Colonna sonora: Orange Juice, What Presence!?; the Smiths,
The Queen is Dead; the Smiths,
Ask.
Cosa resta dell’Inghilterra postimperiale? Siamo nel 1987: lady di ferro Thatcher ha inaugurato il suo terzo e ultimo
mandato, l’Inghilterra arriva quarta al Cinque Nazioni di rugby e Derek Jarman, al culmine della popolarità dopo aver
diretto il video di
The Queen is Dead degli Smiths, ha appena scoperto di essere sieropositivo. È l’inizio di una
lunga battaglia contro la malattia che lo porterà prima alla cecità e, nel 1994, alla morte. Una battaglia affrontata con
coraggio e piena consapevolezza delle implicazioni sociali dell’AIDS: “Ho impiegato alcune settimane per arrivare ad
accettare di essere sieropositivo; all’inizio ho pensato: “Non può essere vero”. Poi ho realizzato l’enormità della cosa;
sono stato spinto in un angolo, e questa volta per restarci. Ho imparato presto a conviverci: TU E IO, IO E TE”.
Si ritrova, così, di fronte alla necessità di mettere in crisi (nel senso etimologico del termine) la propria riflessione
artistica. Ne scaturisce la produzione più intensa del regista decadente della Perversa Albione, come viene ironicamente
descritto dal
Dizionario Snob del Cinema di David Kamp e Lawrence Levi, che, dopo le controversie legate a
Caravaggio (1986) (impiega circa cinque anni per trovare i finanziamenti), licenzia
War Requiem (1989),
Edoardo II (1991),
Wittgenstein (1993) e, soprattutto, la trilogia sulla malattia,
Blue (1993),
The
Garden (1990) e
The Last of England (1987).
Quest’ultimo rappresenta il fulcro energetico non solo dell’ultima parte della filmografia di Jarman, ma di tutto il suo
cinema. “Non assomiglia a nessun altro film; occupa uno spazio tutto suo. […] È eccitante perché fa sembrare logoro tutto
il cinema inglese degli ultimi anni. Fa apparire scialba e conformista tutta l’opera dei miei contemporanei” (il
riferimento, come specifica più avanti, è al Greenaway di
Buchi nell’acqua e a Frears “il buon artigiano”). È
un’anomalia, la sovversione di qualsiasi canone: Jarman riunisce attorno a sé pochissimi collaboratori e gira interamente
con una Nizo super 8, una cinepresa molto particolare, in grado di impressionare fotogrammi a diverse velocità creando degli
effetti di ralenti o di accelerazione in macchina. Le immagini in super 8 (che comprendono anche filmini di famiglia e
sequenze girate dal padre Lance), successivamente, vengono copiate e montate in video. Una volta terminata questa fase, si
passa alla stampa in 35 mm. Ma le novità non si riferiscono solo all’ambito tecnico. O meglio, si intersecano ad elementi
di natura produttiva e poetico/strutturale.
L’utilizzo della pellicola 8 mm e il montaggio in video permettono un notevole abbattimento dei costi di produzione, a cui
consegue una maggiore libertà del regista, non più imbrigliato dalla ragion di botteghino: “La cinepresa super 8 è sempre
libera. La 35 mm è incatenata al denaro delle istituzioni. Avrei potuto girare in 35 mm, ma le leggi dell’economia hanno
svuotato d’intelligenza questo formato. Ragazzi, le campanule fioriscono adesso nei boschi del Kent: si deve aspettare
un’autorizzazione di qualcuno per andarle a riprendere? Fanno in tempo a morire prima che ti arrivi una risposta. La troupe
di un film in 35 mm le ucciderà marciando. Io posso danzarci in mezzo, lanciare in aria la mia piccola cinepresa e fare una
capriola. E ‘fanculo giraffa e carrello”.
Alla logica commerciale subentra un concetto di cinema incentrato sull’urgenza espressiva dell’autore. Non a caso, dunque,
The Last of England,
The Garden e Blue sono classificabili all’interno dell’I-movie, genere che nasce da una
radicalizzazione degli assunti della
politique des auteurs e della
caméra-stylo, trovando tra i propri padri
fondatori Orson Welles (quello, per intenderci, di It’s all true; il pioniere che, in solitaria, esplora la vita degli
jangadeiros brasiliani), l’estroso Jean Cocteau e il Fellini dei fintomentari, ossia
I clowns e
Intervista.
In questi film il regista diviene protagonista assoluto del film, corpo/nucleo attivo e sguardo che lo riprende, raduno
ciclico di significato. La tentazione è fortissima: il messaggio convogliato dall’eidos cinematografico si configura come
Uroboro, il mitico serpente della tradizione greca che si morde la coda formando un cerchio. Simbolo alchemico (impossibile
non sottolineare l’interesse di Jarman nei confronti di John Dee, alchimista della corte elisabettiana e personaggio di
Jubilee (1978), suo secondo lungometraggio, il primo girato da solo) di un processo in sé concluso, rappresenta
l’alternarsi periodico di raffreddamento, condensazione ed evaporazione; concentrazione materica e volatilità. Ovvero corpo
e sua sublimazione attraverso un atto catartico, la visione, indipendente dalla consueta progressione drammatica.
Un cinema puro, in cui alla sceneggiatura si sostituisce una partitura di montaggio, forma di scrittura “a posteriori”.
Durante le riprese, infatti, il regista viene guidato esclusivamente dal proprio istinto, rivoluzionando i concetti di
realismo e rappresentazione: l’inquadratura si declina come pretesto per far emergere a visibilità proiezioni
dell’immaginario. Una possibile definizione di questa nuova forma potrebbe essere “documentario poetico”, il tentativo
postmoderno di avvivare un cinema espressionista lontano dagli stilemi dell’avanguardia tedesca degli anni ’30. È la
volontà di affermare, grazie ad uno sguardo lucido e penetrante, una propria idea del mondo attraverso un’idea di cinema,
attingendo consapevolmente alla cultura iconografica dell’Occidente (da Caravaggio con
L’Amor Profano ai
preraffaeliti Medox Brown con
Last of England e Holman Hunt
The Scapegoat) attraverso “effetti dipinti” ed
“effetti pitturati” (Alberto Costa,
Cinema e Pittura, Loescher, 1990)
Per questo motivo Ciò che resta dell’Inghilterra è molto più di un semplice diario di lavorazione. Come rilevato da
Nicoletta Vallorani, traduttrice e curatrice dell’edizione, “il senso del testo non sta nella ripetizione o nella
spiegazione di quanto accade nel film. Non si tratta di un’espansione tematica delle questioni che
The Last of
England mette in gioco. Non è precisamente una sorta di didascalia estesa di quello che nel film vediamo accadere.
Piuttosto, il lavoro si appoggia ad una procedura, per così dire, archeologica, un’indagine in profondità attraverso la
sedimentazione lenta e stratificata che ha prodotto l’immaginario che anima il testo filmico.”
È un saggio (auto)critico in cui Jarman ripercorre la propria attività artistica e politica per gettare una luce
chiarificatrice sulla sua opera. Emergono, in tal modo, ritratti assai interessanti degli anni ’60 londinesi, influenzati,
in campo artistico, dalla pop art di Andy Warhol e David Hockney, mentre la società inglese si dibatte tra i fantasmi di
una rivoluzione che non ci sarà e la retorica della
Piccola Inghilterra. La formazione del regista si sviluppa,
così, tra il conservatorismo delle scuole d’arte e la necessità di avere gli occhi puntati su Manhattan, sul centro
pulsante di quel mondo lontano anni luce dagli ambienti asfittici frequentati dalla famiglia Jarman.
Altro tema fondamentale del libro è, infatti, il difficile rapporto col padre, autoritario e pluridecorato aviatore
dell’esercito britannico. L’ombra che invade sia lo spazio testuale sia lo spazio cinematografico è la sua: il film
domestici che compare in
The Last of England è stato girato da Lance Jarman, cineasta e fotografo dilettante. È,
riprendendo ancora la postfazione della Vallorani, “una figura traghetto, che coniuga la rigidità sempre mostrata nelle
relazioni famigliari con un rapporto mai pacificato con l’identità britannica. Più neozelandese che inglese, combatte le
battaglie pubbliche con la stessa ambiguità profonda e la medesima apparente certezza, aderendo per principio ad un
establishment che interiormente rifiuta. Il giovane Derek si rende conto presto di questa ambiguità e prende, rispetto ad
essa, una posizione anche politica, che ha la sua connotazione principale nel rifiuto di qualsiasi autorità. La reazione,
tuttavia, non è puramente emotiva. È proprio in
Ciò che resta dell’Inghilterra che Jarman arriva ad analizzarne i
passi e le ragioni private e storiche, esibendola come una posizione che si aggancia ad un’esperienza personale specifica
del tempo che ha trasformato il corpo di Jarman, insieme a quello della collettività, in modi non sempre chiari,
percepibili e contrastabili”.
La contestazione nelle sue opere assume tratti consapevolmente pasoliniani: entrambi provenienti da famiglie
piccolo-borghesi (anche il padre di Pasolini era un militare), omosessuali, latori visionari di un cinema legato
indissolubilmente alla pittura, i cui atti d’accusa si rivolgono, seppur in contesti diversi, al conformismo ed al
livellamento delle coscienze connessi alla seconda rivoluzione culturale di destra, il consumismo. Le battaglie contro
“quelle cose che avverto personalmente come senza valore, cose che hanno invaso il circuito commerciale della vita
inglese.” (in Chris Lippard (a cura di),
By Angels Driven. The Films of Derek Jarman, Flicks Books, 1996)
riecheggiano le pagine degli
Scritti corsari e delle
Lettere Luterane sul falso mito del progresso: il
compianto rabbioso per l’Italia delle lucciole si trasforma in una annotazione sconsolata sulle condizioni di Greatstone,
piccolo paese nei pressi della centrale nucleare di Dungeness e del Prospect Cottage, ultimo rifugio di Jarman.
Lo spirito di Pasolini anima anche le pagine di dura polemica nei confronti del mondo cinematografico inglese, asservito
alla televisione e agli stilemi hollywoodiani. Ironico e sprezzante, nel capitolo sulla British Reinassance l’autore
inglese usa termini forti per definire la Nouvelle Vague inglese di inizio anni ‘80: “Il vostro prodotto: cristianesimo
basato sulle opere e criptofinocchi nazionalisti di Cambridge che intonano Jerusalem, un testo di un certo William Blake,
un poeta minore che scrisse quel celebre inno calcistico. Un mucchio di corse al rallentatore che non approdavano da
nessuna parte, il perfetto riflesso del cinema dell’epoca”.
All’inutile magniloquenza del Rinascimento britannico, Jarman oppone un nuovo tipo di cinema, il cosiddetto “cinema dei
piccoli gesti”. Girato interamente a passo ridotto, è costituito da film di altissimo profilo iconografico, strutturati
senza sceneggiatura a partire da condensazioni tematiche. I due esempi più significativi sono, oltre a
The Last of
England, Imagining October (super 8 gonfiato in 16 mm) e
The Angelic Conversation (gonfiato in 35 mm), analizzati
in maniera approfondita durante un intenso dialogo-confessione con l’assistente Keith Collins. Nel primo, nato da riprese
effettuate durante una visita in Unione Sovietica, si inizia con la citazione di un quadro di John Watkiss da cui diramano
traiettorie narrative sghembe, all’interno di un confronto che mette in crisi le tradizionali opposizioni tra oriente
comunista e occidente capitalista. La qualità onirica delle sequenze contribuisce a dare risalto ad un altro tema portante
della pellicola, il collegamento tra monumentalismo eroico e sessualità, declinazione politica di un elemento cardine della
poetica jarmaniana: il corpo e la sua virulenza erotica.
Questo è l’asse portante anche del secondo lungometraggio, ancora più vicino rispetto a
Imagining October all’idea di
“pittura in movimento”. Ambientata in sorta di giardino delle delizie pre-romantico, mentre sullo sfondo compare la stessa
Inghilterra di
Jubilee, un paese in fiamme, la storia d’amore (e di lotta) tra i due protagonisti si nutre della
sensazione di provvisorietà e di perdita dei sonetti di Shakespeare, interpretati in voice-off da Judi Dench, che, in
alcuni punti, rievocano le atmosfere di
Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes.
La creazione di una colonna sonora parallela al film diviene assai importante per la definizione di un cinema alternativo
che riprende dal muto il concetto di commento musicale. Vi confluiscono l’esperienza di Jarman con collaboratori del
calibro di Simon Fisher Turner, John Balance e Peter Christopherson (i Coil), David Ball, Brian Eno, e il suo lavoro
nell’ambito del video musicale, la cui elaborazione concettuale è affidata ad alcune delle pagine più interessanti del
volume: “I video musicali richiedono l’adozione di un codice molto rigido […] sono essenzialmente spot pubblicitari, un
lavoro breve e sfavillante che deve produrre un effetto. La loro caratteristica principale è la velocità del montaggio;
però sono anche capaci di creare un linguaggio più vitale, reintroducendo l’immagine muta ed enfatizzando lo stile. […]
Qualche vecchio film, non importa quanto banale, ha una finezza visiva a confronto della quale il cinema post-televisivo
si deve solo vergognare.” L’opposizione tra un cinema-sit com incatenato alla parola e dall’altra un cinema in grado di
utilizzare i nobilitare tecniche televisive nella piena consapevolezza della loro pregnanza all’interno della cultura
visiva: “I video hanno creato un nuovo pubblico, in particolare in luoghi come bar e locali, dove la gente se ne sta seduta
tutta la sera a guardarli, festante. È un tipo di spettacolo che ha ancora più pubblico della stessa programmazione
televisiva, e ha creato un nuovo linguaggio visivo.” Riflessioni che illuminano non solo tutta la produzione di videoclip
degli anni ’90, ma soprattutto le linee guida del cinema underground americano contemporaneo (si pensi, per esempio, ad
Analog Days di Mike Ott, passato in rassegna all’ultimo Milano Film Festival).
Come avrete intuito dalla densità degli argomenti trattati,
Ciò che resta dell’Inghilterra è, insieme a
Chroma (un saggio sulle implicazioni filosofiche e artistiche del colore dal Medioevo a oggi) un nodo teorico
importantissimo per comprendere l’arte e la figura eclettica di Jarman, ancor più dei diari
Modern Nature e
A vostro rischio e pericolo (entrambi pubblicati in Italia da Ubulibri). Un intellettuale con la cinepresa vitale e
rivoluzionario, a cui mal si attaglia la falsa e pesante retorica della commemorazione. Ad essa preferiamo la profonda
leggerezza dell’ode.
“Tre note crescenti nel silenzio, e il film diventa buio. I nomi dei miei amici fluttuano via dallo schermo, il proiettore
è spento, che sollievo, che cosa avete visto? Cosa ho visto io? Parlava di qualche cosa? Di niente, di qualcosa. Non ne
sono sicuro, perché non me lo dite voi? Ma se mi chiedete se ne è valsa la pena, vi rispondo di sì. Buonanotte, e grazie
per avermi regalato un po’ dei vostri giorni contati.”
Derek Jarman,
Ciò che resta dell’Inghilterra, ALET, 2007, film + libro, euro 21,50