Si sa, quando il luccichio delle stelle di Hollywood tocca anche il nostro cinema allora… forse vale anche la pena parlarne.
In principio l’America, dunque. A doppia ripresa il cinema d’oltreoceano porta l’attenzione su
Riprendimi, secondo
film della regista veneziana Anna Negri. E tant’è partire subito dalla ‘chicca’, da una questione tanto seria e banale in
America quanto allentante notizia da gossip se trasvolata da noi. Brad Pitt (o meglio, la società dell’attore) ha chiesto
di acquistare i diritti del film… Nessun clamore, tutto normalissimo, dice la stessa Anna Negri, non è nulla di
straordinario. Eppure, la notizia come fa a non essere chiacchierata? Un passo indietro ed ecco come si spiega questa
normalità.
Riprendimi è stato l’unico film italiano ad aver partecipato all’ultimo Sundance Film Festival (per
intenderci, il festival americano promosso da Robert Redford e rivolto alle produzioni indipendenti). Non è strano che i
film in concorso vengano ‘premiati’ come
Riprendimi… che poi compaia il nome Brad Pitt piuttosto che quello di un
anonimo parvenu, certo probabilmente non è indifferente. Ma tutto ‘finisce’ qui.
Guardiamo al film da vicino. S’è detto, seconda pellicola per Anna Negri dopo
In principio erano le mutande,
presentato al festival di Berlino nel 1999. Film indipendente (per questo, appunto, accolto al Sundance) ovvero a basso
badget, girato -diceva la regista stessa, in questi giorni impegnata ad accompagnare la pellicola nelle sale italiane- in
venti giorni, con due telecamere “… come quelle che si vedono nel film” (macchine a mano, digitali), arrangiato su misura
(anche) della casa della stessa Negri e forte dell’entusiasmo di attori noti e meno noti, ma complessivamente tutti
esordienti in questi ultimissimi anni, incuriositi dalle possibilità di una sceneggiatura che chiedeva loro nuovi ruoli su
cui cimentarsi (si pensi all’attrice Alba Rohrwacher, nel ruolo di Lucia in
Riprendimi. Comparsa in diverse
pellicole appena passate sui nostri schemi -
Caos Calmo, Giorni e nuvole, Voce del verso amore, Mio fratello è figlio
unico, per citarne alcuni- ma pur sempre con ruoli secondari, ora con Lucia può interpretare la protagonista. Si pensi
a Valentina Lodovini, qui la dottoressa Michela nel ruolo di amante, da poco apparsa come la maestra, bella e conturbante
sempre, ma ‘innocente’ nell’ultimo film di Mazzacurati,
La giusta distanza, o, ancora, (si pensi) alla scelta di
‘non-attori’, attori non professionisti s’intende, al loro debutto). Dunque un film realizzato da una giovane regista,
interpretato da giovani attori… una rappresentazione-specchio del mondo dei giovani artisti, un’ora e mezza di metaforico
discorso sul vivere precario dei trentenni oggi.
La storia è semplice, l’ennesima crisi coniugale in cui lui, Giovanni, sente di soffocare da quando è nato il piccolo Paolo
e chiede solo di stare solo con sé stesso per qualche giorno, mentre lei, Lucia, non si rassegna all’idea del grande amore
e del matrimonio perfetto. “Perché?” continua chiedersi mentre cerca di riprendere e farsi riprendere dal marito. Non vale
fermarsi alla storia, dire che è banale e inverosimile perché non tutti “…gli uomini sono alla frutta”, ipocriti e vili,
mentre tutte le donne sono sognatrici ossessive che rimangono vittime innocenti dei loro stessi sogni infranti. Questo il
racconto lo dice, certo, ma non basta sentire solo questa voce, non sarebbe onesto. Sarebbe come volgere lo sguardo al
senso complementare del titolo-verbo “riprendimi” per smontare il film e dire … mica tutta la generazione di trentenni deve
sentirsi rappresentata in questa società “liquida”! È vero il mondo del cinema affascina le nuove generazioni ed è
probabilmente molto verosimile che questo mondo sia il mondo del precariato per antonomasia, dall’altra parte non si può
dire che la solidità affettiva sia il punto forte dei trentenni d’oggi (ma poi, solo di loro?) … però, va da sé,
Riprendimi è uno spaccato di questi anni in cui lavoro e famiglia sembrano sbriciolarsi sotto i piedi non appena si
pensa siano conquistati. Considerare il quadro della Negri aldilà della consapevolezza che questo è ‘solo’ uno dei tanti
spaccati rischia di portarci all’etichetta di ‘poco originale’. Senza indugiare, allora,
Riprendimi sa farsi gustare.
È una commedia simpatica, a tratti grottesca, che non vuole promuoversi a veicolo di messaggi ‘alti’ e che fa del
linguaggio, o meglio, dell’invenzione
in progress del linguaggio filmico la sua particolare natura. (Dico
in
progress perché la stessa regista confessa che è stato lavorando con la co-sceneggiatrice che è nato lo spunto per
creare fluidità anche tra l’amico Eros e Lucia. Mente è stata essenzialmente la simpatia dei due attori cameraman a
suggerirle di trasformarli in personaggi veri e propri. L’idea iniziale era di tenerli come voce-off). La duplice valenza
semantica del titolo è presto percepita dallo spettatore: la coppia che scoppia e il tentativo di
ri-prendersi, gli
amatori del video che dal progetto di un documentario sulla precarietà del lavoro finiscono per collezionare immagini su
immagini sulla precarietà dei sentimenti e, ancora, si potrebbe aggiungere, un terzo significato… forse il più profondo,
alla base dei primi due, il (ri)prendere sé stessi. E perché poi non un quarto? Viste le inevitabili liti… riprendersi
sinonimo di rimproverarsi stonerebbe? Non sembra molto. Mentre Lucia smania per riprendersi Giovanni, Giovanni fugge in
cerca di trovare sé stesso. Allo stesso modo, il coro delle amiche di Lucia da una parte, l’amante di Giovanni, Michela,
dall’altra, amplifica il significato del verbo nella dimensione non tanto dell’essere (video)riprese, quanto in quella
dell’appartenere a qualcuno e, alla fine, tutti i personaggi sembrano ‘insegnarci’… poco importa se al marito tradito,
all’amante, all’amica (un innocuo bacio lesbico non manca), ad un figlio (se c’è, malgrado suo, verrebbe da dire)…o a sé
stessi. Ciò che conta è non sentirsi morire, “Ti prego Giovanni ritorna… io mi sento morire senza di te” dice Lucia in
ginocchio. Michela, altrettanto bel personaggio metafora di quella richiesta ‘prendimi-lasciami’, ugualmente bruciata da
una passione ormai svanita, rappresenta l’insolvibile paura di fronte ad un irrefrenabile grido di “riprendimi” e la
fiducia che sempre non è mai abbastanza, se non quando… è già tradita.
Insomma, in questa “società liquida” il precariato sul lavoro trova perfetta corrispondenza a livello dei rapporti affettivi,
‘liquidi’ e volatili anch’essi e il film si propone (anche) come interrogativo sulla possibilità di individuare un legame
di causa-effetto tra l’una e gli altri. Si dice che “Il matrimonio è una cosa da posto fisso”… se questo è vero, la società
dell’incertezza, del continuo tentare e del costante (re)inventarsi un lavoro, un amore, una vita… un io, come può non
continuare a ‘perdersi’ e a cercare la fine di questo girarsi intorno? Forse filmando? Riprendere, registrare… catturare
le immagini, come fanno i due amici, Giorgio ed Eros, che finiscono a pedinare Lucia e Giovanni, notte e giorno, assistendo
alle quotidiane faccende come rimanendo vittime imbarazzate, testimoni di momenti un po’ troppo intimi per l’occhio di una
macchina da presa, tanto che entrambi cadono nell’incertezza di un ‘lavoro’ sempre più insensato. Che senso ha, infatti, il
loro riprendere sfrenato? Dov’è finita l’intenzione iniziale? “Girano intorno… non sanno cosa vogliono e io più vado
avanti, più filmo e cerco un’immagine che raccoglie tutto, più mi accorgo che mi perdo”, dice Eros all’amico.
Se non si sa guardare al mondo con gli occhi che abbiamo… cosa dovrebbe suggerirci il guardarlo attraverso una telecamera?
È un’inquadratura, un’immagine, un quadro ristretto, solo un punto di vista… solo uno sguardo che magari ‘ricorda’ perché
registra, ma davvero in questo ricordo la “società liquida” riesce a consolarsi dal sentire quel senso di spaesamento? È un
mondo fisso, certo, quello del filmato, che non si può cambiare e questo forse rincuora l’animo desideroso di stabilità, di
memoria, di storia e passato, di tempo costruito più che vissuto in maniera ‘impressionistica’ mentre lo consola se la
solitudine è lì per spaventarlo: “…ti faccio rimanere perché l’unico motivo è che ho paura di rimanere da sola”, dice Lucia
ad Eros, però… La realtà poi va oltre. Lucia può amare il suo lavoro di montatrice perché, dice, “…prendi tutti i pezzetti
e ricostruisci il mondo come piace a te”, ma, appunto, è un mondo ‘tuo’, solo tuo.
La fluidità implicita nel “riprendimi” pervade l’intero film, non solo a livello diegetico. Corrispettiva cifra stilistica
è la continua e abile alternanza tra m.d.p della regista, le due m.d.p. degli attori-registi, la camera fissa sui primi
piani dei diversi personaggi inframmezzati di tanto in tanto a ritagliare in modo netto lo spazio e il tempo per qualche
breve riflessione (che siano poi parte del girato appartenente all’effettivo documentario non è dato saperlo, solo così
interpretarlo).
Se allora la precarietà è parola-chiave della pellicola, lo è in triplice battuta. A livello tematico (diegetico), sia essa
la precarietà del lavoro piuttosto che quella affettiva, a livello meta-filmico, si pensi ai due amici cameraman, che,
lavoratori precari anch’essi, finiscono per inabissarsi, poiché più o meno coinvolti, loro stessi nell’incertezza del
profilmico e, infine a livello della produzione cinematografica: film indipendente, si ricorda.