La giusta distanza, il titolo d’accordo, ma un titolo speciale, uno di quelli che portano già racchiuso il cuore (o
l’anima, a seconda del sentire di ciascuno) della storia. Non è difficile, forse, intuire quanto ne
La giusta distanza riposi quel senso etico la cui presa di coscienza è la spina dorsale del film e il cui eco è
l’onda costante (certo, rilevabile a frequenze differenti) che il regista disegna (con immagini, ovvio). Una spina dorsale
e un’eco che corrono lungo le molteplici direzioni suggerite ai nostri sguardi di spettatori, mai con una durezza e una
risonanza stucchevoli. Tutt’altro. Del titolo, della ‘giusta distanza’, è pervaso tutto il film, ma è una ‘posizione’ di
cui il regista non vuole assolutamente dare le coordinate, semmai proporre (alcuni di) quei rapporti in cui la domanda e la
ricerca di questa ‘giustezza’ più vengono sentite (dal regista e dal pubblico d’oggi, s’immagina). Mi si potrà
obbiettare…cosa, in questo mondo, non può essere messo sotto ‘giusta distanza’? Dove guardare o che sentimento-giudizio
sospendere per esimersi dal sentire la ‘distanza’?... va bene, condizione fisica, se non mentale, inalienabile, dunque
troppo ‘facile’ discutere di distanza, o meglio troppo generale… poco originale ed eccessivamente complesso come tema.
Però, tanto banale quanto intricato il tema, così delicato ed abile Mazzacurati che riesce a non fare dell’opera compiuta
il tradimento del suo stesso titolo. Quindi, la ‘giusta distanza’: titolo, tema persuasore e persuasivo, motivo infuso e
variatamente declinato lungo tutta la pellicola, dimensione etica-morale e socio-culturale in cui si muovono i personaggi…
atteggiamento del regista verso le loro storie e, per quanto si voglia, spunto al nostro riflettere. E se la delicatezza e
l’eclettismo (forse, a tratti, un po’ artificioso, ma mai grottesco o stridente nell’insieme) dello stile registico
intendono sollecitare quest’ultimo… non si può negare che
La giusta distanza non solleciti… con grazia, senza
provocare, senza proporsi didatticamente esemplare, anzi…“Anzi” perché?
Prima di sviscerare le contraddizioni di questo “anzi”, una premessa per non confondere troppo i piani prospettici. Ammesso
che di distanze è impossibile averne stima e sulle giuste distanze è improbabile trovare in questa sede (e comunque poi
dove?...nella coscienza, forse, più che nelle sue verbalizzazioni?) discorsi corretti, coerenti ed esaustivi, vale però la
pena almeno distinguere tra distanze diegetiche (quelle proprie del racconto filmico) e le distanze del regista sul
profilmico. Aggiunte a queste, infine, la distanza dello spettatore dal film, ma qui… rimane a ciascuno la scelta della
propria posizione. Distinzione fatta, una duplice linea discorsiva viene suggerita. E, qui detto schematicamente, rispetto
alle prime, alle distanze cosiddette diegetiche, lo sguardo critico è diretto al contenuto filmico, rispetto alle seconde
a come questo contenuto viene rappresentato.
Come parlare di ‘distanze’ guardando alla storia senza svuotare il film, con la banalità di concetti e con l’abbondanza di
riferimenti (…si tratta di un noir, è bene non rovinare la suspense) e dove individuare la cifra stilistica di Mazzacurati
senza forzare la lettura e, per induzione, ricondurre la varietà di sfumature dell’intreccio narrativo alla ‘sola’ regola
de
La giusta distanza? …forse le parole dello stesso Mazzacurati aiutano “...il senso (sottinteso del film) è quello
di trasgredire.” E arriviamo così subito a dire che ‘la giusta distanza’ non esiste. O meglio, se esiste, a volte almeno,
è ‘più giusto’ trasgredirla. E se la regola della giusta distanza trova nella deontologia giornalistica esplicita
espressione e perfetta teoria, nell’esperienza quotidiana (filmica, ma non solo) la costante messa in crisi e il suo, più o
meno consapevole, instabile sentimento.
Giovanni (Giovanni Capovilla) è un diciottenne aspirante giornalista che per venti euro a pezzo, restando nell’anonimato e
lavorando nell’ombra, inizia a scrivere e a pubblicare grazie Bencivenga (Fabrizio Bentivoglio), giornalista ormai
assuefatto alla ‘giusta distanza’… a quella regola per cui è bene (per un giornalista) stare non troppo lontano
(dall’oggetto in causa) perché sennò verrebbe a mancare il
pathos, ma nemmeno troppo vicini “…perché se il
giornalista si perde nell’emozione è fritto.”
Regola d’oro per Bencivenga (e forse anche comprensibile, se non condivisibile), ma qual è il suo rischio? L’indifferenza,
forse? La superficialità o la disaffezione, l’attenzione al gusto della notizia più che al suo contenuto? Bencivenga (e qui
non si può non lasciarsi ‘insospettire’ dal nome scelto per il personaggio di Bentivoglio) ha a cuore la sua tranquillità
di giornalista serio senza troppe ‘noie’ a cui dover rimediare. Così a Giovanni, che, ancora affezionato alla maestra
ammattita, si lascia perdere un articolo ‘importante’, insegna presto la regola. Nella costrizione e nell’ingiustizia di
tale regola Giovanni poi troverà la forza della trasgressione, il valore della verità… la ‘sua’ giusta distanza di
giornalista. La maestra non può far notizia, Mara (Valentina Lodovini) invece ha diritto alla sua verità sui giornali.
Queste le due piccole grandi trasgressioni che tradiscono l’emotività di Giovanni e portano il giovane giornalista a
tradire l’insegnamento. Ma trasgressione e tradimento portano il ragazzo alla sua “nuova vita”, dalle foci del Po a Milano.
Ora, credo non valga la pena indugiare sulla trasgressione di Giovanni, pena lo svelamento di tutto il finale della storia,
e nemmeno lasciarsi trasportare da digressioni sulla deontologia giornalistica visto che lo stesso Mazzacurati non sembra
intenda essere portavoce di alcuna ‘politica’ e fare del suo film una bandiera di denuncia. È un discorso complesso,
Mazzacurati lo dice -lo ha detto nell’incontro con il pubblico a Padova- e teme abbozzarne solo qualche frase. Del resto
nemmeno il film si fa carico esplicitamente della complessità, ma non per questo non viene avvertita. Se ci si aspetta una
presa di posizione del regista, un racconto in cui lo scontro, le contraddizioni, la rivendicazione dei propri diritti, la
difesa della propria natura e cultura, la lotta contro l’estraneo (persona o altro che sia) e le resistenze al diverso da
sè prendono i toni decisi del conflitto tra opposti dove quella giustezza del titolo non può non sbilanciarsi e prendere
chiara posizione… allora Mazzacurati disattende le speranze. Ma per questo, per questa sua delicatezza, il film riesce,
respira e rimane ben strutturato. Nulla di stentoreo o di banale, nessuna (forse qualche?) caduta nella facile morale
(…anche il finale, a rischio, tutto sommato ‘si salva’ nonostante Mazzacurati, tra il giallo di provincia e il lieto fine,
sembra perdere quel coraggio e originalità d’inizio film), certo qualche ‘inciampo’ in una sceneggiatura che talvolta non
sa quanto rimanere fedele al Nord-Est e scivola sulle ‘macchiette’ alla veneta e talaltra posa fin troppo delicatamente la
mdp sul tema del giornalismo, debitore di maggiore attenzione se non altro per la figura di Bentivoglio il cui ritratto al
caffè Pedrocchi di Padova perfettamente delinea il personaggio. Certo, anche Giovanni rimane sottotono come giovane
giornalista intraprendente (nonostante la ribellione finale) tanto che nell’insieme la ‘giusta distanza giornalistica’
rimane solo una delle distanze rintracciabili nel film. Ma poco importa se Giovanni, il personaggio più giovane (per cui
anche la violazione della privacy telematica non è che un’innocua infrazione alla regola) che alla fine si carica tutta la
tragedia, o meglio la ricerca della sua verità, sulle spalle, guadagna la disapprovazione dei concittadini e un posto di
lavoro ‘lontano’ perché comunque, è colui il quale sul sentimento di ‘giustizia’ ha costruito il suo ‘trionfo’.
Se maestro e allievo giornalisti non conducono il tema del ‘giusto’ giornalismo al centro del film (per qualsiasi esigenza
a monte), è debole e circoscritto a poche battute, ma forse degno di nota, il tema della relazione padre-figlio. Tutt’altra
relazione, altra distanza, davvero poco trattato (Giovanni ha un padre, ma l’esilità del ruolo non suggerisce riflessioni
importanti), tuttavia…come non citarlo se è Bentivoglio ad ammiccarvi in seno all’ironia (…altra distanza?) di cui si arma
per parlare di una moglie che gli dà del “cialtrone”. Tra i personaggi degli attori noti, se Bencivenga si vorrebbe sentire
di più, Amos (Giuseppe Battiston) non sempre qui convince come altrove. Grande caratterista del nostro cinema, Battiston è
ne
La giusta distanza un rozzo tabaccaio arricchino, scipito e volgare milionario, ha una moglie rumena scelta sul
catalogo in Internet, pieno di boria sfoggia auto, barche e case, propone viaggi ‘impossibili’…non sa stare alla giusta
distanza. Battiston… esemplare del veneto arricchito (buono allora il simbolismo, scadente, a tratti fastidiosa l’imitazione
del parlato)? O, semplicemente, grezzo marpione dovunque trovabile (fin troppo accentuata allora la caricatura per sapere
di realismo)?
Il personaggio di Amos è dunque funzionale per vedere
La giusta distanza all’interno della questione ‘realismo’.
Posto che la vicenda si svolge nei luoghi cari a Mazzacurati, nella pianura alle foci del Po, il paesino di provincia sullo
schermo è l’immaginario Concadalbero. Già da qui la storia non pretende ‘il vero’ come principio assoluto cui rimanere
strettamente fedele. La foce del Po è solo un punto di partenza, uno scenario amato e conosciuto dal regista, ma la storia
poi va oltre (e così ‘deve’: non è una storia sul e del Nord-Est… semmai parte da una provincia, dalle sue peculiarità, ma
arriva a parlare a ben più ampio raggio). Forse tanta ‘diversità’ in una spazio così limitato può suonare artefatta,
caricaturale, non realistica, ma il film non sembra precipitare nel grottesco. Mazzacurati, se non si sbilancia e guarda
con delicatezza e simpatia la ‘sua’ terra e i ‘suoi’ personaggi e se proprio per questo può ‘non piacere’, sa rendere
simbolico il gioco di scontri (… e in realtà, cos’altro è la ‘giusta distanza’ se non trovarsi ognuno, ogni volta, un
ruolo in questo gioco?), riesce a proporre un intrecciarsi di sguardi e…distanze senza provocare smarrimento, almeno non
grave. Dunque, ecco in causa la distanza del regista dal profilmico. Ancora una ‘giusta distanza’? Si potrebbe dire giusta
nella misura in cui permette alla pellicola di non rimanere etichettata come ‘film sul Nord-Est’ (e vorrei insistere:
perché voler vederci a tutti i costi la provincia come oggetto da film-documentario piuttosto che come ‘semplice’ sfondo e
punto di partenza?) e, dall’altra parte, di non precipitare nel didascalico-moraleggiante (accentuando i toni dei contrasti
e sbilanciando così l’attenzione del regista dalle sfumature alle tinte decise) o nell’enfatico (togliendo al film quella
componente di realismo che, per quanto minato dalla stravaganza dei personaggi e dalla ‘debole’ convinzione con cui la
regola viene infranta, non sfuma del tutto).
La regola della giusta distanza, dunque, a più riprese, infinite se si vuole visto che si moltiplicano esponenzialmente se
alla distanza tra i personaggi si aggiunge quella di Giovanni e poi ancora quella del regista, sottintende e, nello stesso
tempo, sottende il concetto di imparare a sentire l’altro da sé.
E l’altro da sé è soprattutto Mara (Valentina Lodovini). Maestra supplente delle Signora Prosperi (ormai maestra dissennata,
a quanto si dice) nel paesino di Concadalbero, le viene affidata una classe dai sette ai dieci anni (tanto sono pochi lì
i bambini). Mara arriva e porta con sé un mondo sconosciuto. Trentenne (come poi si verrà a sapere dal dialogo con Amos che
raffinatamente ribatte “…per avere trent’anni sei ancora fresca.”) bella e burrosa, dolce ed elegante nel porsi, ma del
tutto ‘fuoriposto’ tra quelle distese di pianura. Mara si fa simbolo del pericolo nascosto nell’esporsi ‘maldestramente’.
Abita sola in una grande casa, mai si lamenta del posto in cui l’hanno mandata, anzi, riscopre la vita ‘sana’, qualche
volta ha paura ma… è normale, “…coi bambini sto bene perché non penso a niente” dice, ha coraggio e iniziativa, il buon
gusto di rifiutare le lusinghe di Amos e di salutare il ‘matto’ del paese… ha la ‘sfortuna’ di essere avvicinata troppo,
ovvero, di cercare la ‘sua’ giusta distanza e trovarsi poi nel posto sbagliato. È un corpo che attrae, una donna troppo
bella e ‘diversa’ per non creare attorno a sé quel mistero che gli uomini del paese tentano di svelare (appostandosi di
notte dietro gli alberi del cortile). Mara e la ‘giusta distanza’ sono il nucleo del film attorno al quale gravitano
Giovanni e la ‘sua’ distanza di giornalista apprendista (in primis, se si vuole vedere in Giovanni il ‘vero’ protagonista)
e tutti gli altri personaggi, ciascuno simbolo di un diverso sentire questa ‘giusta distanza’. Dal più irriverente e
avventato, Amos ( “piovra” è il soprannome), al più schivo, il ‘matto’ (che nemmeno sopporta lo sguardo di Mara), dal più
imprevedibile, Guido (Stefano Scandaletti) l’autista… al più ‘attento’, Hassan (Ahmed Hafiene). E con quest’ultimo Mara
porta in primo piano un altro tema, un’ulteriore dimensione su cui le nostre distanze si misurano, una rinnovata messa in
discussione di ciò che s’intende per ‘giusta distanza’ se a confrontasi sono due culture diverse. Il tema ‘alto’
dell’integrazione, del sentire l’immigrato al di fuori delle nostre paure e pregiudizi, l’avvicinarsi allo ‘straniero’
nonostante le sue manifestazioni bizzarre (come fare la sentinella notturna, non accorgersi di fare un regalo inopportuno,
proporre all’improvviso il matrimonio, osservare l’astemia…) vive nella relazione tra il tunisino Hassan e la toscana Mara
una felice declinazione della ricerca di quella che potrebbe essere una ‘giusta distanza’. L’eco del titolo si fa forte,
allora, in questo secondo (dopo - non in senso d’importanza, ma solo perché ne sto parlando di seguito- quello del
giornalismo) tema, a più riprese proposto (basti pensare alla sopra citata moglie rumena di Amos e, ancor più, alla distanza
tra la loro relazione e quella tra Mara e Hassan, o ancora a tutta la famiglia immigrata di Hassan e alle difficoltà del
cognato marocchino ancora vittima d’insulti e offese al suo ristorante). Se Mara impara ad avvicinarsi, Hassan accetta di
‘tradire’ le sue radici, “…non mi piace questa nostalgia degli stranieri”, dice a Mara quando questa chiede al cognato di
cucinare il couscous, le confessa di essere scappato dal matrimonio che la madre aveva organizzato in Tunisia… trova la
libertà di brindare se in coro gli urlano “Dai Hassan non fare il fondamentalista!” e poi di lasciarsi nella danze dai
ritmi ‘arabeggianti’ (e qui vale un brevissimo inciso per sottolineare le musiche oltremodo coinvolgenti)… trova la
sincerità (e il coraggio) di dire a Mara “Ho sentito la vita dopo tanto tempo”.
Succede poi che giornalismo e immigrazione, i due grandi campi d’interesse in cui
La giusta distanza di Mazzacurati
trova alimento e articolazione, s’intrecciano fino a diventare l’uno l’oggetto dell’attenzione dell’altro. È Franco
(Natalino Balasso) a suggerire lo scoop a Giovanni, quella notizia sul laboratorio clandestino di orientali con cui il
giovane apprendista avrà il primo importante successo. Franco e il ‘suo’ «Focus» poi… ancora un curioso e simpatico
intreccio col giornalismo e le sue ingannevoli ‘giuste distanze’ (l’ingenuità di Giovanni nel pubblicare una falsa notizia,
fidandosi delle letture su «Focus» e dei racconti di Franco, lo porteranno ad essere da questo smascherato). E se il
«Focus» di Franco e gli articoli di Giovanni portano l’eco del titolo del film nella deontologia giornalistica, è Mara a
farlo in questa echeggiare con altro sentire e ‘colorare’ il loro ‘giornalismo’ nozionistico. “…Hanno un modo di comunicare
romantico…perché si toccano”, dice Mara dopo un racconto di Franco sulle formiche.
Gli esempi di questo tipo potrebbero essere davvero numerosi, ma già sento che, elencati questi pochi, estrapolati dal loro
tessuto, si tolgono al film ‘pezzetti’ che rischiano di suonare a vuoto, tanto sono intrinseci alla trama e all’atmosfera
del film e in balia dello sguardo e del sentire di ciascuno. Davvero il film è pervaso di spunti su cui posare lo sguardo
indagatore e ai quali accostarsi con accorto sentire. Smontare troppo l’intreccio e individuare i punti rischia di essere
un’operazione tanto fuorviante (per lo spettatore) quanto sminuente (per l’integrità dell’opera). Se l’impressione che il
film lascia è positiva, credo, non possa spiegarsi se non nel sapiente congegno di ‘giuste distanze’, nell’accortezza di
una regia mai invadente, abile a giocare con le esigenze della storia, consapevole che se falliva i punti di vista e i
ritmi… già si autodistruggeva. Nella globalità risiede la forza del film, prese singolarmente le diverse componenti, forse,
l’impressione si sgretola e la profondità della storia vacilla. E allora, visto che si temeva di cadere nel banale e non
occorre smontare un film (non qui almeno) meglio non indugiare ancora e piuttosto… ciascuno si metta alla ‘giusta distanza’
per vedere il film e scoprire che non è il banale il suo difetto e non è la debolezza l’impressione globale che lascia.
Si temeva poi di rovinare il
giallo, ma… sono ancora salvi tutti i nodi indispensabili.
Potrebbe essere il realismo tradito il ‘difetto’ della pellicola?... forse, ma basta mettersi ad un’altra distanza e la
storia rimane una bella fermata tra un atterraggio e una partenza in un luogo-non luogo, reale e immaginario nello stesso
tempo.
Il film finisce specularmente a com’è cominciato: una panoramica aerea sulle distese pianeggianti alle foci del Po. Prima
l’arrivo, in mezzo la storia, infine la partenza. Un cerchio per la scelta delle inquadrature, una perfetta soluzione per
segnalare l’inizio e la fine di un racconto… la giusta distanza per approcciarsi al qualsiasi nuovo?