati; dalle distese aride del deserto, ai palazzoni notturni di una città come non l’avete mai vista; dalla
metropoli al paese di provincia, da una costa all’altra. L’America tutta viene ricostruita attraverso le immagini e le
idee di quegli autori che in questi ultimi anni hanno cercato, con sguardo critico, audace, sferzante, talvolta furbo, di
rappresentare un paese vittima e colpevole di un inganno e al tempo stesso, di una tragedia.
Michael Moore (
Fahrenheit 9/11) è sicuramente fra tutti quello più spietato, dinamitardo e abbondante (nei chili e nelle
denuncie). Nel suo ultimo documentario (anche se qualcuno, correttamente, chiama docu-fiction) Moore cambia bersaglio, e
dopo aver parlato di disoccupazione (
Roger & me) e di armi (
Bowling a Columbine), a salire sul banco degli imputati tocca
al presidente Bush. Quella di Moore, oltre ad essere una vera campagna di annientamento ad personam, è vera
controinformazione di successo. Il suo ultimo film, premiato con la Palma d'Oro di Cannes, ha guadagnato negli Usa quasi
centoventi milioni di dollari. Abbondanza di dollari, consensi e dissensi. Necessario? Dilettevole? Spropositato? Finto
Gabibbo o che altro? Di certo Michael Moore fa parlare di sé. Nel bene o nel male, colpisce il bersaglio, e cosa ancora
più importante, invita lo spettatore ad una dura riflessione. Moore, approfondisce l'analisi del suo ragionamento fino al
dettaglio, poi ci mostra la realtà dei fatti. Ha talento nell'assemblare l’
abbondanza di informazioni e notizie che
raccoglie; possiede una lucida ironia e uno sguardo a tratti profondo e indagatore. A volte si incontra qualche sbavatura
di troppo come alcuni maliziosi interventi fuori campo, o qualche notizia pompata ma lo sguardo è diretto, audace e spesso
convincente. Decisamente più garbato nei toni è invece Steven Spielberg. Il suo
The terminal, presentato alla Mostra di
Venezia, con la sua tenerezza tra favolistico e tragicomico, prova a rappresentare l’attuale condizione dell’America,
intollerante e come sempre consumistica. Le disavventure del protagonista Tom Hanks, diventano la metafora della paranoia,
dell’intolleranza, della xenofobia dell’America di Bush. Spielberg non urla come Moore, sussurra qualcosa agli american. Il
suo messaggio rimane velato ma è ugualmente incisivo. Come nel precedente
Catch me if you can (Prova a Prendermi), dove
anche qui, l'uomo era alla costante ricerca e tutela del suo passato e dove la realtà era sempre contaminata dalla
finzione. Evocando atmosfere alla Frank Capra, il "nuovo Spielberg", è un film sentimentale, umoristico e amaro. Il tempo,
lo spazio e anche l’umanità si fanno confusi, come nel più classico dei non-luoghi. Il messaggio è netto: ogni American
Dream è giunto al capolinea (o al terminal). Wim Wenders non è americano, ma l’America c’è la nel cuore. Il suo
Land of
plenty (La terra dell'abbondanza) non vuole polemizzare con nessuno. Non vuole denunciare scandali, vuol solo seminare
dubbi. Anche Wenders, a suo modo, accusa Bush di aver tradito gli americani. Nel suo film emerge l'amarezza e i sentimenti
nei confronti di un paese che commette sempre lo stesso errore: sentirsi al centro del mondo. Ecco allora, come nei
migliori film del regista (
Il cielo sopra Berlino, Lisbon Story), l'uomo nello spazio e negli spazi, in conflitto tra
umanità e ideali.
Le strade di Los Angeles sono terra di povertà e il sogno americano ha ceduto il posto al male di vivere.
Come in Spielberg, anche questa America è afflitta dalle inquietudini paranoiche dell'inganno bushiano. La vera indagine
esistenziale alla ricerca della verità è davanti a Ground Zero, dopo aver attraversato tutto il paese. Dopo aver
(anche qui) scavato nelle origini. Perché l'America può sollervarsi, ma deve ascoltare quel canto di speranza e lucidità
che sottilmente Wenders offre allo spettatore. Terra di abbondanza e di speranza. La città come contenitore di anime, o
addirittura burattinaia di anime. La Los Angeles che
Michael Mann vuole rappresentare, è tutto fuorchè una città di angeli.
La sinfonia noir di
Collateral è pura tensione ipnotica delle immagini che avvolgono lo spettatore e lo inducono ad
un’aspra riflessione. Come succedeva in Heat (
La sfida) l'ambiguità del "cattivo" ci porta alle radici di questo thriller
esistenziale: chi sono i buoni? e chi sono i cattivi? Anche Mann visita luoghi e non-luoghi, parla di vite che si
incontrano-scontrano per fatalità. Frulla generi (noir, action, commedy) e posa il suo occhio (e quindi anche il nostro)
su una città di notte, come nessuno la vede. L'America attuale, in apparenza messa ai margini, si rivela nello spietato
killer, bestia intelligente forse partorita dalla stessa giungla (Tom Cruise), che riflette sulle persone e ci
chiede:"Chi pensi se ne accorga, se qualcuno muore in metropolitana?". Agghiacciante. Il cinema di Michael Mann,
violento e spietato, è anche un viaggio di natura antropologica. La sua notte è un viaggio nella solitudine delle anime
che popolano Los Angeles. Un viaggio autentico.
La Mostra di Venezia e il Festival di Cannes, sono stati un perfetto palcoscenico non solo per questi film. Al Lido per
esempio, appartenenti a questa “tendenza contro”, si è visto tra gli altri il provocante e discusso
She hate me (Lei mi
odia) di Spike Lee, un’ironica pseudo-parodia del potere, nel quale uomini e donne vivono in un sistema immorale dove i
soldi comprano tutto; il thriller politico
The Manchurian candidate di Jonathan Demme, intrigante e ossessivo, che mostra
tutti i rischi della democrazia; il teatrale
Embedded-live di Tim Robbins, ritratto digitale della pièce (dello stesso
Robbins), arricchita dagli sguardi del pubblico in sala davanti agli errori dei potenti e agli orrori della guerra.
Facendo un passo indietro non possiamo non citare, infine, i film usciti nelle scorse stagioni, sposi di questa tendenza.
Il geniale
Dogville di Lars Von Trier, che mette a nudo tutta l'America, spoglia come un palco teatrale; lo sconvolgente
Mystic River di Clint Eastwood, che rivela con assoluta drammaticità, i "veri" valori degli States; l'ingombrante e
caustico
Elephant di Gus Van Sant (palma d'oro a Cannes '03) raggelante e lucido viaggio nella tragedia di Columbine; il
personalissimo
25th Hour (La 25° ora) di Spike Lee, atto d'amore verso una New York ferita nell'orgoglio e nell'anima;
l'efferato
Gangs of New York di Martin Scorsese, sanguinario atto d'amore nei confronti degli States, patria assoluta
della con-fusione; il freddo gangster movie di Sam Mendes,
Road to perdition (Era mio padre), nel quale incontriamo anche
la speranza di un figlio impressionato indelebilmente dalle immagini della violenza del mondo esterno. Corruzione,
violenza, persone mostruose ma anche vulnerabili, sangue che scorre a fiumi. Questa è stata l’America di questi film.
Soltanto Steven Spielberg e Tim Burton hanno voluto rivisitare con i loro visionari capolavori,
Catch me if you can e
Big
Fish, quel che resta di questo paese, in un viaggio dolce e amaro. Peculiare come ogni film faccia i conti con la delicata
questione delle origini, interrogandosi, quasi sempre, sulla nascita di una nazione attraverso lo specchio dell’immagine
paterna. Nella figura di un padre si condensa il desiderio di radici e la domanda di identità. Ma anche l’illusione e
l’inganno della paternità, quando in fondo, i crimini dei padri, sono i misfatti dei figli.