30 Aprile 1945, via Poliziano, Milano. Luisa Ferida e Osvaldo Valenti sono trovati morti. Cinque giorni dopo la Liberazione
d’Italia, i partigiani tolgono per sempre dalla scena i due attori simbolo di certo cinema fascista. Questa la Storia,
questa la fine di una storia d’amore (e non solo, si vorrebbe subito precisare), la tragedia di quella che è stata, per
antonomasia,
la coppia, bella e ‘maledetta’ del cosiddetto cinema dei ‘telefoni bianchi’, quel cinema che il regime
voleva e proteggeva. Tragedia tutt’oggi ammantata di mistero e da diversi anni ‘progetto nel cassetto’ del regista Marco
Tullio Giordana. Da circa venticinque anni il soggetto appassiona e si evolve tra le mani del regista. Solo quest’anno
Sanguepazzo trova luce. Che sia la brillante vetrina di Cannes a presentarlo al grande pubblico, certo, non è un
passaggio indifferente (col senno del poi ancor meno, alludendo, qui, al premio ricevuto), ma andiamo oltre. O meglio,
torniamo allo ‘ieri’ del film, alla sua gestazione. Venticinque anni fa significa pensare Giordana all’inizio della carriera
artistica (che comincia nel 1980 con Maledetti vi amerò).
Sanguepazzo non è una pellicola da piccolo budget, solo ora e soprattutto con gli ultimi tre successi alle spalle (
I Cento Passi del 2000,
La Meglio gioventù del 2003 e
Quando sei nato non puoi più nasconderti, di tre anni fa), Giordana può realizzare (ovvero, trovare un produzione per) quel copione che, prima con Enzo Ungari, poi con Leone Colonna, ha continuato a rimaneggiare. I due co-sceneggiatori mancano al progetto (il primo muore nel 1985, il secondo nel 1999), ma il fascino e la ragione della vicenda, ovvero l’intenzione di un
Sanguepazzo, continuano a stimolare il regista. “Ciò che è controverso, ciò che va rivelato, è materia per artisti”, afferma lo stesso Giordana. In tutto ciò che è ambiguo l’artista trova stimolo, interesse, dubbi, possibilità di ri-creare, di re-inventare la Storia, di scoprirvi il romanzesco… lì l’artista può, ha il ‘dovere’ di, intervenire. È evidente, e a fronte di questo si pensi anche a
I Cento Passi o a
La Meglio gioventù, che la Storia, uno sfondo reale ben preciso, è
componente essenziale nel pensare il cinema, la sua capacità di raccontare emozionando e la sua esigenza (almeno per certo
genere di cinema) di radicare l’importanza dei personaggi in quella di un contesto storico ‘vero’. Coniugare l’una e l’altra, va da sé, è l’arte del melodramma. Un grande ruolo drammatico rivisitato secondo una precisa dimensione spazio-temporale non può che funzionare, sempre. Calare nella Storia la finzione permette al regista di ‘appropriarsi’ dell’una per raccontare l’altra. Il confine tra le due è labile e ambiguo, ma così dev’essere se non siamo di fronte ad un documentario. Impossibile e sterile qualsiasi ricerca di capire dove arriva la Storia e inizia la finzione… solo lo sguardo del regista basta a invalidare ogni tentativo, la sua introspezione e interpretazione a sbarrare il ‘vero’ storico oggettivo, o se si vuole, quel
cinema vérité, mai abbastanza vero. Tutto questo per dire che sarebbe un’operazione alquanto asfittica, noiosa e fuorviante cercare il ‘vero’ storico solo perché, sì, d’accordo,
Sanguepazzo racconta di una storia vera. E poi, se si vuole fare i filologi… quante incoerenze andrebbero ad elencarsi? E poi si tratterebbe davvero d’incoerenze? Perché, attenzione, ricordiamo che è essenzialmente
fiction e che se qualche ‘nonno’ cerca nella Ferida-Bellucci e nel Valenti-Zingaretti i veri attori degli anni ’30 immaginiamo sappia prendere le giuste distanze. E ancora, già una grande imperfezione ha fatto chiacchierare. Cinecittà aperta nel 1936, come racconta Giordana… “impossibile!”, qualcuno potrebbe dire, visto che gli stabilimenti romani vengono inaugurati nel 1937. Ma ecco che il regista confuta l’accusa: Cinecittà, dice, già nel ’36 era in attività. Dunque, nessun errore. E poi, ancora, quelle figure di Golfiero (Alessio Boni) e Cardi (Luigi Diberti), chi sono state realmente? In Golfiero davvero si può scorgere un Luchino Visconti? In Cardi un sincretismo tra un Luigi Freddi (all’epoca Direttore Generale della Cinematografia) e un Francesco Salvi (primo amante della Ferida)? Domande che nulla ci vieta di fare, ma che nulla (del film) ci permette di sbrogliare. Se il regista sceglie di tenere velato il rimando al vero personaggio storico, perché cercare di togliere il velo per magari poi scoprire che… mai un Direttore della Cinematografia è stato suicida. Qui c’è la Storia, gli anni della seconda Guerra Mondiale, ci sono i personaggi ‘forti’, dai ruoli drammatici ben identificabili (non s’intende qui il fatto che, come
coincidenza vuole, siano attori), Luisa Ferida e Osvaldo Valenti e quindi c’è la trama, la storia particolare calata nel contesto storico, ovvero quello che per Giordana è il ‘segreto’ di un grande film. A parole, almeno, il messaggio che vuole lanciare il regista è chiaro e pienamente condivisibile. Il melodramma emoziona e convince, affascina e stimola, si comprende e, se proprio proprio non permette di immedesimarsi, fa sognare. Dunque la storia romanzesca interessa, il mélo, al cinema, sembra spesso essere vincente. Come dissentire dal guardare a
Senso o al
Il Gattopardo di Visconti o, ancora, a
Via col vento (film dal regista stesso citati perché massimi esempi –ma, va da se, che altri se ne potrebbero aggiungere- di melodrammi in cui Storia e finzione si intrecciano) come a dei capolavori? Entrambe le definizioni, storia romanzesca o mélo, calzano come definizioni di
Sanguepazzo. Però, il messaggio, tradotto in immagini quanto rimane fedele alle ottime intenzioni? Va bene guardare a Visconti -quale migliore modello per un melodramma?- ma, forse, come lo stesso Giordana non ci dice che Golfiero è Luchino (e non lo dice, perché? …che ruolo ‘scomodo’ per Boni sarebbe stato!), non è meglio lasciare il grande maestro estraneo a queste righe?
Come lavora Giordana con e sulla Storia? Senza indugio, sia detto, lavora con grande moderazione, sia essa di forma che di contenuto. Il coraggio di ripescare una storia d’amore ‘maledetta’ e le ragioni della sua fine è da riconoscere. Il film tenta di restituire le grandezze e le miserie di una cinematografia che in quegli anni (gli ultimi anni ’30 e primissimi anni ’40) si sta allargando (si pensi che con una legge del ‘38 Hollywood sparisce dagli schermi italiani), tenta di ri-aprire una storia forse tanto rimasta nell’ombra e, non ultimo, tenta di rivisitare la Storia. Ma
Sanguepazzo non è un film politico (o meglio, lo è come tutti i film o come può esserlo un melodramma), nonostante il cameo finale di Lo Cascio apporti sicuramente un piglio ideologico-politico. Ma un piglio, un apostrofo finale, appunto, una domanda che rimane aperta e così vuole echeggiare piuttosto che farsi carico, risolvendola, di tutta l’ambiguità del film (che persiste, aldilà del film). Se c’è coraggio nella scelta del soggetto, se ce n’è un po’ meno in quella degli attori (ammesso anche che la coppia
Bellucci-Zingaretti sia perché, come dichiara il regista, “avevo bisogno di star per interpretare star”… il coraggio da che parte sta? Da quella di sfatare il mito della bella ‘attrice’? E dovrebbe sorprendere sentire –da Giordana, s’intende- che l’attrice… segue le indicazioni del regista? Be’, se sorprende…), e ancor meno nel
pathos, nella forza evocativa, nella rappresentazione di lusso ed eccessi, di miseria e di degrado, il coraggio è davvero invisibile nella costruzione sintattica. Un film che usa ciclicamente immagini del presente alternate a flashback e ad immagini di repertorio. Dai primi fotogrammi in bianco e nero su cui scorrono i titoli di testa e con cui la storia vuole trovare un inizio, evocando ma anche rischiando di ridondare e appesantirsi proprio laddove la presenza del regista vorrebbe sentirsi forte, la tonalità dei grigi si dissolve per lasciare lo spazio al colore, il tempo al 20 aprile 1945. Da qui, lungo l’intero film, si torna, a più riprese, negli anni ‘30. E’ il 1936 quando la Ferida e Valenti si conoscono e quando Luisa incontra il regista… (quello che nel film è) Golfiero. È il ’37 quando immagini di repertorio (in bianco e nero) ci portano al Lido di Venezia per l’inaugurazione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Siamo nel ’40 alle isole Ponziane: Luisa è incinta, alla radio la notizia che Mussolini ha dichiarato guerra. E dunque immagini di repertorio a riproporre il discorso del duce e poi ancora dell’Italia fascista che sta marciando alla conquista dell’Africa… delle dimissioni del duce e della nascita della repubblica di Salò. E poi altre ancora.). Ininterrotto è poi il gioco di continuo
flashback dagli ultimi giorni, poi ultime ore, dei tre, Luisa, Osvaldo, Golfiero, agli anni appena precedenti il ’45. Un meccanismo di ‘avanti e indietro’ che finisce per appiattire il passato a livello di didascalia di un tempo presente che, dall’inizio del film, rimane tutto sommato immobile e inerte e davvero poco riesce a solleticare quel rimosso, quella memoria che se non politicamente almeno moralmente vorrebbe essere riscattata. Una storia ‘maledetta’ che non vuole portare accuse né discolpe, ma che avrebbe potuto sbilanciarsi un po’ di più e, forse, seguire con maggiore convinzione l’estro istrionico del suo protagonista. Un Valenti-Zingaretti che sa (finalmente, si potrebbe dire) dare respiro ad un attore (Zingaretti) mentre libera la buffoneria del suo personaggio. Della Bellucci magari è meglio che la si vada a vedere.