FUORISCHERMO

 

L’INNOCENZA DEL PECCATO
L’illusione della ragazza tagliata in due
L'innocenza del peccato Pronti? Inizia il viaggio tra le pieghe del recente immaginario cinematografico di uno degli (in)discussi autori del cinema francese: Claude Chabrol. Cineasta della felice culla della Nouvelle Vague, regista dalla complessa e copiosa filmografia, amante e maestro di quel giallo in cui passionalità, vizio e trasgressione diventano i protagonisti di un gioco di potere criminoso, il Claude Chabrol del 2008, mantiene la sua grande autorialità.
La storia è semplice, ma il tocco raffinato e tagliente, lo sguardo sensibile e impietoso, lo stile elegante e una messa in scena composta e pulita promuovono uno stato continuo di tensione, di stridore tra ciò che si vede e ciò che sta sotto. Mai però Chabrol alza il velo dell’apparenza e adotta l’irriverenza come atteggiamento demistificatorio. Non succede di ritrovarsi nel comico o nel grossolano sghignazzo, piuttosto di accorgersi che il regista stuzzica la sensibilità dello spettatore con un grottesco che, fine fine, sta sotto le immagini e tra i dialoghi. L’immagine brilla, ma è piena di ombre disseminate qua e là. La durezza e l’implacabilità del meccanismo narrativo che si snoda sotto questa patina lucente, specchio del benessere dell’alta borghesia, sembra strizzare l’occhio ad un intento beffardo mentre è un pungente sarcasmo a graffiarne il ritratto.
Dunque uno Chabrol che non tradisce l’abile mano e l’arguto saper guardare per immagini laddove si tratta di smuovere il debole spessore della forma e portare il fascio di luce sulla sostanza e verità represse. E la luce de La fille coupée en deux sa suggerire bene quanta ombra si annidi dentro ogni condizione esistenziale.
Letteralmente tradotto, La ragazza tagliata in due avrebbe certo reso il senso originale senza tradire la forza evocatrice racchiusa, eppure, L’innocenza del peccato… non si può dire che stoni ma si perde quel potere connotativo che nasce nel titolo per dispiegarsi lungo l’intero testo filmico fino a trovare sigillo nel reale gioco illusionistico. Con quest’ultimo il simbolismo diventa realismo (d’accordo, illusionismo, ma pur sempre costruito sullo schermo attraverso il senso denotativo, concreto, delle immagini e non attraverso le relazioni che queste intessono a livello della L'innocenza del peccato connotazione, come del resto avviene prima dell’ultima scena). Innocenza e peccato, allora. È fuori dubbio che entrambe rappresentino e introducano efficacemente all’atmosfera rovinosa e morbosa, eppure, nella loro generalità e astrattezza stemprano la vitalità intrinseca ne La fille coupée en deux, da una parte, mentre, dall’altra, tradiscono l’assoluta mancanza di termini così forti ed espliciti, moralmente ed eticamente connotati, come appunto innocenza e peccato. E sarebbe tanto erroneo domandarsi se questa non sia forse una ‘mancanza’ che Chabrol ricerca in tutto il film? Il titolo originale si pone aldilà di ogni giudizio di ‘bene’ e ‘male’, quello italiano, al contrario, presenta due dei massimi termini con cui si è soliti descrivere la distinzione manichea. Il regista stesso ci racconta di quanto la scelta del titolo riposi nel desiderio che «…l’idea della rottura fosse sempre presente. Molto spesso, delle scene terminano prima della loro naturale conclusione o, al contrario, si prolungano più di quanto si potrebbe pensare. Tuttavia non c’è nessuna intenzione di enfatizzare l’immaginazione dello spettatore».
Ispirato ad un fatto realmente accaduto nella New York del 1906 a cui già il grande schermo aveva guardato (prima con Milos Forman e il suo film tratto dal romanzo Ragtime, poi, nel 1955, con Richard Fleischer e il suo The Girl in the Red Velvet Swing), il film di Chabrol coglie nell’aneddoto la natura (dis)umana, le sue bizze e i suoi impulsi, il suo egoismo e la sua spregiudicatezza, la sua diabolica duplicità in primis. L’America di primo Novecento non esiste, qui si tratta della Francia di oggi e della sua borghesia. La forza della storia risiede tutta nella dinamica cinematografica. Luci, suoni, posizioni della mdp, montaggio, ellissi, dialoghi, simbolismo e trucco. Una sceneggiatura che non inceppa e un’interpretazione, nel complesso, più che buona, sanno reggere questo impasto di perversione, depravazione, amoralità, peccaminosità, impudicizia, delittuosità senza mai togliere al film il dono della castità. Mai lo sguardo del regista, così penetrante e insistente spoglia i personaggi oltre l’allusione. Il fatto peccaminoso non ha spazio tra le immagini, se non eccezionalmente e sempre con una grazia stilistica che, se elude la brutalità e dunque la facile condannabilità del vizio, L'innocenza del peccato è anche vero che sa graffiare ancor più. Quando il vizio diventa ‘normale’, o almeno è trattato come tale, non è allora che diventa ‘pericoloso’? La bella Gabrielle che si pavoneggia al servizio di Charles, forse una delle scene più indignanti di tutto il visibile, non sembra sbilanciare di tanto le altrettanto (o forse più) perturbanti scene mai… girate (si potrebbe facilmente ipotizzare) eppure così reali, per la finzione, da divenire il movente del delitto finale. Se la perversità, sessuale qui s’intende, rimane estranea al profilmico, il vizio pervade il film come un costante dissimulato istinto represso. Che si tratti della ventenne Gabrielle, del giovane spasimante o dell’amante cinquantenne o, ancora, della madre del primo o degli amici del secondo, la forza centripeta della lotta tra volere e dovere essere spezza e se spezza Gabrielle è altrettanto vero che tutt’attorno a lei gira un mondo già ‘spezzato’ mentre presto qualcuno si spezzerà (forse?) ancor più. Gabrielle, l’affascinante presentatrice meteo alla tv e poi conduttrice del programma La ciliegina sulla torta (fuorviante cogliere la connotazione, il senso del superfluo? Non credo il titolo sia ingenuo verso questa) entra in scena che è una giovane donna per nulla sprovveduta ma lontana dalla lascivia cui cede. L’incontro con lo scrittore misantropo e maniaco, da una parte e con il giovane scapestrato e schizofrenico, dall’altra è il motivo deflagratore di tensioni, fantasie, bisogni repressi, che nel loro essere compulsivi ed ossessivi richiamano il vizio e dunque il peccato su di sé, ma che nel loro esprimere il puro istinto, bestiale e brutale se si vuole, sono ‘scandalosamente’ profondamente sinceri. È questo allora l’aspetto più conturbante, non tanto il loro esistere come degenerazioni di natura sana, ma come specchi veri di un naturale sentire. Si può suggerire questo sull’impressione che i personaggi non sono degeneri e pericolosi perché nati insani. Le ferite in loro che continuano a sanguinare accecano il senso etico-morale. Ma di queste ferite allo spettatore non è dato sapere nulla, se non per quel poco che il racconto concede. Dov’è il padre di Gabrielle? Non esiste e mai viene nominato. Dov’è quello di Paul? Morto. Dove sono le madri? Ci sono, sembrano avere un rapporto, oserei dire idillico, con i figli eppure… tradiscono se stesse nel momento in cui più L'innocenza del peccato vorrebbero proteggere i figli. Idillico davvero sarebbe il pranzo tra Gabrielle e la madre, peccato che il grottesco si insinui e convinca laddove la lucidità e la pacatezza vorrebbero rappresentare la normalità del dialogo e del suo contenuto. È questo non è grottesco? E qui non si annida già un disequilibrio? Dalla parte della famiglia Gaudens, la natura della madre esce prepotente alla fine. Pur di salvare il figlio rompe l’elegante aplomb in nome di un dolore che, forse lo stesso del figlio, ancora vive e che è disposta a strumentalizzare per comprare la verità di Gabrielle. Ma come la perversione, anche la verità rimane fuori scena. Come condannare allora questi personaggi? Come guardare al film secondo il criterio dell’innocenza e del peccato se vizi e verità, insieme alla storie personali pregresse rimangono fuori scena?
Ma attenzione, è il fuori scena che dà forza al film. In questo senso l’illusionismo finale è il sigillo trionfale de La fille coupée en deux… che dallo studio televisivo passa al palcoscenico ma sempre di illusioni si tratta. Quelle del mondo teatrale forse però sono più vere. È un caso allora che il rosso su cui è virata la fotografia all’inizio del film, sulle note della Turandot, torni alla fine come sfondo al primo piano di Gabrielle sorridente? Attenzione qui, perché Chabrol dice “In un universo fatto di illusioni ed effetti, la salvezza può apparire solo come un ennesimo trucco”. Frase discutibile ma per La fille coupée en deux sembra funzioni davvero così.