FUORISCHERMO

 

COUS COUS
FLYER
Titolo originale: La graine et le mulet
Regia: Abdellatif Kechiche
Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalya Lacroix
Montaggio: Ghalya Lacroix, Camille Toubkis
Musica:
Fotografia: Lubomir Bakchev
Interpreti principali: Habib Boufares, Hafsia Herzi, Faridah Benkhetache, Abdelhamid Aktouche, Bouraouïa Marzouk, Alice Houri.
Origine : Francia, 2007
Durata: 151'

FLYER Beniji, 60 anni e licenziato, sogna di restaurare un’imbarcazione per trasformarla in un ristorante in cui proporre come piatto forte cous cous di pesce. Chiede aiuto alla sua famiglia. Abdellatif Kechiche torna a raccontare un nuovo spaccato della cultura e della società francese, questa volta lontano dalle banlieu parigine de La schivata. Si sofferma sulle dinamiche e i rapporti, i contatti e gli sguardi di una famiglia arabo-francese, che vive a Marsiglia e costruisce uno di quei ritratti aderenti alla pelle dei personaggi. Un film fatto di sorrisi amari, pensieri, parole a fiumi, ritmo, sbalzi d’umore e genuinità. Un concetto che nel cinema di questo giovane autore è sempre presente. Un po’ in chiave estetica, un po’ in chiave morale.
DAZEROADIECI:: 8
MATTEO MAZZAMATTEO MAZZA


FLYER Abbandonato l’universo banlieue dei primi due lungometraggi (Tutta colpa di Voltaire e La schivata), Abdellatif Kechiche scimmiotta il primo Guédiguian, Zavattini e il cinema dei Dardenne per mettere in scena le peripezie del sessantenne Slimane, cantierista deciso ad aprire un ristorante di cucina araba. Pellicola che segna la consacrazione internazionale del regista nizzardo d’adozione e tunisino di nascita, Cous cous è un film sostanzialmente tradizionale: la tensione realista si coniuga a forme di rappresentazione fondate su una falsa trasparenza, determinando, così, un affresco corale in cui originalità e convenzione, problematiche interculturali ed esotismo sociale trovano equilibrio grazie ad uno sguardo ambiguo, costantemente in bilico tra sincera compartecipazione e ammiccamento ad un pubblico borghese, equo e solidale. Diventerà il film più sopravvalutato del 2008? Probabilmente sì. Soprattutto da quei critici che analizzano il cinema contemporaneo rifacendosi a schemi teorici degli anni ’40. Raccomandato a chi pensava che La schivata fosse il saggio di maturità di un grande filmmaker.
DAZEROADIECI:: 5
DIEGO CAVALLOTTIDIEGO CAVALLOTTI


FLYER Un portuale che ha perso il lavoro cerca di riciclarsi come ristoratore: specialità il cous cous cucinato dalla ex-moglie. A me era piaciuto moltissimo il precedente La schivata (ma anche Tutta colpa di Voltaire era stato un esordio degno di massimo rispetto): questa è una conferma di una scrittura registica innamorata del tempo reale (forse l’unico film lungo visto alla Mostra di Venezia 2007 che non avrei consigliato di accorciare; qualche taglio rispetto al girato originale è già stato apportato, e si sente), e di un cinema intelligente, umanista, umoroso e vitale che sa far parlare le voci e le facce delle persone comuni e leggere i loro cuori. Attenzione: i dialoghi sono lunghi, ripetitivi, un po’ tormentosi, ma si sente la vita che scorre anche tumultuosa, spesso ci si diverte e si viene travolti, gli attori hanno le facce e i corpi veri e perfettamente adeguati (non sarebbe stato male dare un premio all’insieme degli attori: di recente era successo a Cannes con il ben più mediocre cast di Indigenes), e Kechiche riesce a raccontare mirabilmente storie di immigrazione e di integrazione senza schematismi, senza luoghi comuni e senza pietismi.
DAZEROADIECI: 9
MAURO CARONMAURO CARON


FLYER La vita ha l’affascinante e lacerante caratteristica di imporre fatti, persone ed eventi, costringendoci ad adattarci. La stessa soluzione, seducente ed esasperante, in modo quasi mimetico, ha scelto Abdellatif Kechiche per il suo La graine et le mulet. La narrazione è penetrante e dura, i dialoghi lunghissimi, il ritmo rallentato eppure efficace, la vicenda in sé fragile, quasi ordinaria ma coinvolgente. Tutto è ambientato nella comunità magrebina di prima e seconda generazione, in una città portuaria del sud della Francia. Un film di interni e primi piani più che di grandi spazi; eppure il respiro e l’aria non mancano. Commovente la semplicissima umanità che trasuda in ogni secondo di pellicola, che ci riporta con i piedi saldamente per terra. Ottima la prova di tutto il cast, con una Hafsia Herzi – all’esordio cinematografico – di struggente sensualità. La già celebre scena finale della danza del ventre è una summa poetica che concentra lo spontaneo, coraggioso e maturo sacrificio femminile per i propri uomini, le evocazioni incestuose, la rivalsa della passione sulla durezza della vita. Couscous è un piccolo capolavoro, che si arroga l’onere di chiedere pazienza e partecipazione allo spettatore.
DAZEROADIECI 8
SAMUEL COGLIATISAMUEL COGLIATI