FUORISCHERMO

 

STAGIONE TEATRALE RONDINELLA
LUCE NERA
Una recensione impressionista
La Piccionaia – Dedalofurioso
LUCE NERA
Tratto da Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe
Regia di: P. Mattiuzzi, P. Zanco; Drammaturgia di Luca Scarlini;
con Patricia Zanco e Roberto Dani; Installazioni in scena di Gianandrea Gazzola
LUCE NERA Inizia ed è buio. Qualcosa, un velo, si frappone allo sguardo. Sul fondo nero si staglia una parete grigia. Dentro, sospeso alla parete, nella penombra, in posizione fetale, un corpo umano. Uomo o donna?
Ha il cranio rasato, anche in quella posizione si intuisce che è un corpo pesante, una fascia bianca a comprimere i seni.
Luce nera, penso al titolo, un ossimoro.
Cos’è questo corpo, mi chiedo intanto. Un feto dentro un ventre materno. Un pensiero covato in un cervello. Il feto di un pensiero covato in un ventre/cervello. Un aborto che non è né maschio né femmina, un pensiero non generato da uomo e donna.
Nella parete una finestrella, affacciata sul nero. Forse, sui bordi, una leggera fosforescenza. Chissà dove potrebbe esserci una lampada ad illuminarla senza fare luce. Una luce nera. Un sole di tenebra in un cielo grigio. O il collo di un utero, o una bocca, attraverso la quale esce un racconto, la messa in letteratura di un idea nera, un pensiero malato, un racconto lucido e allucinato.
Un racconto ossimorico. Non sono pazzo, dice il protagonista. Il corpo ora è diventato un personaggio, perfino un personaggio ottocentesco, nell’economia del costume. La donna è diventata un uomo. La Zanco è diventato un uomo senza nome. Che dice, non sono pazzo.
Riconosco le parole di Poe, tali e quali. Il linguaggio lucido e preciso di Poe, rispettato alla lettera, attraverso il quale il personaggio ci tira dentro la sua pazzia mentre la nega. Una lucida pazzia. Troppo recitato, mi preoccupo. La Zanco recita troppo. Sta facendo teatro, mentre Poe non ne fa. Il racconto ha cinque pagine, sei. Un’economia pazzesca. Un’ossessione, la preparazione di un delitto, il suo compimento, il suo occultamento, le indagini, il disvelamento. Il delitto e il castigo e il racconto del suo racconto. Tutto in cinque pagine, sei. Troppo poche per fare teatro.
Aspetto. C’è un’ombra nell’ombra, suoni bianchi e neri che escono dal buio, un suonatore invisibile che suona strumenti invisibili, acquattati nell’ombra.
Il palco è vuoto. O pieno, secondo come lo si guarda. Pieno di buio, pieno di pazzia, di lucida pazzia; pieno di un personaggio; della sua ombra nell’ombra, che suona strumenti d’ombra; di una parete grigia con una finestra nera. Incongrua, una boccia di vetro con un pesce rosso, occultata nel buio, che emerge talvolta in un taglio di luce, che dondola nel vuoto, manda bagliori vitrei ed acquei sotto l’acqua nera. LUCE NERA Vediamo tutto sotto una superficie, ma non è acqua. E’ uno schermo, un velo che divide il palco dagli spettatori, l’interno della mente dell’uomo che racconta dagli occhi che lo fissano dalla platea. Siamo degli psicologi dilettanti, degli psichiatri di fine Ottocento, che guardano dentro l’incubo e più che cercare di capire hanno paura di guardare. Degli anatomisti dilettanti che guardano il paziente dissezionare da solo il proprio cuore nero, e che in quel preciso momento scoprono di avere paura del sangue.
Degli illuministi ingenui che hanno paura di cadere in un pozzo senza fondo dove la luce dell’intelletto non illumina.
Il velo ferma lo sguardo come un singhiozzo, una malattia dello sguardo, un filtro onirico. Ospita le ombre, ma le trattiene anche. Impedisce che ricadano sulla platea. Non dà riparo dalla paura, ma forse dal contagio.
L’uomo/donna senza nome racconta di come ha deciso di uccidere il vecchio. Non per odio, non per vendetta, non per cupidigia. Per l’occhio. Per il suo occhio malato, velato, anormale, che lui non può sopportare.
Lo spia la notte, nel buio, aprendo la porta su una stanza buia, scoprendo millimetro per millimetro la sua lanterna. Ucciderebbe il vecchio, se l’occhio fosse trovato aperto. Ma l’occhio è chiuso.
E io penso, ma quest’occhio manca, non c’è sulla scena. Doveva esserci una trovata teatrale, mi rammarico, qualcosa per materializzarlo. Soffro questa mancanza, questa assenza di visibilità. L’uomo racconta. Sulla scena, scomparendo dietro la parete grigia, affacciandosi alla finestra nera. La sua testa rapata si sporge dal piccolo riquadro nero, come un bambino mostro che non riesce a partorirsi attraverso un piccolo utero quadro. La parete perde la sua consistenza rigida, si rivela tessile, si piega e si tende sotto le mani dell’uomo, ne rivela gli arti velati, ne subisce la tensione, gli spasmi, come una pelle.
Solo il linguaggio rimane lucido, ordinato, ossessivamente ben ordinato.
I rumori no. I rumori accompagnano la narrazione. L’ambientano, la commentano con l’inarticolato delle percussioni. La contraddicono, la scherniscono forse. Ma mai la descrivono. C’è una discrasia tra racconto e rumore. Una schizofrenia. Sono i rumori di un incubo che non combacia, che viaggia su binari paralleli, ma non sincroni.
Poi mi viene in mente, il velo. L’occhio velato. Come se avessimo una patina sugli occhi. Una visione malata, debole. Come se fossimo noi le vittime, come se stessimo guardando il nostro assassino che viene a vedere se dormiamo, la notte, per ucciderci.
IL CUORE RIVELATORE E la porta continua ad aprirsi, nel buio, notte dopo notte. Penso ad Alberto Breccia, e alla sua trascrizione a fumetti de Il cuore rivelatore. Dove l’avevo letta? Su AlterLinus? Non ricordo cos’ho fatto ieri ma ricordo Il cuore rivelatore che avrò letto trent’anni fa, le campiture nere delle vignette, nero dopo nero dopo nero. Le lame di luce che si aprono. Nero, bianco nero. Senza colori intermedi, nessuna sfumatura. Il nero fondo unito liscio compatto senza incrinature dell’inchiostro, il bianco nudo della carta che si fa abbagliante, piccoli spicchi candidi abbaglianti dentro le vignette nere. Nero, bianco, nero. Un racconto sul buio. Il buio della notte. Degli incubi. Della mente. Dell’anima.
Uno spettacolo sul buio e sulla luce. Un’oscillazione dove il buio vince, la luce è nera, un leggero alone fosforescente intorno al riquadro nero della finestrella, un barbaglio vitreo che danza, il cranio pelato che risplende sotto la luce.
E poi l’occhio. All’improvviso arriva l’occhio e riesce a prendere di sorpresa, anche me che lo stavo aspettando. La testa dell’uomo diventa un occhio, l’Occhio. La testa lucida e pelata che sporge dalla finestrella acquista una vita propria, accoglie un’immagine di luce proiettata, l’intero cranio diventa un occhio gigantesco, abnorme, che guarda nel buio senza poter vedere, che è guardato da noi senza poterci riguardare. Un cranio bulbo rotondo, liscio, cieco, che sbatte le palpebre come un pesce che boccheggia in un mare colore inchiostro.
Lo fissiamo ipnotizzati dal buio della platea. Come se fossimo noi gli assassini, come se fossimo noi a guardare l’occhio della vittima, aspettando finalmente un maledetto motivo per farla finita. Gran bella idea, penso. Grande.
Non ricordo quando il percussionista è uscito dall’ombra. Ora è una figura viva, ma non ancora umana. E’ un ragno accoccolato sul pavimento del palco, al centro della rete dei suoi suoni mentali, avvinghiato ai suoi strumenti, a raccontarci un incubo diverso, o un’altra versione dello stesso incubo. Il vecchio è sveglio nel letto, ad ascoltare i rumori mostruosi della notte, con l’occhio spalancato a sfidare inconsapevolmente il suo assassino, a cercare una spiegazione che non sia la pazzia dell’universo, la morte che sta per rovesciarlo sul letto e scannarlo tra le lenzuola.
Penso a quanto sia bello il racconto di Poe. Bello e moderno. Un racconto dell’orrore senza tempo, che non invecchia mai, di una perfezione incorruttibile. Scintillante della sua economia, della sua semplicità e della sua originalità e della sua follia, come un diamante nero che risplende nel buio.
Ora l’uomo racconta di come ha ucciso il vecchio, lo ha fatto a pezzi in una tinozza per raccoglierne il sangue, l’ha nascosto sotto le assi del pavimento. Vedete che non è pazzo. Vedete con quanta cura, quanta accortezza, quanta lucidità ha agito.
LUCE NERA Vengono i poliziotti ma lui non li teme. Li fa accomodare proprio nella stanza sotto le cui assi è nascosto il vecchio. Li tratta con sufficienza, li sfida con la sua sicurezza. Peccato che la parete grigia intanto è ruotata su se stessa e la stanza assomiglia ad un patibolo in attesa, le assi di legno del pavimento, la botola che potrebbe aprirsi sotto i suoi piedi, sopra il cadavere fatto a pezzi, la finestrella che aleggia come un cappio sospeso sopra la testa dell’assassino.
Anche quando lui comincia a sentire il battito del cuore del vecchio sotto il pavimento, quando cerca di coprirlo con la sua voce, quando lo sente crescere nelle sue orecchie e dentro il suo cervello, quando pensa che anche i poliziotti ormai debbano sentirlo, quando lo sente diventare un rimbombo assordante, quando pensa che i poliziotti lo stiano prendendo in giro fingendo di non udirlo, quando diventa un rumore assordante che lo spinge ad urlare ai poliziotti di smetterla di fingere, di scoperchiare le assi, di aprire il pavimento dove ancora batte il cuore orrendo del vecchio assassinato, neppure allora la musica sceglie di assecondare il suggerimento naturalistico, di assecondare il testo, di adattarsi a mimare un battito cardiaco. Mantiene le sue dissonanze d’incubo, il suo ritmo asincrono e tormentoso.
Ma il climax manca proprio nel finale, io avrei messo un crescendo assordante, avrei cercato di fare rizzare i capelli in testa agli spettatori.
Il racconto sembra spegnersi, invece, nella cenere della sconfitta anziché nelle fiamme dell’inferno. La luce nera si spegne. Si accendono le luci in sala, bianche. Applaudiamo. Ci alziamo in piedi.
Siamo liberi. Siamo salvi, vivi, liberi, guariti.
Per ora.

Lo spettacolo LUCE NERA è stato rappresentato nell'ambito della STAGIONE TEATRALE del CINEMA TEATRO RONDINELLA di Sesto San Giovanni