Un film, un racconto, un ritratto generazionale, uno sfogo artistico, un vicolo cieco, una spirale allergica, un viaggio
nell’inconscio. Insomma,
Paranoid Park di Gus Van Sant è tutto questo ma certamente è anche un percorso acido e
visionario di redenzione e nulla, che racconta percezioni e sensazioni di un giovane alla deriva o alla ricerca, a seconda
dei punti di vista, attraverso l’uso sfrontato, eccessivo, coerente e romantico della musica. Da Nino Rota a Beethoven, da
Elliot Smith a Ethan Rose il background di musicale di
Paranoid Park sfiora temi assoluti che immergono in una
visione audiovisiva completa, destabilizzante e sconvolgente perché lo sguardo si mescola all’ascolto, la vista all’udito.
Come accadeva in
Elephant e in
Last Days, decisamente più estasianti e perforanti,
Paranoid Park
colloca gli adulti in zone periferiche, lontani dai ragazzi. Un atto d’accusa che si amplifica ulteriormente quando Alex e
i suoi simili ammettono le loro mancanze, o limiti, o disinteressi. Come la guerra, o l’ambiente. Già. Ecco che, quindi,
lo skate sembra diventare l’unica forma di espressiva libertà. Sembra, ma in fondo non lo è affatto. Straordinaria la
sequenza nella doccia (luogo feticcio per Van Sant?)
DAZEROADIECI:: 8
MATTEO MAZZA