FUORISCHERMO

 

DAL LAGO DI LOCARNO AI CANALI DI VENEZIA VIA NAVIGLI DI MILANO
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percorso con panorama tra le sponde dei festival.
FLYER FESTIVAL Considerato che quest’anno, preso da svariati impegni esistenziali, non ho avuto il tempo di allietarvi con le cronache dalla rassegna che porta a Milano i film del Festival di Cannes, ma mi sto apprestando a farlo rispetto a quella che offre in anteprima (e anche talvolta postultima, visto che alcuni film – a volte a torto, a volte a ragione - non usciranno mai in Italia) i film di Locarno e Venezia, mi sembra giusto premettere almeno una considerazione, che si può riassumere sinteticamente così: 2008: Cannes batte Venezia 10 A 0.
La nostra visione è parziale, perché alle panoramiche milanesi non arriva tutto, ma un Festival che ha potuto incoronare con le palme film come Entre le murs, Gomorra, Il divo, Il matrimonio di Lorna, Racconto di Natale, e che schierava in concorso altri titoli come Le tre scimmie o (e qui vado sulla fiducia dato che non ho ancora visto i film) il Che di Soderbergh, o autori come Eastwood e Wenders, batte e strabatte un festival che, a dispetto della preannunciata “cordata italiana”, fa salire in groppa a leoni film interessanti ma modesti come The Wrestler o Il papà di Giovanna, o insulsi, come L’autre, e che a sua volta schierava in concorso film inutili o inguardabilità d’autore come Nuit de chien o Inju. Detto questo, qualcosa di buono s’è pur visto, e forse la sezione veneziana mediatamente più interessante è risultata essere quella delle Giornate degli autori.
Sperando di stupirvi con qualche sia pur modestissimo effetto speciale, cercherò di raggruppare i titoli secondo un criterio un po’ eterodosso.

… e ammesso che ve ne importi qualcosa, vi indico qui la legenda dei festival e delle sezioni che nel testo ho indicato in sigla (dove non citati esplicitamente): L=Locarno, PG=Piazza Grande, C=Concorso; V=Venezia, C=Concorso, FC=Fuori Concorso, O=Orizzonti, SdC=Settimana della Critica, GdA=Giornate degli Autori).

TERRA, CONFINI
MACHAN Doveva essere l’anno degli italiani, sulla scia dell’exploit cannese di Gomorra e de Il divo, ma gli autori che inducevano maggiori aspettative, Ozpetek e Avati, con storie ambientate rispettivamente nella Roma d’oggi e nella Bologna di ieri, hanno in varia misura deluso. Degno di nota invece lo sconfinamento di altri autori verso luoghi non italiani, segnale di una volontà di uscire dai confini non solo geografici ma anche psicologici, culturali e ideologici del nostra Bel(lissimo) Paese. Pontecorvo (Marco) va a cercare i ragazzini rumeni che il clown franco-algerino Miloud tenta di salvare dalle fogne (in senso letterale) delle rispettive esistenze in Pa-ra-da (V-O); l’italo-argentino Bechis porta Santamaria e la Caselli in Amazzonia in mezzo agli indios guaranì spossessati delle loro terre in La terra degli uomini rossi – Birdwatchers (V-C); Pasolini (Uberto, non parente) segue un gruppo di migranti dalla natia Sri Lanka alla Germania in Machan (V-GdA).
Percorsi e scelte decisamente insoliti, e risultati interessanti (almeno negli ultimi due casi, Pa-ra-da non l’ho visto). Mentre il film di Bechis rende in modo icasticamente definitivo il contrasto tra indigeni e colonizzatori nella scena in cui un fazendero reclama i propri diritti su una terra che i suoi avi hanno conquistato, lavorato e reso produttiva, e il leader degli indios per tutta risposta si china in silenzio, raccoglie una manciata di terra e la mangia, Machan illustra il senso di inadeguatezza dei migranti attraverso la parabola (ma ispirata ad una storia realmente accaduta) della falsa squadra di pallamano (costituita per ottenere il permesso di espatrio) che si trova costretta a giocare “fuori casa” ad un gioco che non conosce. Alla fine i migranti saltano oltre una sbarra: così si superano i confini, e Pasolini evita anche la figura retorica del fermo immagine. Il titolo che a noi non dice nulla nasconde un film gentile e godibile, un po’ commovente e molto divertente.

CASE, TERRITORI
PARQUE VIA Il territorio è inteso in senso difensivo in un altro paio di titoli. Uno di questi, Parque via, ha vinto il Pardo d’oro a Locarno. Doveva esserci la stessa giuria dell’anno scorso, che premiò un punitivo giapponese che reiterava all’infinito lo stesso ossessivo schema di sequenza mostrando la storia di personaggi divisi che impercettibilmente si avvicinavano. Quasi altrettanto noiosa risulta la storia di un anziano che a Città del Mexico, nello scorrere monotono dei giorni, custodisce una casa per conto di una ricca signora, alla morte della quale non troverà di meglio che farsi mettere in galera per rifugiarsi in un altro angolino riparato e regolato. Analisi di un caso patologico? Ironia impercettibile? Morale profondamente reazionaria? Chi se ne importa? Ho invece trovato molto interessante Home, fuori rassegna ma in anteprima per la consecutiva “Festa del Cinema”. L’infallibile Huppert e Gourmet (quello dei Dardenne) abitano a pochi metri di un’autostrada incompiuta, che ad un tratto viene completata e aperta al traffico. La vita “naturale” della famiglia entra in rotta di collisione con la vita “moderna”: la difesa consisterà in una chiusura difensiva che rischia di diventare autodistruttiva. Idea di partenza originale, bella impaginazione visiva, attori impeccabili, rigore narrativo (forse un’accelerazione di troppo nel precipitare della situazione), problematicità assicurata.

FAMIGLIA
Un giorno perfetto Altre famiglie in mostra, altri territori da difendere o da distruggere. Ad esempio quella tutta in locandina di Un giorno perfetto, dove la violenza deflagra nel modo più violento. A mio parere, il film è molto meno brutto di quello che la maggior parte dei commentatori hanno fatto intendere: nel bene e nel male, c’è tutto l’Ozpetek che ci si può aspettare, che casomai è un autore in generale sopravvalutato: la solitudine dei personaggi pur all’interno di una narrazione che aspira alla coralità, l’enfasi sui sentimenti e sul non detto, la musica utilizzata in senso enfatico-sentimentale, il lavoro con gli attori. Ma qui delle storie che si affiancano a quella principale si sente davvero poco la necessità. Anche la figlia del papà di Giovanna uccide, a causa di un conflitto edipico non risolto, sullo sfondo dell’Italia fascista. La storia è forte, ma Avati con tutta l’esperienza che ha sulle spalle non riesce ad evitare didascalismio e didatticismi. Il film non è brutto, ma alle volte si ha l’impressione di essere davanti ad un teatrino, alle volte di leggere la didascalia sotto la vignetta di un fumetto (e Greggio che corre nel finale tragico, ditemi, a voi non fa ridere?).
33 scene dalla vita, che ha ricevuto diversi premi a Locarno, è un film polacco che parla in realtà della morte. La protagonista si trova ad affrontare nell’arco di un breve periodo di tempo la malattia e la morte di entrambi i genitori. L’argomento è durissimo (anche se la regista regala alcuni momenti, forse troppi, di allegria isterica ai personaggi), la trattazione cinematografica, pur nei limiti di un prodotto professionale mainstream, non fa molti sconti, anche se non indulge al morboso o al patetico. Ho sentito diversi spettatori provati dal film, ma mi sembra un tipo di cinema tutto sommato onesto e non retorico.
Un gruppo para-famigliare assai strano è al centro di Una semana solos (V-GdA): protagonisti un gruppo di bambini e ragazzini che vengono lasciati qualche giorno soli dalla famiglia, in un complesso residenziale di lusso e superprotetto all’esterno di Buenos Aires, circondato dalle favelas. Un film strano, sottilmente disturbante, che aveva forse bisogno di una regia un po’ più energica.
In altri casi il film si riduce al rapporto madre-figlio, mentre i padri sono assenti (ammesso che siano mai esistiti): è il caso del turco Süt (Latte) (V-C) e dello statunitense Choke (Soffocare) (L-PG). Il primo adotta i toni laconicissimi che si pensa caratterizzino il cinema d’autore: ma sorge il dubbio che abbia poco da dire. Il secondo, come già il libro di Palahniuk, inanella una serie di trovatine che vorrebbero essere: originali e provocatorie; e che risultano essere: troppe e strampalate.

TRIANGOLAZIONI
The Burning Plain Una storia di famiglia è anche al centro di The Burning Plain (ci sono Kim Basinger e Charlize Theron, anche produttrice esecutiva). Dirige, esordendo, Ariaga, sceneggiatore di Inarritu (Amores Perros, 21 grammi, Babel), amante di sceneggiature frammentate e triangolari. Qui le tre vicende narrate compongono una storia famigliare tragica e coesa, in cui attori, scrittura e sobrietà di regia danno luogo ad un film serio ed intenso, dove ogni personaggio trova una propria motivazione.
In Brideshead Rivisited il triangolo vede al centro un aitante studente inglese conteso tra una lei e il di lei fratello; la guerra, la religione e la vita penseranno a mettere un po’ d’ordine (per così dire) in queste esistenze che in un Carnevale veneziano avevano perso un po’ il senso dell’orientamento. Cinema di papà, freddo e un po’ inutile; la cosa che mi è piaciuta di più (nell’edizione originale) è sentire come cambia il timbro della voce del protagonista dalla giovinezza alla maturità.
Ne Il papà di Giovanna, poi, di triangoli ce ne sono almeno tre: Orlando-Neri-Rohrwacher, Orlando-Neri-Greggio, Rohrwacher-compagna-ragazzo. Un triangolo molto più tradizionale si trova invece in Jerichow (V-C), nome di una località tedesca, dove si incontrano lui, lei e l’altro. La storia, dal “Postino suona sempre due volte” in poi, si è vista mille volte, e cinematograficamente parlando non c’è niente di nuovo (e nemmeno si vede una ragione valida per metterlo in concorso).
Uno spunto iniziale simile (il giovane che dopo un periodo oscuro torna in un ambiente rurale, dove covano tragedie), si trova nel franco-canadese Elle veut le chaos (L-C).

FEGATO AL MERCATO
Elle veut le chaos In quest’ultimo film, scostante ma anch’esso pluripremiato a Locarno, la protagonista ci rimette il fegato, venduto da loschi figuri ad una vecchia signora. In un mondo globalizzato e dominato dal mercato, anche il protagonista del cinese La festa dei cattivi (L-C), per aiutare il padre malato, non trova di meglio da fare che vendere il proprio fegato a dei marrani truffatori, e anche uno dei personaggi di Machan, in Sri Lanka, ci fa un pensierino. Per affrontare un mondo così duro, ci dicono questi film, ci vuole veramente del fegato, magari per venderselo, appunto.
Traffici, mercanteggiamenti e denari sono al centro anche del turco Bazar (The Market) (L-C), nel quale un trafficone si getta in un affare rischioso di qua e di là del confine azerbaigiano per comprare le medicine per i bambini dell’ospedale ma anche per ricavarci il bastante per mettersi nel mercato della nascente telefonia mobile. Il protagonista è stato premiato con il Pardo; tra i film di Locarno è stato in fondo quello che ho preferito, dotato di morale, di misura, e anche di humor.

COLPI IN TESTA
The Wrestler Per sbarcare il lunario (ma forse anche per esercitare un’arte), The Wrestler (V-C) Mickey Rourke combatte su un ring vestito da deficiente contro avversari vestiti da cretini. Il mercato genera domanda di violenza (ritualizzata, ma non troppo) e la società dello spettacolo è attrezzata per soddisfarla, sostenerla e rilanciarla. Ai margini, un perdente come il protagonista. Rourke (e la Coppa Volpi gliela potevano pure dare, a fronte della prestazione professionale ma prevedibile di Orlando) ci mette probabilmente un pezzo della sua vita debosciata, oltre alla faccia, allo sguardo, ai capelli, alle unghie, alla pelle, ai muscoli e quant’altro, in un percorso narrativo piuttosto risaputo (sfiga assoluta; speranza di riscatto; ricaduta nella sfiga). Tutto sommato un film dignitoso, che probabilmente, e giustamente, non sperava nel Leone d’oro, e particolarmente poco gradito dal pubblico femminile, visto che Rourke (analogamente ai suoi amici-nemici) si fa: picchiare; lacerare dal filo spinato; perforare da una sparapunti; e si dà sediate in testa per far divertire gli spettatori (e noi).
La protagonista de L’autre (V-C), invece, che la Coppa Volpi l’ha vinta, sulla testa si dà una martellata, essendo un po’ disturbata psichicamente, avendo una certa età ed essendo stata abbandonata dall’amante giovane e di colore. Peccato che la martellata non sia stata letale, ha scritto un commentatore; credo che la maggior parte di noi spettatori sarebbe stato d’accordo. Molto gradito è risultato invece Burn After Reading – A prova di spia, malgrado il colpo di pistola in fronte che a metà film elimina uno dei protagonisti e uno dei massimi sex symbol dei nostri tempi. Ma ai fratelli Coen si perdona tutto, perché stavolta ci fanno ridere mettendo in vetrina una galleria di tonti (e scusate se parliamo di Clooney, Pitt, Malkovich) che pensano (anche per ragioni professionali) di essere al centro di chissà quali complotti spionistici mentre si tratta solo (si fa per dire) di questioni d corna e di una maldestra richiesta di ricompensa che si trasforma in una ricatto quasi involontario. Più che di un pamphlet sulle paranoie americane post-11 settembre, mi è sembrato una parodia farsesca del cinema spionistico classico (v. i titoli d’apertura), piuttosto innocua e con qualche caduta di stile (la sedia hardcore) e qualche rilassamento di ritmo (sono il solo a pensarla così?).

PRANZI E GITE
Pranzo di ferragosto Anche qui siamo a cavallo tra i gruppi di famiglia e i territori invasi. Il piccolo fenomeno Pranzo di ferragosto (V-SdC) mette in scena un attempato protagonista (anche regista all’esordio, già sceneggiatore di Garrone), con madre novantenne a carico (ma lucida e mentalmente precisa) che si trova ad accudire ben altre tre “intruse”, alla vigilia di un Ferragosto romano. Tono lieve, un cast che ispira simpatia, e l’umiltà di contenere la storiella nell’arco di 75 minuti.
Anche in Un altro pianeta (V-GdA), più che di un estraneo che si inserisce in un gruppo, si parla di un gruppo che invade la vita di un singolo: tre ragazze più accompagnatori che entrano non richiesti nella vita di un bagnante gay, solitario e nudista in un pomeriggio estivo sulla spiaggia di Capocotta. Budget ridottissimo (si vede); più di un critico ha fatto il nome di Rohmer, che forse però non sarebbe d’accordo nel disinvolto aggiornamento di certe sue tematiche e sullo stile narrativo un po’ sciatto. Un'altra gita con intrusa è al centro del romeno Pescuit sportiv (V-GdA): una coppia di amanti clandestini in gita di pesca sportiva investe una prostituta cha passa con loro tutto il pomeriggio, sorta di fatina dalle buone intenzioni che mette però in continuazione in crisi gli equilibri già molto precari della coppia. Anche qui soldi per la produzione vicini allo zero, pochissimi attori e camera a mano. Ma il lavoro sulla scrittura e sulle psicologie non è male, e la Romania sembra essere oggi il Paese dell’Europa dell’Est che produce le cose cinematografiche più interessanti.

STORIA E REALTA’
Paesaggio n. 2 Non c’è molto spazio invece per la Storia con la S maiuscola. Se film come Brideshead o Il papà di Giovanna la usano come fondale e spunto per i costumi, un approccio più originale e problematico è quello adottato da Paesaggio n. 2, un thriller ambientato oggi nella Slovenia delle foibe, dove un passato che sembra remoto getta ancora ombre su segreti non ancora dissepolti. I giustizieri comunisti dell’immediato dopoguerra si aggirano come tetri fantasmi, seminando morte e spargendo sangue, prima di essere a loro volta inghiottiti dalle voragini della Storia. Metaforico ma nello stesso tempo molto esplicito (anche nei diversi accenni polemici al ruolo della Chiesa), il film crea suspense e produce riflessione, ma forse esagera nell’insistenza su dettagli macabri.
L’unico film africano visto in rassegna, invece, l’etiope Teza, sceglie invece la strada della cavalcata storica attraverso la storia nazionale recente, tra i crimini colonialisti e di guerra dei fascisti italiani alle sanguinose lotte fratricide tra fazioni marxiste. Il tutto visto attraverso gli occhi del protagonista, dall’infanzia felice alle illusioni politiche della giovinezza (parte della quale vissuta nella Germania della contestazione), fino all’amara disillusione dell’età matura. Un film dalle robuste ambizioni, ma lungo, ripetitivo e un po’ naïf: ma le ingenuità si perdonano meglio se sono accompagnate dall’esotismo e alcuni avrebbero voluto vederlo premiato con il Leone d’oro.
Di contestazione e di politica si parla anche nel documentario Venezia ‘68, che riesce nell’intento di far confessare ai protagonisti ancora vivi della protesta contro la Mostra del Cinema dell’anno fatidico diretta da Chiarini, che in fondo non se ne ricordano il senso e le ragioni. Nel campo del documentario si muovono altri due film, legati in diversissimo modo al tema della morte. Calopresti ha dedicato il suo ultimo lavoro ai morti nel disastro della Thyssen-Krupp, emblemi della tragedia delle morti sul lavoro in Italia. I luoghi, i volti e i ricordi dei parenti delle vittime, un prologo con attori, il regista in scena, nel finale i rumori e le urla della tragedia, un titolo che mi sembra offensivo (La fabbrica dei tedeschi). Non so, troppo o troppo poco; non aggiunge molto a quello che già sapevamo o a quello che dovremmo sapere. Pinuccio Lovero (V-Sic Eventi) invece, eroe eponimo, da sempre ha sognato di essere custode di cimitero; ma adesso che ha realizzato il suo sogno in una frazione di Bitonto non muore più nessuno da mesi. C’era uno spunto curioso e divertente, basato su un bizzarro tipo umano, e nel primo quarto d’ora funziona. Ma assistere per i rimanenti 50 minuti all’esposizione della filosofia di vita di Pinuccio fa pensare ad una grossa perdita di tempo.
Un lavoro di restauro è stato compiuto invece su un documentario d’epoca, La rabbia (FC-E), di cui è stata conservata la sola parte firmata di Pasolini (stavolta Pier Paolo, uno dei protagonisti documentari anche di “Venezia 68”, dove si trovò nella scomodissima posizione di contestare un festival che presentava un suo film), espungendo quella “contrapposta” di Giovanni Guareschi, e cercando di reintegrare la prima dei pezzi mancanti. Pasolini applica la chiave poetica e quella ideologica per interpretare la realtà dei suoi giorni; il tutto appare datato, e, con rispetto parlando, minacciato talvolta dall’enfasi e talvolta dalla reticenza.

CANI E BESTIE
Nuit de chien Nel mio carnet di caccia ci sono ancora un paio di titoli, fallimenti di autori quasi omonimi, Schroeter e Schroeder: il primo impegnato in un pasticcio fantapolitico, Nuit de chien (il titolo dovrebbe mettere in guardia se andate a vederlo di sera), le cui aspirazioni alla visionarietà (atmosfere un po’ alla Fassbinder di Querelle) sarebbero già difficilmente perdonabili in un esordiente; il secondo autore di un pasticciato noir letterario franco-nipponico, Inju, la bête dans l’ombre, in cui non ci vuole molto a capire chi potrebbe essere il personaggio misterioso del titolo (ci sono due personaggi, e uno è la vittima…). Due titoli veneziani che abbassano il livello di un concorso già al livello di guardia.

TERRE ESTREME
Back Soon Questo giro del mondo cinematografico potrebbe trovare un approdo suggestivo nelle terre estreme dell’Islanda, che fanno da sfondo sia a Back Soon, commedia dall’umorismo nordico ma abbastanza godibile, che narra le peripezie di una spacciatrice d’erba attempata, che si trova ad affrontare tra gli altri problemi quello dell’inghiottimento del cellulare con l’elenco clienti da parte di un’oca ingorda; sia a Glima, performance di teatro-danza dei Masbedo, dove un uomo e una donna avvinti l’uno all’altra da legami di cuoio danzano e combattono sullo sfondo di un paesaggio aspro e nudo.
Un’ultima scheggia? Un de Oliveira, (autore di cui non ho mai capito l’asserita grandezza), in trasferta brasiliana, che diverte con un frammento di pochi minuti (dal progetto Do visìvel ao invisìvel, in cui due uomini si incontrano per strada e scelgono di parlarsi per cellulare, ad un passo l’uno dall’altro, e scambiandosi una sequenza di banalità, per non essere disturbati dal continuo squillare dei rispettivi telefoni…
That’s all, folks!