È scientificamente provato: l’infrazione di un tabù corrisponde sempre alla creazione di un mito. Questa transustanziazione
midica (ossia da merda a oro), effettuata, all’interno del mondo cinematografico, da una nuova critica meno sensibile ai
richiami dei mammuth sostenitori ad oltranza del neorealismo e più attenta ad una valutazione strutturale del film, è
valida soprattutto per Mario Bava, considerato da molti il padre del moderno cinema di genere italiano.
Punto di riferimento per registi del calibro di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, ammirata da maestri come Scorsese e
Coppola, l’opera di Bava è stata, negli ultimi quindici anni, il punto di fuga di una nuova prospettiva sull’altro cinema
italiano, antagonista per tematiche, scelte stilistiche e metodologie di produzione; cardine di un differente palinsesto
interpretativo frutto di un lodevole lavoro di riscoperta e analisi che, tuttavia, troppo spesso ha portato ad un’euforia
acritica nei confronti del ri-emerso.
Al contrario di molti interventi sul b-movie italiano, in cui lo sguardo sul fenomeno è viziato da improbabili tentativi di
nobilitazione sociologica o ipertecnicistica,
Kill baby kill!, monografia su Mario Bava curata da Gabriele Acerbo e
Roberto Pisoni, si pone su un piano sostanzialmente diverso perché, innanzitutto, peculiare è stata la sua genesi. Il
libro, infatti, nasce come estensione di un documentario girato dagli stessi autori sulla figura del grande illusionista,
Mario Bava – Operazione paura, prodotto per Sky Italia nel 2004. Tentati di ampliare il lavoro, limitato dagli
angusti spazi televisivi, ma scoraggiati da incognite finanziarie e distributive, Acerbo e Pisoni hanno deciso di
intraprendere il percorso editoriale, in cui la maggiore libertà si ponesse come condizione imprescindibile per un vero e
proprio atto d’amore. Un atto d’amore motivato dall’assenza nel panorama italiano (se si eccettua il Castoro di Alberto
Pezzotta e il contributo di Giona A. Nazzaro) di un lavoro esaustivo sul cinema di Bava, di un indagine completa in cui la
volontà di elaborazione non cedesse mai alla banalità della celebrazione.
Il libro, quasi a voler riprodurre in scala il mito di “Bava, cineoperatore totale”, si alimenta di contributi diversi e,
tuttavia, in grado di integrarsi perfettamente l’uno con l’altro. Si va dalle interviste al figlio Lamberto e al nipote
Roy, eredi diretti della bottega Bava, fondata dal padre di Mario, Eugenio, alle discettazioni colte di Max Croci sul
glamour baviano, elemento centrale del pop all’italiana, e di Alessandro Borri sulle ontografie del fantastico; dalle
testimonianze degli attori (fra cui John Philip Law, Christopher Lee, Daria Nicolodi ed Elke Sommer) e dei produttori
(Dino de Laurentiis e Alfredo Leone) agli omaggi di diversi registi contemporanei a Bava, come Roger Corman, Luciano Emmer,
Riccardo Freda, Mario Monicelli, oppure di ammiratori delle generazioni successive, Tim Burton, Roman Coppola, Joe Dante
(autore della prefazione), John Landis, Sam Raimi e, ovviamente, Quentin Tarantino (capitolo a parte meriterebbero, invece,
l’intervista piccata di Umberto Lenzi e l’imbarazzo di Dario Argento nel riconoscere i propri debiti nei confronti del
Maestro); dai ricordi di amici e collaboratori (Alberto Bevilacqua e Carlo Rambaldi) ai contrappunti critici di Stefano
della Casa, Giona A. Nazzaro, Alberto Pezzotta e Roberto Silvestri, autori degli articoli più interessanti del libro.
In particolare,
Il mondo non basta. Della lotta vana di Mario Bava con(tro) il cinema di Nazzaro si configura come
l’intervento fondamentale non solo per comprendere il Bava-pensiero, ma, soprattutto, per collocare la sua opera
all’interno di una dialettica storica.
La grande contrapposizione tra cinema colto e cinema commerciale, incarnato dalla dicotomia critica tra Roberto Rossellini
e Mario Bava, protagonisti, all’epoca, di una lunga querelle sulle origini del neorealismo, viene superata alla luce
dell’analogia tra l’opera dei nostri, sacerdoti e custodi, ciascuno a suo modo, del cadavere del cinema (o meglio, fondatori
di un cinema dopo il cinema), e quella degli inventori del cinema delle origini (del cinema prima del cinema, verrebbe da
dire), i fratelli Lumiére e Georges Méliès.
Se Rossellini “è un Lumiére che perde il cinema, ma trova il mondo come oltrecinema”, elaborando “uno sguardo che muove
verso le cose come epifania e dissenso”, Bava è un “autentico Méliès che reinventa il cinema come magia impossibile […] Ma
non come magia che occulta il mondo, perché nessuna immagine avrebbe più potuto reincantare il mondo dopo Auschwitz, ma
come magia che evoca il cinema come rituale di un mondo che non c’è più. Onirografia prima della catastrofe.”
Il poeta dell’immateriale, in cui il cinema è prestidigitazione, ossia l’esibizione di un trucco “magistralemente occultato
dalla sua macchinazione.” È evanescenza analogica dell’immagine, segnata da un espediente linguistico, lo zoom, il
“carrello ottico” che sostituisce il meno caratteristico e più dispendioso “carrello fisico”, configurandosi come author’s
touch: “lo zoom di Bava è come uno stroke pollockiano portato sullo schermo cinematografico. Action cinema contro un cinema
percepito vieppiù come inerte a fronte di un mondo sempre più leggero e veloce. È il gesto cinema che deve diventare più
agile, più strategico, più politico (e in questo Bava è decisamente rosselliniano).”
Perché, in fondo, Rossellini e Bava, come i Lumiére e Méliès, sono la stessa cosa.
(A cura di) Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni, Kill baby kill! Il cinema di Mario Bava, Un mondo a parte, 2007.