FUORISCHERMO

 

ARTAUD E LO SKATEBOARD:
PARANOID PARK DI GUS VAN SANT
Paranoid park “Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale. Del resto cos’è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta […]. C’è, infatti, nell’esercizio della crudeltà una sorta di determinismo superiore cui persino il carnefice-seviziatore è soggetto e deve essere determinato a sopportare. La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata.” (1)
Il giudizio di Artaud ne’ Il teatro e il suo doppio appare inesorabile: il teatro, per recuperare quegli elementi di autenticità che avevano segnato la sua nascita, deve riappropriarsi del corpo inteso come unità linguistica fondamentale e, tramite questo, presentare all’interno di un rito spettacolare i rapporti di forza che regolano il comportamento umano. È Teatro della Crudeltà, atto epifanico in cui emerge la matrice violenta di ogni relazione di potere: il corpo dell’attore e quello dello spettatore sono coinvolti all’interno di un esperimento di fisica delle pulsioni psicotiche, sublimandosi a vicenda. Il corpo/segno si manifesta, così, come condizione necessaria per avvivare immagini estreme la cui virale contagiosità si estende dal teatro al cinema.
La sfida di Artaud, come ha sottolineato Alessandro Cappabianca in L’immagine estrema - Cinema e pratiche della Crudeltà, viene raccolta, infatti, da diversi registi cinematografici – tra cui Stroheim, Buñuel, Dreyer, Tourneur, Pasolini, Cronenberg e Lynch - che elevano, talvolta inconsapevolmente, le teorie artaudiane a metodo sistematico del proprio lavoro, definendo il concetto di immagine estrema secondo due precise tipologie: l’estremo esplicito, ovvero quella pratica della Crudeltà che si fonda su una violenza reale inflitta al corpo dell’attore, configurandosi come “una chance, una risorsa, un modo di trasmettere l’inquietudine dell’incarnazione (sul set) nel cuore della spettralità (nel film)” (2), e l’estremo implicito, caratterizzato da una tensione inquieta che percorre l’immagine filmica indipendentemente dal grado di crudeltà esteriore presentato.
Paranoid park A questa seconda direttrice estetica fa riferimento l’opera di Gus Van Sant.
Protagonista della queer wave di fine anni ’80 insieme a Gregg Araki e Todd Haynes, Van Sant, a partire da Gerry (2002) – primo film dopo la parentesi hollywoodiano/marchettara di Will Hunting e Scoprendo Forrester -, ha delineato un campo di indagine che attribuisce assoluta preminenza al processo di spettralizzazione del corpo attraverso il dispositivo fotografico. Da Kurt Cobain ai due Gerry, dai killer della Columbine agli skater di Paranoid Park, il desiderio di dissoluzione trasfigura la loro presenza in una proiezione allucinata in cui l’ambiente che li circonda muta a sua volta in corpo dilatato. La fascinazione dell’immaginario vansantiano deriva proprio da questo: il corpo umano si declina come entità patica che ricerca inutilmente un equilibrio tra mania e melanconia, mentre l’ethos adatta una nuova entropia al paesaggio (sub)umano, evolvendosi in materia organica dinamica. È il deserto, la casa fatiscente in cui trascorrere gli ultimi giorni, il Parco della Paranoia. Catalizzatori energetici che si nutrono vampirescamente del malessere di chi li abita.
L’ultimo film di Van Sant mostra, dunque, un’evidente vicinanza poetica con le altre pellicole. Anzi, ne diventa, se analizzato secondo la prospettiva dell’immagine estrema, l’epitome.
In principio è il delirio cinestesico: la super 8 oscilla secondo le traiettorie seguite dallo skateboard, svelando panoramiche e travelling apparentemente casuali. I movimenti degli skater rispondono essenzialmente ad una continua e sfuggente variazione sul tema legata al raggiungimento di un apex performativo. Il regista, insomma, crea un piano-sequenza in cui il decentramento cinetico dell’immagine si coniuga a costanti che, in linguaggio psicanalitico, potremmo definire come coazioni a ripetere. Non c’è reale libertà di movimento, ma imbrigliamento, senso di prigionia, paranoia. Si supera l’assioma della poetica di Wenders secondo cui “Motion is emotion”: lo skating diviene il pretesto per l’attivazione di un meccanismo catartico il cui criterio fondante è la negazione di ogni consequenzialità logica; in senso artaudiano, Paranoid park l’esclusione dal processo artistico di ogni possibile retaggio della cultura dominante, ossia del pensiero razionalista. La Crudeltà vansantiana non consiste soltanto nella mise en scene di una macellazione. Il corpo straziato della guardia ferroviaria disgusta o rende lo spettatore grottescamente incredulo nei confronti di ciò che vede, rientrando nel gioco allucinatorio delle sequenze iniziali basato su un triplo inganno: inganno cinematografico, re-invenzione narrativa (il protagonista sta scrivendo una storia su quanto è successo) e proiezione psicologica. A rendere ogni fotogramma estremo, più che l’ammiccamento grand-guignolesco, è proprio questa tensione lisergica, determinata, oltre che dalla qualità delle immagini, dalla loro organizzazione in un montaggio delle attrazioni.
Il regista statunitense si rifà alle teorie di Ejzenstejn – guarda caso considerato precursore inatteso di Artaud -, negando le istanze narratologiche classiche (azioni e reazioni dovute a principi di causa ed effetto) e creando nuclei iper-emotivi in cui lo sfaldamento formale si accompagna all’iterazione di inquadrature e piani. A differenza del maestro del cinema sovietico, tuttavia, Van Sant rinuncia a principi analogici, affrontando in maniera diretta, dal punto di vista estetico, la tematica del disorientamento: in Paranoid park non sono presenti né teorie sociologiche da dimostrare né ideologie da confermare; (r)esistono soltanto corpi in preda ad uno sfrenato individualismo solipsista. La discontinuità del montaggio dà visibilità ad una balbuzie espressiva che riflette l’incapacità critica del protagonista.
Un meccanismo speculare è messo in atto da Truffaut ne’ Il ragazzo selvaggio: anche qui ci troviamo di fronte ad un personaggio che si presenta innanzitutto come corpo, un corpo animale che sta intraprendendo il difficile percorso verso la coscienza di sé. Per evidenziare il passaggio dall’afasia e dall’agnosia, si instaura una fitta trama di rimandi all’evoluzione del linguaggio cinematografico. I primi passi dell’enfant sauvage nell’apprendimento (e nell’ipotetica società civile) vengono resi tramite un continuo riferimento al cinema muto: “il bianco e nero […] corrisponde ai colori che il neonato riesce a distinguere durante il suo primo periodo di vita e che il cinema stesso ha utilizzato per tutta la Paranoid park sua infanzia […] i campi medi, le ampie carrellate e i piani sequenza (che danno l’impressione di oggettività) sono contrappuntati da aperture e chiusure a iride che sottolineano continuamente la presenza culturale della macchina da presa” (3). Non solo: l’iris, simbolo di un’originaria vocazione ad organizzare un discorso cinematografico linguisticamente coerente, diviene anche metafora dei tentativi elementari di elaborazione espressivo/concettuale di Victor.
Nel film di Van Sant si vuole rendere il percorso opposto. Dal rifiuto di una socialità disagevole in cui l’altro, l’adulto, è figura sfuocata (la madre di Alex) o emissario dell’autorità (il detective), scaturisce un ripiegamento su se stessi che è, innanzitutto, embrione a-comunicativo proiettato nel collidere di anti-flashback e anti-flashforward: non esiste una linea temporale netta che stabilisca un prima e un dopo perché nell’immaginario manca il trascendentale spazio-tempo.
La manipolazione degli eventi effettuata dal protagonista si manifesta, inoltre, attraverso l’inserzioni di pellicola non impressionata. Prassi curiosa se si analizza la genesi storica di tutte le forme di salto di montaggio. Per il regista estremo ed eterodosso per antonomasia, Andy Warhol, tale sistema è garanzia della smaterializzazione dell’autore in protesi ottica. Sottolineare l’artificio tramite il salto di montaggio significa, dunque, esaltare la metamorfosi dell’occhio umano in entità cibernetica in grado di rappresentare l’impoetico (il sonno del proprio amante, l’Empire State Building) e replicarlo infinte volte all’interno di un processo meccanico/industriale. I corpi osservati dall’occhio androide - ammiccamento di un artista-star, esaltazione superegoica del proprio status - saranno sottoposti al medesimo rito, mutando in ologrammi asessuati le cui nudità, anziché svelare, esibiscono una sorta di veste pornografica.
Siamo, dunque, al polo opposto di Paranoid park: per Van Sant l’evidenza della mistificazione artistica è funzionale all’emersione di una soggettività assoluta (confutazione della falsa trasparenza, in sintesi forma dell’oggettività) incarnata nel corpo fortemente erotizzato di Alex, efebo da dipinto rinascimentale. Al feticcio warholiano si oppone un’altra figura limite, lo spettro, inteso come rarefazione di un significativo nucleo energetico: il modello della rappresentazione di San Sebastiano ritorna qui in una variazione tematica che prevede l’introiezione schizoide delle ferite inferte sul corpo del martire. Filtro iconologico principale sembra essere il cinema di Derek Jarman. Anche nei film del regista inglese si assiste alla presentazione di corpi, la cui sensualità deriva da una bellezza sofferente. Malattia, sintomo di un primigenio senso di colpa: l’omosessualità. L’ultima considerazione non vale, tuttavia, per la pellicola di Van Sant. Il sottotesto gay, pur presente, è relegato ai margini. Il delitto è ben altro e non coincide nemmeno con l’omicidio. È l’essere giovani in una società decadente. O meglio, essere degli ibridi uomo-bambola dai denti marci.

(1) Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Parigi, Editions Gallimard, 1964, ripubblicato da Einaudi nel 2000.
(2) Alessandro Cappabianca, L’immagine estrema - Cinema e pratiche della Crudeltà, Costa & Nolan, 2005.
(3) Paola Malanga, Tutto il cinema di Truffaut, Baldini & Castoldi, 2001.