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Titolo originale: Direktøren for det hele
Regia: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Montaggio: Molly Marlene Stensgård
Effetti: Peter Hjorth
Fotografia: AUTOMAVISION®
Interpreti principali: Jens Albinus, Peter Gantzler, Fridrik Thor Fridriksson, Jamie Bell, Benedikt Erlingsson
Origine : Danimarca/Svezia, 2006
Durata: 99'
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Il proprietario di una società informatica inventa un fantomatico "grande capo" come capro espiatorio di una conduzione
aziendale non sempre popolare. Ma quando all'atto della vendita gli acquirenti decidono di voler trattare direttamente con
il boss della società, lo stesso imprenditore è costretto ad assumere un attore fallito per interpretare il ruolo del
presidente… Pur spogliandosi dei panni melodrammatici/inquietanti della sua precedente filmografia, questa commedia
aziendale degli equivoci è puro Lars von Trier, nel bene e nel male. Talentuoso e irritante al contempo, capaci di guizzi
d'autore nelle invenzioni e di stasi imbarazzanti nel ritmo, il regista danese maschera le proprie ambizioni con interventi
verbali in prima persona (all'inizio, porgendo allo spettatore addirittura un riflesso della propria immagine, al centro e
nel finale del film) che vorrebbero minimizzare il senso di un'operazione filmica apparentemente secondaria, suggerendo
invece l'esatto contrario. Cambia la veste, non la sostanza del suo cinema, sempre capace di rimanerti dentro, sempre
irriverente nella forma. Che qui pare assumere le famigerate sembianze di una nuova tecnica di ripresa, l'Automavision, un
metodo computerizzato per le riprese "random", ma che di fatto riprende i vecchi jump cut della Nouvelle Vague
francese, insieme ad altre vezzi d'autore (inquadrature impallate, controcampi e dettagli di scena - volutamente? - errati),
eleggendoli a (ripetitivo) sistema grammaticale. Insomma il vero "grande capo" del film è lui: Lars von Trier,
mefistofelico (sotto mentite spoglie) e sardonico come sempre.
P.S.: The Office (2001-2003), l'impietosa sitcom britannica sullo squallore della vita d'ufficio, secondo alcuni da
accostare al film di von Trier per temi e linguaggio, aveva comunque ben altro spessore e arditezza.
DAZEROADIECI: 7
MASSIMO ZANICHELLI
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Von Trier annuncia una commedia innocua e quello che ne esce è “Il grande capo”, ovvero già in partenza una somma
inestricabile di contraddizioni: una commedia dove von Trier aveva rinnegato la praticabilità dei generi cinematografici
con il suo Dogma; la pretesa di innocenza in un film che parla di responsabilità e di controllo; l’Automavision che affida
la responsabilità delle riprese alla casualità impersonale di un computer applicato ad un genere, la commedia appunto, che
si regge sull’orchestrazione ferrea dei tempi e dei piani, e delle sfumature del detto-non-detto e del visto-non-visto. Tra
autocitazioni (i film Dogma, le conflittualità intra-scandinave come ne Il regno), traduttori costretti al
turpiloquio, attori con crisi di moralità (ma tutto vince il teatro…), informatici insicuri ed ingenui alle prese con un
profittatore infingardo e disonesto e inquadrature, montaggio e illuminazione che sembrano fatti a casaccio, von Trier
butta sul tavolo ordinato del cinema un altro oggetto inclassificabile, con il solito ricatto del prendere-o-lasciare,
stare al gioco o alzarsi dal tavolo, ammirare o sentirsi presi per i fondelli. Ah, dimenticavo - e si ride.
DAZEROADIECI: 7,5
MAURO CARON
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Un giovane attore fallito e sfigato viene scelto per interpretare un fantomatico capo di un'azienda. L'operazione, che più
che un'occasione ha tutti i connotati della truffa, viene messa in piedi per scaricare su di lui tutte le pressioni e le
responsabilità dell'azienda. Dissacrante e caustico (come sempre) Von Trier smaciulla convinzioni di genere e spettatori,
realizzando una commedia "alla Von Trier". Incongruenze, paradossi, eccessi, ironia sottile e profili destabilizzanti e
amari di caratteri e caratteristi del mondo del lavoro. Si assiste ad un'autentica finzione nella quale prevale il gusto
dell'assurdo affiancato da un retrogusto amarognolo e pungente che graffia e taglia.
Un film per certi versi impalpabile, contraddittorio e delirante ma, comunque, con un preciso deisiderio di dare significato
alle relazioni e alle conseguenze che ne derivano.
DAZEROADIECI:: 7
MATTEO MAZZA
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Visione natural durante, non è sempre scontato continuare a credere che “Il grande capo” sia un film e non una sottilissima,
arguta presa in giro dello spettatore. Contribuisce anche la voce fuori campo del narratore, che, per quanto inopportuna
possa sembrare (a noi lo è parso), trova la sua logica collocazione all’interno di quest’esercizio di stile (a noi lo è
parso). Ma non solo di esercizio di stile si tratta, perché il film di von Trier – che non mancherà di trovare il consenso
degli appassionati del genere – è anche una scabra, piacevole ricognizione filosofica sulle frustrazioni professionali,
sulle regole e le gerarchie di un mercato del lavoro ipocrita che sta divenendo inspiegabile e incomprensibile per tutti.
E’ di questo paradosso, affidato a un esile monito etico affidato al protagonista Sven (“Non cedete!”), che la vicenda ci
parla. Vivida e spesso divertente la narrazione; coeso, autorevole ma deliberatamente sommesso il cast; intrigante,
coraggiosa e sviante la fotografia Automavison.
DAZEROADIECI: 7
SAMUEL COGLIATI
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