Com’è nata l’idea che ha generato Il mio migliore amico?
L’idea è nata prima delle riprese de
Les Bronzés, il giorno in cui Jérôme Tonnerre mi ha chiamato per dirmi che aveva per le mani una sinossi piuttosto sviluppata scritta da Olivier Dazat per Fidélité. Avevano bisogno di un regista e Jérôme ha pensato immediatamente che avrebbe potuto interessarmi. …E giustamente!. L’inizio mi è piaciuto moltissimo. Nello sviluppo dell’intreccio avevo qualche riserva, ma nonostante questo sono andato ad incontrare i produttori. L’incontro è stato molto positivo, subito dopo abbiamo iniziato a lavorare insieme per andare in una direzione che piacesse ad entrambi.
Cosa l’ha affascinata di preciso nella storia immaginata da Olivier Dazat?
Il concept del soggetto: la storia di un tale a cui viene detto che non ha amici, che protesta violentemente e che, per dimostrare il contrario, si impegna in una specie di scommessa assurda e astratta: mostrare agli altri questo amico che non ha! Ho pensato subito che fosse molto originale lanciare una scommessa su una cosa così poco scommettibile… E poi mi permetteva di parlare dell’amicizia e, soprattutto, della sua assenza. In fondo è come raccontare una storia d’amore. Si tratta solo di cambiare i nomi! Devo ammettere che se questo soggetto ha attirato immediatamente la mia attenzione… è anche perché creava delle risonanze intime con me stesso. Non che sia un film autobiografico… ma se mi si domandasse a bruciapelo che è il mio migliore amico, forse mi troverei in imbarazzo nel rispondere. Diversamente dal protagonista, però, questo non mi impedisce di vivere.
Come ha lavorato alla scrittura con Jérôme Tonnerre?
Avevamo lavorato insieme già per
Confidenze troppo intime… e abbiamo collaborato esattamente allo stesso modo. Il lavoro in coppia è semplice: ci si vede pomeriggi interi, si parla molto, Jérôme prende degli appunti e capisce dove voglio andare a parare. È un vero camaleonte. Alla fine mi ritrovo a mettere in scena un film che ha scritto lui, dove abbiamo discusso a due mani, ma che sento molto vicino a me. Riesce a mantenere il senso che voglio dare alla storia, senza tuttavia dimenticare di dargli il suo tocco personale.
Questo film è una mescolanza di generi, tra commedia e dramma. Questo elemento era presente in fase di scrittura?
No, quando abbiamo iniziato a scrivere pensavamo di trovarci molto più nella commedia. Poi, però, non sono riuscito ad accontentarmi della leggerezza su un tema, quello dell’amicizia, che mi appassionava così tanto. Mi è piaciuto immaginare, al contrario, un film che si trasformava completamente. Come un aereo che, in un meeting aereo, decolla normalmente e si ritrova, dopo una virata, a volare a pancia in su.
Ha scelto Il mio miglior amico dopo un film di tono completamente diverso come Les Bronzés…
Quando sto facendo un film, generalmente so già a cosa lavorerò dopo… senza per questo avere in mente un preciso percorso nella mia carriera. Ad ogni modo, sapevo che
Il mio miglior amico sarebbe stato il film che avrebbe seguito
Les Bronzés. E mi andava bene. Non ho più voglia di fare film troppo seri… la vita lo è già abbastanza. Ero felice di potermi immergere in un film di amicizia intimista dal sapore un po’ provinciale – anche se l’azione si svolge a Parigi. Con delle persone semplici. Senza voler considerare Il mio miglior amico una sorta di “best of” dei miei film precedenti, posso dire che in questo film ci sono molte delle mie ispirazioni.
Quando ha avuto l’idea dei due attori principali?
Ho pensato a Daniel praticamente subito. E’ talmente aperto e amichevole… che mi è sembrata un’idea originale farlo recitare nel ruolo di un uomo che non ha amici! Se avessi scelto un attore per il fatto che la situazione potesse apparire plausibile ai miei occhi non sarebbe stato giusto. Il gioco di sarebbe svelato troppo presto! E’ stato un po’ più difficile scegliere l’attore che potesse interpretare il personaggio di Bruno. Abbiamo avuto diverse idee in merito, ma avevo in mente Dany Boon da tanto tempo. Avevo assistito ai suoi spettacoli e desideravo da tempo lavorare insieme a lui. E poi è stato Daniel a spingermi ulteriormente in questa direzione, perché lo aveva trovato strepitoso ne
La Doublure. Per entrambi era l’uomo giusto!
Per quale motivo, più precisamente, lo volevate nel film?
Dany Boon rappresenta per me una persona semplicemente meravigliosa. Una persona luminosa, aperta. Avevo bisogno di questa semplicità. In lui c’è un approccio semplice – non semplicistico – alle cose, un modo di rapportarsi alle persone molto particolare. Ed era esattamente quello di cui avevo bisogno per il suo personaggio. Si può dire che Dany è entrato nel personaggio di Bruno come si entra in un bagno con la temperatura ideale!
L’intesa è stata immediata tra Daniel Auteuil e Dany Boon?
Il piacere di lavorare insieme è stato evidente da subito. Provavano una grande ammirazione l’uno per l’altro, oltre che amicizia e rispetto. Entrambi, inoltre, sono persone estremamente generose: hanno lavorato sempre insieme, senza mai voler primeggiare l’uno sull’altro.
Scorrendo la sua filmografia, sembra di intravedere una passione per i “buddy movies”…
Mi sono accorto che praticamente in tutti i miei film le mie “coppie” sono composte da attori con cui avevo già lavorato in precedenza e da attori del tutto nuovi. Un po’ come se avessi bisogno di persone di cui conosco le caratteristiche per affrontare il nuovo! E’ stato così per
L’Uomo del treno, nel senso che conoscevo già Rochefort ma non avevo mai lavorato con Hallyday, ne
L’Amore che non muore conoscevo già Daniel Auteuil ma non Juliette Binoche, ed è stato infine così anche per
Confidenze troppo intime, avendo lavorato in precedenza con Sandrine Bonnaire ma non con Fabrice Luchini. Pochi film sfuggono a questa regola. E quelli che sfuggono… sono forse i film meno riusciti!
Uno studente che scriveva una tesi sulla coppia nel cinema mi ha fatto poi notare una cosa ancor più inaudita: in tutti i miei film, o quasi, i personaggi che “fanno coppia” si incontrano per la prima volta durante il film. E’ il caso di Dany Boon e Daniel Auteuil ne
Il mio miglior amico, ma lo stesso accade ne
L’uomo del treno, ne
La ragazza sul ponte, in
Confidenze troppo intime… solo
Tandem si sottrae a questa “regola”. Il mio lavoro da regista consiste quindi a organizzare incontri! Non avrei mai potuto scrivere Le chat con Signoret e Gabin raccontando la storia di due persone che si conoscono da anni! Né potrei raccontare di un rapporto che si consuma e si sfilaccia perché avrei bisogno di nutrirmi di ciò che è accaduto prima dell’inizio del film. Mi piace organizzare l’incontro dei personaggi che presento nei miei film, perché in fondo basta solo osservare il loro comportamento. Serge Frydman un giorno mi ha detto che i veri sceneggiatori di un film… sono i suoi
personaggi. E secondo me ha ragione, se i personaggi sono descritti bene, non resta che seguirli. Come un chimico.
Perché ha scelto Julie Gayet per interpretare la socia del personaggio di Daniel Auteuil?
Anni fa ho girato una pubblicità per France Inter, in cui c’era una ragazza che andava in bicicletta. Cercavamo un’attrice e ho fatto il suo nome durante una riunione, furono tutti d’accordo. Quella è stata la prima volta che ho incontrato Julie, le ho spiegato che l’avrei ripresa in bianco e nero mentre andava in bicicletta, con il viso inquadrato in un angolo dello schermo ….
Per Catherine, che è il personaggio più lucido de
Il mio miglior amico, quello che arriva sempre un metro avanti agli altri, ho pensato subito che sarebbe stata perfetta. E’ molto intelligente, ma ma è un tipo di intelligenza che non è mai intellettuale, composta o sofisticata.
Dopo La Ragazza sul Ponte e L’amore che non muore è la terza volta che lavora con Daniel Auteuil. Sentite ancora la necessità di parlarvi?
Per Daniel uno sguardo o un sorriso sono più importanti di mille parole. Non fa parte di quella schiera di attori che si nutrono di psicologia. E meno male! Perché io non sono uno di quei registi che amano spiegare agli attori da dove vengono i poro personaggi, o dove devono andare. A me interessa fare delle cose, sentirle. Se una sceneggiatura è scritta bene, gli attori ci entrano naturalmente. Daniel è così. Prima delle riprese, ci siamo visti una volta per la prova dei vestiti e ci siamo sentiti al telefono due o tre volte. E’ sempre un po’ stressante iniziare a lavorare con un regista che non si conosce, con un attore che non si conosce che però conosce bene il regista. E’ semplice: per quanto riguarda Daniel, avevo come l’impressione di averlo salutato la sera prima. D’altra parte, è quello che si dice delle persone a cui si vuol bene che però si perde di vista!
E rispetto a questa vostra complicità, si è concentrato maggiormente sui nuovi arrivati – Dany Boon e Julie per primi – per integrarli al vostro universo?
È tutto un equilibrio. Un giorno ho fatto una grande stupidaggine. Ne
La Ragazza sul Ponte giravo per la prima volta con Daniel mentre avevo appena finito di dirigere Vanessa Paradis in
Uno dei Due. Il primo giorno avevo concentrato tutta la mia attenzione su Daniel in quanto nuovo arrivato, lasciando un po’ da parte Vanessa. So che lo ha vissuto molto male: la sera stessa mi ha fatto capire che il fatto di aver lavorato insieme in un film non mi autorizzava a metterla da parte. Mi ha spiegato che aveva bisogno di me tanto quanto la prima volta. Ho capito il mio errore. Mi è servito da lezione. Da allora, durante i primi giorni di riprese ho sempre fatto un po’ più di attenzione ai nuovi senza però mai mettere da parte i “vecchi”. In entrambi i casi, alla base del mio lavoro con gli attori c’è la fiducia che ho in loro. Un attore che recita senza percepire la fiducia nell’occhio del regista che lo guarda… è come un uccello senza ala. Non può volare! Cade non appena esce dal nido.
Dopo aver fatto l’occhiolino al gioco radiofonico Le jeu des 1000 Francs in Tandem, ecco qui un altro gioco – questa volta televisivo – citato ne Il Mio miglior amico: Qui Veut Gagner des Millions con Jean-Pierre Foucault che interpreta se stesso1. Perché questa scelta?
È molto semplice. Mentre costruivamo la sceneggiatura con Jérôme Tonnerre, sapevamo che il personaggio di Bruno a un certo punto doveva partecipare a una trasmissione di gioco. Un bel giorno, abbiamo avuto la rivelazione: uno dei jolly per i concorrenti di
Qui Veut Gagner des Millions è la telefonata ad un amico! A partire da quel momento abbiamo temuto che la produzione di
Qui Veut Gagner des Millions ci dicesse di no! Non volevo immaginare un gioco finto! Bisognava che fosse in presa diretta con la vita, che la gente avesse i suoi punti di riferimento. Ho trovato che fosse sensazionale riprendere in scope Jean-Pierre Foucault nel ruolo di se stesso. Lo conoscevo un po’. Tra noi c’era simpatia. Gli ho detto semplicemente di rispettare il testo scritto, di essere se stesso e di non cercare di fare l’attore. Ed è stato un godimento.
Che punto di vista visivo aveva scelto per Il mio miglior amico?
I film che faccio sono abbastanza diversi l’uno dall’altro, ogni volta cerco di avere, modestamente, un progetto di regia. Quando ho iniziato a lavorare su
Il mio miglior amico, tuttavia, devo ammettere con vergogna che non mi sono posto alcuna domanda. Avevo una tale fiducia nella sceneggiatura e nei
personaggi da non dovermi preoccupare. Ho quindi messo in scena questo film giorno dopo giorno, senza avere una vero progetto iniziale… salvo quello che non mi abbandona mai: gli attori e i loro personaggi. Volevo un film che avesse tutte le apparenze del naturalismo, in cui cose scomode, bizzarre e stridenti ci arrivassero addosso senza che ce ne rendessimo conto. Non volevo che la mia regia fosse sfalsata perché questo sarebbe stato in contraddizione con l’assunto della sceneggiatura. Ovviamente spero che la regia sia migliore di quella di un telefilm!… ma non volevo fare di tutto per rendermi interessante.
Come ha scelto le musiche?
Mi sono rivolto ad un gruppo che si chiama “L’Attirail”, diretto da Xavier Demerliac. L’ho conosciuto qualche anno fa, mentre cercavo delle musiche per
La Ragazza sul Ponte. Mi sono imbattuto nel loro primo album e mi è piaciuto moltissimo. L’ho incontrato, ho visto alcuni concerti. Gli avevo detto che se un giorno ne avessi avuto l’occasione, gli avrei chiesto una musica per il film. Ho trovato che
Il mio miglior amico gli assomigliava come si possono assomigliare due gocce d’acqua. Sapevo che non si sarebbe orientato verso l’emozione facile. La sua musica, a volte al limite della fanfara, ha qualcosa di molto gioioso. Le sue sonorità possono essere molto esuberanti nonostante abbiamo degli accenti molto tristi. Questa mescolanza non convenzionale mi ha affascinato. Alla fine… sono pazzo di gioia perché c’è un’atmosfera musicale molto particolare, che non era in relazione a priori con questo film ma che ci si sposa perfettamente.
Si dice spesso che un film si riscrive in fase di montaggio. È anche il caso di Il mio miglior amico?
In effetti questo film è stato riscritto in fase di montaggio, ma in maniera inaspettata. In tutti i miei film, l’evidenza di tale o tal’altra scena, la potenza evocatrice di questa o quell’immagine mi hanno fatto modificare la loro costruzione. Qui, è stato più strano. La stima della durata della prima versione era di 2h05. Jérôme Tonnerre e io avevamo comunicato ai produttori che avremmo fatto dei tagli prima delle riprese. Ma – lusso incredibile perché costa molto - questi ci hanno chiesto di girare la versione completa e di vedere in fase di montaggio ciò che sarebbe stato meglio fare. Ho accettato le regole del gioco. Effettivamente il mio primo montaggio del film durava 2h05. Da quel momento, con la mia montatrice Joëlle Hache, abbiamo lavorato ai tagli, un po’ come il gioco dei Lego. È stato molto divertente.
Abbiamo letto qua e là che presto smetterà di fare cinema. Questo film le ha fatto venire voglia di continuare?
Questa decisione non nasce dalla delusione per un film piuttosto che per un altro. Non è quindi perché le riprese de
Il mio miglior amico mi hanno entusiasmato che rivedrò la mia scelta. Non ho perso il gusto del cinema. Amo sempre molto fare film. Vorrei solo fermarmi prima di perdere freschezza. In un certo senso mi comporto come Anna Galiena ne
Il Marito della parrucchiera, che, sapendo che l’amore eccezionale che la lega al personaggio di Jean Rochefort non sarà eterno, scelse di gettarsi nella chiusa quando ancora era all’apice della relazione. Dopo
Il mio miglior amico girerò solo altri tre lungometraggi… e so esattamente quali saranno. Non c’è più posto per altro! Annunciandolo pubblicamente, non cerco di farmi pubblicità; cerco semmai di convincere definitivamente me stesso a rispettare la parola. Di farlo veramente, senza per questo però fare come Anna Galiena gettandomi nella chiusa.