Dove nasce Cuori, cosa l'ha affascinata dell'originale testo teatrale?
Sono un ammiratore di Alan Ayckbourn e delle sue commedie sin dal 1972. Mi piace come costruisce le trame, come manipola il
tempo e la concezione che ha della regia: dà la massima importanza all’immaginazione. Quel che mi ha colpito quando per la
prima volta ho letto il testo di Cuori è stata la costante determinazione dei personaggi a liberarsi dalla solitudine e
dagli ostacoli che questa comporta. Il senso di solitudine è irreversibile. Non esiste una cura al desiderio di non essere
soli. È l’eterna ricerca della felicità: è facile credere che sia a portata di mano e difficile accettare che si tratti di
una creazione della fantasia.
Sembra che con Cuori abbia percorso una strada diversa rispetto a Smoking e No Smoking.
In entrambi questi film ho dichiarato il mio amore per l’Inghilterra, e spinto l’attenzione ad estremi da fanatismo,
accertandomi che tutto il materiale di scena e i costumi fossero quanto più inglesi possibile; registrando, ad esempio, le
campane delle chiese ed il verso dei gabbiani nella cittadina dello Yorkshire che funge da scenario. Questa volta avevamo a
che fare con una commedia tipicamente londinese, che poteva però essere ambientata a Parigi.
Il suo film è ricco di luoghi che respirano, che agiscono. Che tipo di Parigi ha voluto rappresentare?
Mi accorsi che l’equivalente parigino della nuova ambientazione londinese era il quartiere di Bercy, in rapida espansione,
con la sua luce così particolare, l’Avenue de France e la nuova Bibliothèque Nationale. Inoltre, si tratta di un quartiere
che si inserisce a meraviglia in una storia ambientata ai giorni nostri, in cui si parla di agenti immobiliari e dei loro
clienti. Ho chiesto a Jean-Michel Ribes di scrivere i dialoghi francesi. Mi sembrava che fosse vicino
ad Ayckbourn, avevo l’impressione che avrebbe potuto capire come lavorava il suo cervello. Come Ayckbourn, non solo ha
scritto numerose commedie, ma è anche un regista fenomenale, dinamico, ed è direttore artistico di un teatro. In Musée
haut, musée bas, per fare un esempio, c’è una specie di deriva nella pazzia che possiamo ritrovare anche in Ayckbourn. E
mi piace il suo lato alla Alphonse Allais.
Quali differenze ci sono state durante la scrittura di Cuori, rispetto a Smoking e no Smoking?
A differenza di Smoking e No Smoking, quando fu necessario comprimere otto commedie in due film, questa volta non potevamo
omettere niente. La scrittura è molto scarna. Non appena si perde una riga, se ne percepisce immediatamente la mancanza.
La sceneggiatura è estremamente fedele al testo teatrale, ma è tanto francese quanto Ayckbourn è inglese, specialmente
nelle sfumature della lingua quotidiana. Dovevamo trovare un equilibrio delicato: mantenere le emozioni dei personaggi
senza però riprodurre la mentalità inglese o imitare il ritmo dell’inglese parlato. Quando si hanno una cinquantina di
scene, alcune delle quali sono molto corte, la sfida consiste nel far capire le eterne interazioni tra i sette personaggi,
anche se alcuni di loro non si incontrano mai.
Al centro del suo film, ma anche del suo cinema, ci sono le relazioni. Perché?
Le relazioni tra i personaggi mi fanno pensare alla tela di un ragno drappeggiata tra due cespugli di ginestra spinosa e
ricoperta della rugiada della notte.
Thierry, Charlotte, Gaëlle, Dan, Nicole, Lionel e Arthur sono come insetti che lottano per sfuggire alla trappola. Ogni
volta che uno di loro si muove, lo spostamento si fa sentire anche altrove sulla tela, su qualcuno che tuttavia può non
avere nessun legame con chi si è mosso per primo.