Esulerò un po’ dalla spazio che abitualmente dedico al commento dei film in questa rubrica, non tanto perché un film che
dura oltre tre ore merita uno spazio doppio rispetto ad uno che ne dura un’ora e mezza, ma perché già definire
che
cos’è Inland Empire non è facile. La via lynchiana al cinema espanso? Un incubo dall’incredibile lunghezza? Una
metastasi del già incasinato
Mullholland Drive? Il capolavoro di Lynch, l’esito della sua deriva verso la
destrutturazione della narrazione classica? Un monumento a (e coprodotto da) Laura Dern (impegnata in una
performance che vale un’intera carriera)? Un ritorno alla surrealtà senza spiegazioni di Eraserhead? Un’oscura
metafora del cinema e del suo potere di creare realtà alternative ed autonome? Un film di fantasmi? Il viaggio
all’interno (
inland) dell’impero (
empire) della follia? Un’accozzaglia di ripetitive sequenze senza capo né
coda? Una gigantesca presa per i fondelli con tanto di sberleffo finale (la donna senza gamba, la scimmietta, la puttana
che sembra una star…)? Un esperimento di video-arte proiettato per errore sugli schermi del cinema commerciale (ma quanto
ci resterà?)?
All’inizio, pur tra strane apparizioni e bizzarri episodi, sembra di poter seguire una traccia narrativa, quella di
un’attrice scelta per girare il
remake di un film maledetto, originato da una fiaba di zingari polacchi e
interrotto per l’assassinio degli attori protagonisti, la cui vita privata comincia presto ad assomigliare minacciosamente
a quella del personaggio che deve interpretare, coinvolto in una pericolosa relazione adulterina; ma presto il racconto si
disintegra definitivamente, si frantuma in una serie di schegge impazzite che non si sa da dove siano partite e non si sa
dove sono dirette, in uno spazio cinematografico-siderale in espansione. Spazio, tempo, personaggi, sono tutti permeabili
e irrealmente contigui; presente, passato e futuro si mescolano, realtà, finzione, sogno e irrealtà sono indistinguibili;
ogni porta che si apre sembra affacciarsi su un’altra dimensione; il personaggio principale si deframmenta in un intero
universo di figure femminili.
Il risultato, per lo meno fino ad un certo punto, è quello di tenere lo spettatore con tutte le antenne ermeneutiche
rizzate, nel tentativo di capire dove si vuole andare a parare (gli stessi personaggi spesso non capiscono dove si trovano,
o non si riconoscono l’un l’altro). Ma poi la durata del film costringe a scegliere: prendere o lasciare; o ci sia
abbandona al flusso lisergico delle immagini, e magari una volta usciti si grida al capolavoro, o ci si irrita di fronte
all’arbitraria sconclusionatezza (pare che Lynch girasse senza sceneggiatura, inventandosi il film giorno per giorno) di
tutto l’insieme, aggravata dall’opacità visiva delle riprese effettuate in elettronica, e magari si esce dalla sala prima
della fine. Oppure ci si intorcina a scegliere tra idee geniali e trovate
cheap e risapute.
Chi ha ragione? Tutti e nessuno. Ognuno (se ne ha voglia) giudichi per sé. Ad esempio, la capacità tutta lynchiana di
provocare angoscia attraverso l’uso degli spazi diventa qui un estenuante tormentone; ma chi si dovesse arrendere prima
della fine si perderà ad esempio la scena della morte (?) della Dern sull’Hollywood Boulevard, o gli ironici titoli di
coda finali sulle note festose e consolanti di Nina Simone.
Come si suol dire, buona visione.
DAZEROADIECI: s.v (senza valutazione)
MAURO CARON