IL SEGRETO DI ESMA
Esma deve trovare i soldi per mandare sua figlia Sara ad una gita scolastica. Perché non può avvalersi della gratuità
prevista per i figli dei caduti in guerra, dato che le ha sempre detto che suo padre è un martire bosniaco ucciso dai
cetnici?
Nella Sarajevo del dopoguerra la vicenda di Esma e della quindicenne Sara si intreccia con quelle di altre persone, tutte
però con il grosso elemento comune di aver subito le atrocità della guerra.
Esma frequenta un gruppo di donne in psicoterapia collettiva. Il suo unico fine è quello di ritirare l’assegno del sussidio
mensile, non parla mai della sua vicenda. Trova lavoro in un locale notturno e arrotonda ulteriormente i suoi guadagni
lavorando in casa come sarta. Si ammazza di lavoro per mantenere dignitosamente la figlia.
Non concede nulla a se stessa e nulla di sé fa trapelare agli altri. La vita è però un maglio in grado di frantumare anche
le rocce più dure ed Esma non può sottrarsi a questa regola.
C’è molto della Sarajevo postbellica che vediamo – sempre meno a dire il vero – sui mass media, ma c’è anche molto altro
nel film di Jasmila Zbanic, Orso d’oro a Berlino 2006, premio della giuria Ecumenica e segnalato da Amnesty
International.
C’è molto anche se il film sembra procedere per sottrazioni. C’è anzitutto Sarajevo, anche se alla città vengono tolti i
suoi colori e suoni (che tanto caratterizzano ad esempio i racconti Ivo Andric); la vediamo perennemente imbiancata o in
un livido disgelo di pozze e pantani. Sentiamo il rumore della fabbrica; il volgare frastuono del night; il rombo delle
macchine dei malviventi; un lontano, gracchiante muezzin registrato; nulla percepiamo delle molteplici anime della città
famosa per la sua convivenza tra ebrei, musulmani e cristiani d’ogni confessione. Ci sono le persone, anche se è stato
tolto loro il passato di amori, di studi, di lavoro. Si ricerca il passato, ma al contempo se ne vuole fortemente fuggire,
in un continuo duello tra il distacco cercato affannosamente e la memoria che ci portiamo dentro. C’è la famiglia, anche se
non una delle famiglie è completa, manca sempre il marito-padre, tragico lascito della guerra. Ogni padre è però
ricercato: in un certificato di morte, in una salma da riconoscere, in una pistola e in un distintivo dell’ ”Armija” da
conservare.
Per sottrazione lavora anche la sceneggiatura, sia per i personaggi che, piano piano, escono dalla vicenda, sia per i toni
narrativi che non si esasperano quasi mai. La vicenda è tanto pregnante in sé che non occorre caricare ulteriormente la
trama o la recitazione. Anzi, Mirjana Karanovic, interpreta una protagonista, Esma, forse fin troppo controllata e, quasi
sempre, presente a se stessa.
Forse c’è anche un’ultima sottrazione, quella dell’odio. Esma, liberandosi del suo segreto, svela come dall’odio per i suoi
aguzzini sia passata all’amore per la figlia, frutto di quell’odio. Altri, che non riescono a vivere senza odiare,
scappano, vanno all’estero, tagliando i ponti con tutto il passato e, in definitiva, con se stessi.
Non sorprende allora che in un panorama così fosco, l’unico elemento “a colori” del film (a parte un orrendo vestito rosso
iniziale) sia il personaggio della giovane Sara. Lei, anzi, deve costruirsi, deve accumulare conoscenze ed esperienze, anche
se non sempre è facile, positivo o come se lo era immaginato.
L’apertura alla realtà (quella vera, non quella costruita per “proteggerla”) e al futuro è il filo che segna la trama del
film. Esma, le sue compagne, gli altri, sono il passato, non potranno mai più prescindere da ciò che è stato e che stato
fatto loro. Anche Sarajevo non sarà mai più la stessa. Sara e la sua classe, possono invece partire per la gita, per il
domani. Proprio in questa partenza, che potrebbe costituire una rottura, Sara trova il coraggio di voltarsi indietro,
salutare il passato e guardare avanti, cantando una canzone popolare che prima si rifiutava “Sarajevo ljubavi moja”
(Sarajevo amore mio). L’unica volta in cui viene pronunciata la parola amore.
|
REVISIONI STORICHE
“In ogni generazione il popolo irlandese ha asserito il proprio diritto alla libertà nazionale ed alla sovranità; negli ultimo trecento anni lo hanno asserito.”
Proclamazione delle Repubblica Irlandese, 1916.
La travagliata storia dell’indipendenza irlandese, con il suo strascico di violenze nella parte Nord del paese, è stata
spesso protagonista del cinema fin dalla sua nascita. Fra i titoli più famosi si possono ricordare: II fuggiasco
(Carol Reed, 1947), L'agenda nascosta (Ken Loach, 1990), La moglie del soldato (Neil Jordan, 1991), Nel
nome del padre (Jim Sheridan, 1993), Michael Collins (Neil Jordan, 1996), Una scelta d’amore (Terry
George, 1996), The Boxer (Jim Sheridan, 1997) fino a Il vento che accarezza l'erba di Ken Loach. L’ultimo
film del regista inglese, che torna ad occuparsi della storia d’Irlanda dopo 16 anni, sembra quasi essere un commento, una
nota a margine al film di Jordan, una sorta di altra faccia della medaglia. Se in Michael Collins Jordan concentrava
lo sguardo sui capi della rivolta e sulle personalità di spicco del movimento rivoluzionario irlandese, quelle personalità
che ricopriranno poi incarichi di governo con la nascita di uno stato libero d’Irlanda (Collins sarà Ministro delle
Finanze), Loach mette in scena le storie degli uomini comuni che presero parte attiva alla lotta contro gli inglesi:
apprendisti, commessi, figli di contadini, braccianti agricoli, operai delle fabbriche, addetti ai trasporti e alcuni
veterani della prima guerra mondiale.
Il film di Jordan si apriva con l’assalto delle truppe inglesi all'Ufficio Generale delle Poste di Dublino, in cui erano
asserragliati gli insorti della rivolta della Pasqua del 1916, e proseguiva con le immagini della prigionia e della
fucilazione dei capi. Jordan collocava il suo film all’interno della storia ufficiale, con date, luoghi e personaggi.
Loach, invece, sembra dare per scontato l'intero contesto: lascia che siano l’ambientazione e l’azione a definirlo. Il
film, infatti, inizia con una partita a hurling, uno degli sport nazionali che la dominazione inglese non è riuscita ad
estirpare. Damien, il protagonista, deve partire per l’Inghilterra, ma prima vuole salutare madre, nonna e sorella di un
suo compagno di squadra. È in questo contesto di normalità che irrompe la violenza della storia. Alcuni soldati inglesi
picchiano a morte uno di loro perché continua a pronunciare il suo nome in gaelico invece che in inglese. È proprio la
quotidianità della violenza dei Black and Tans a spingere Damien ad aderire alla rivolta. Loach non spiega da dove vengano
i soldati inglesi, ma da l’idea di una dominazione lunga e consuetudinaria.
La scelta dei protagonisti influenza anche la scelta dell’ambientazione. Il film di Jordan era un film cittadino,
ambientato quasi interamente a Dublino, una città notturna, la cui oscurità copriva le azioni di guerriglia e i sabotaggi
dei volontari capitanati da Collins. Il film di Loach mostra un’Irlanda aspra e scabra, fatta di brughiere spazzate dal
vento e di montagne solitarie. Soprattutto un’Irlanda povera con i contadini che muoiono di fame e che sopportano il peso
maggiore della guerra e delle incursioni inglesi.
Questo sposta anche il baricentro politico dei due film. Se Jordan promuoveva Collins come eroe della rivoluzione
irlandese, Loach mostra gli oppositori di Michale Collins, coloro che insorsero con le armi contro i vecchi compagni alla
firma del trattato di pace con l’Inghilterra. Mostra anche l’ala socialista del movimento che si ispirava alle idee di
James Connolly sulla ridistribuzione della terra ai contadini, sulle abolizioni dei vecchi privilegi e dei vecchi centri
di ricchezza e potere che rimanevano comunque in mano agli inglesi.
Jordan vedeva le divisioni in seno allo Sinn Féin che portarono alla guerra civile come uno scontro di potere tra i vertici
del partito tra Collins, l’eroe della guerra, e De Valera, il presidente in esilio in America che non aveva affrontato le
difficoltà della lotta. Loach, oggi, mostra come le fratture fossero molto più radicate, già prima del trattato, tra i
socialisti e nazionalisti moderati favorevoli ad un compromesso con le classi dominanti.
È proprio questo il motivo della riflessione finale di Loach: il sacrificio di sangue che l’Irlanda ha pagato per liberarsi
dal dominio inglese è servito a qualcosa? E la risposta sembra uno sconsolato no, perché nulla è veramente cambiato
all’interno della società irlandese permettendo agli inglesi di dominare, anche se solo economicamente, il paese per anni
dopo l’indipendenza. L’assurdità della guerra civile, che vede opposti Damien e suo fratello Teddy, diventa allora ancora
più dolorosa. Forse proprio per questo Loach ambienta il film nella contea di Cork dove Collins veniva ucciso da un suo
oppositore, forse, per tentare di spiegare i motivi di quel gesto.
|