In
“Match Point”(2006), l’ultima fatica alleniana, il regista ormai settuagenario abbandona l’amata Manhattan per la plumbea
e piovosa Londra e confeziona un film molto interessante, che ha diverse analogie rispetto al precedente “Crimini e
misfatti”, datato 1989.
Allen ci presenta, attraverso le vicende di Chris Wilton, ex tennista e umile maestro di tennis per i rampolli della
high-society londinese, un universo tragico, in cui il
motore primo, che tutto muove, è rappresentato dalla Fortuna
o dal Caso.
Questo ci viene descritto nello stesso prologo del film dalla voce fuori campo, con l’immagine efficace di una pallina da
tennis, che, toccando la rete, per poche frazioni di secondo potrà cadere alla destra o alla sinistra del campo, decretando
così la vittoria di uno o dell’altro giocatore. “Le persone hanno paura di ammettere quanto la Fortuna incida nelle loro
vite”. Questo l’incipit della pellicola. Questo è appunto anche il significato stesso del titolo: il MATCH POINT (punto che
decreta la vittoria) di questo film è puramente casuale.
Si tratta però di specificare che il Caso di cui parla il regista, in questa opera come in “Crimini e misfatti”, non è da
identificare solamente o semplicemente con la pura coincidenza. Non si tratta del caso “minuscolo” alla “Sliding Doors”
(1998) o di quello presente ne “La Dea dell’amore” (1995), altro lavoro di Allen, in cui al termine del film viene
sottolineata proprio “l’ironia del destino”, che affida a Lenny (Allen) il figlio di Linda (Sorvino), e a questa il figlio
del primo, in uno scambio vicendevole, casuale e inconsapevole.
Quello su cui stiamo riflettendo ora è il Caso “maiuscolo”, il Caso come Caos, cioè come elemento caotico dell’universo,
sinonimo quindi di disordine e disarmonia, in coppia antitetica con il concetto di armonia o di Cosmo (letteralmente dal
greco: “ordine”). Stiamo parlando di un universo ormai senza senso, senza significato, annichilito, in cui non vige alcuna
legge morale, in cui non è più possibile alcuna giustizia, un mondo in cui “Dio è morto”, per citare Nietzsche. Siamo
lontani, dunque, dalla visione platonica di un universo armonico, cioè di un Cosmo, creato sul modello dell’idea del Bene,
dal Dio/Demiurgo attraverso un’azione ordinatrice del caos primordiale. Siamo infatti nel mezzo di un’opera essenzialmente
contemporanea, novecentesca, beckettiana.
Lo stesso protagonista esprime per tutto il corso del lungometraggio una concezione tragica della vita e del mondo e proprio
dopo l’omicidio della scomoda e gravida amante Nola (Scarlett Johansson), dirà: “ Spero proprio che mi prendano, perchè
questo dimostrerebbe che c’è una giustizia a questo mondo, che c’è un senso”. Ma chi ha visto il film, sa che Chris, grazie
a un vero e proprio colpo di Fortuna (appunto), la farà franca. E questo non per dimostrare che i “cattivi” vincono, ma per
ribadire la mancanza di un senso, di un ordine, per confermare che vero vincitore su tutti è il Caso, nella sua indifferente
crudeltà e ingiustizia, in fondo incurante dell’agire più o meno morale delle sue pedine.
Allo stesso modo, il protagonista di “Crimini e misfatti”, l’oftalmologo Jude (Martin Landau), dopo l’assassinio dell’amante
(Anjelica Houston), descrivendo un ipotetico soggetto per un film, così parlerà a proposito della sua vicenda: “E dopo il
suo orribile delitto, lui è tormentato da un senso di colpa radicato. D’un tratto il mondo non è più una vuota astrazione,
ma una giusta e morale certezza e lui ora è in preda al panico. E poi una mattina si sveglia e il sole risplende, la sua
famiglia gli è accanto e misteriosamente la sua crisi si è risolta; e con il passare dei mesi lui non viene punito e anzi
prospera.”
Analizzando i due film, possiamo notare che, al di là delle differenze a livello contenutistico (la trama e la struttura,
“monovocalica” per l’ultima opera e corale per la precedente), permane un comune universo di fondo. Un comune conflitto tra
quella che è la volontà individuale dell’uomo e un ordine inalterabile, una Necessità inconoscibile e casuale, che non
coincide con il Destino (poiché non è finalistica) e che non segue le logiche umane, alle quali è insensibile.
In questo senso, la scelta tra due alternative è soltanto un inganno, una sola via si apre davanti all’individuo ed egli è
costretto a seguirla. Questa opposizione dicotomica tra Libertà e Necessità si presenta tuttavia in modo leggermente
dissimile nelle due pellicole. Gli stessi protagonisti sono profondamente diversi. Infatti, se in “Crimini e misfatti” la
dimensione umana è ancora prevalente, tanto che si può ancora avvertire un conflitto morale e si può ancora forse imputare
all’Uomo le sue azioni, in
“Match Point” il Caso assume un peso preponderante, fino a rendere il contrasto etico più lieve,
se non inesistente. Jude viene dipinto come un uomo di scienza, quindi scettico e razionale, ma anche come un uomo che ha
alle spalle una lunga tradizione ebraica, che non può non incidere del tutto sul suo modo di sentire il mondo. Dopo il
delitto, è divorato dal senso di colpa, inizia a risentire la voce del padre morto, uomo profondamente credente, e a
immaginare che Dio sorvegli ogni suo movimento. “Piccole scintille del mio backround religioso, che avevo soffocato,
iniziarono a risplendere all’improvviso”. Possiamo definirlo quindi come un personaggio im-morale, e cioè come qualcuno,
che pur conoscendo la morale e il giusto comportamento etico, la trasgredisce; da qui la lotta interiore, il tormento e
l’angoscia del peccato.
Chris, invece, ha alle spalle una storia molto diversa. In lui il dissidio morale è meno palpabile. Non c’è da parte sua la
percezione di aver violato un codice etico o religioso, al quale era stato educato; piuttosto, si avverte in lui un agire
dettato dagli impulsi più primordiali, primo tra tutti l’istinto di sopravvivenza, una sorta di legge del più forte di
derivazione hobbesiana, e poi un agire dettato da una vera e propria ossessione sessuale per la provocante e travolgente
Nola. Il protagonista ci viene così presentato come un nichilista, un uomo a-morale, cioè al di sopra della morale, simile
a una sorta di superuomo nietzschiano; inevitabile un parallelo con Raskolnikov, lo studente amorale e omicida di “Delitto
e castigo”, oggetto di lettura dello stesso Chris. In effetti, egli potrebbe impersonare alla perfezione uno dei classici
personaggi dell’universo romanzesco di Dostojevskj, o, ancor più, del mondo creato dallo scrittore novecentesco André Gide,
dove al delitto non segue neanche il castigo. Non c’è sentimento di colpa lacerante, non c’è un vero pentimento in questo
assassino. C’è al più una disperazione, dettata dal timore di essere scoperto e di perdere, così, tutto quello che si è
conquistato. Ci troviamo di fronte a un individuo, che sembra non provare sentimenti, incapace di amare la moglie,
“simpatica e intelligente” (secondo la sua stessa descrizione), tanto quanto l’amante, sensuale ed eccitante, fino a quando
non diventa fastidiosa e prossima al parto.
Ma il regista, soprattutto nella pellicola inglese, intende lasciare aperta la questione; non è così netto nel giudizio del
suo personaggio. Sembra piuttosto volerci dire: “Quanto è responsabile Chris di quello che è accaduto? E’ davvero un
calcolatore, un arrampicatore sociale, che ha agito solo in vista di una buona posizione?” Il messaggio è ambiguo. In
realtà, sembra che tutto capiti per Caso. Che per caso Chris incontri Tom, colui che diventerà poi suo cognato, che per
caso Chloe si innamori di lui e decida di sposarlo, che per caso rincontri Nola, la sua futura amante, che di nuovo per
caso egli, pur non essendo un membro dell’élite londinese, sia ben accetto nella famiglia e nella cerchia sociale. Non si
percepisce uno sforzo, un’artificiosità da parte sua, nel sedurre la futura sposa, nel fare buona impressione sui genitori.
Il fatto è che, al di là del film stesso, il regista si sta interrogando su un problema radicale, la cui soluzione sembra
essere quindi impossibile. Allen sta riflettendo sul peso dell’azione umana, su quanto l’individuo sia responsabile degli
accadimenti. Ed è proprio questo conflitto, che rende in un certo senso i nostri due personaggi degli eroi tragici. Non è
una coincidenza che il regista, parlando a Cannes della sua ultima opera presentata fuori concorso, e rispondendo alle
critiche positive, abbia detto: “Io per me avrei sempre girato tragedie, ma chi me le produceva?”. Dice bene Woody Allen.
Questo film è la messa in atto di una tragedia. Infatti, nella prospettiva tragica l’azione è sì la conseguenza di una
decisione, ma essa è anche una scommessa sull’ignoto. Questo ignoto, nel caso della tragedia classica greca, è
rappresentato dagli dei pagani, divinità “laiche”, più assimilabili al Caso, che al Dio cristiano della Provvidenza.
E infatti, la legge suprema della necessità imposta dagli dei è l’arbitrio, che può portare quindi alla rovina dell’uomo,
come a un suo successo, che resta pertanto altrettanto misterioso ed estraneo alla sua determinazione, quanto lo sarebbe
stata la sconfitta.
Altro elemento che accomuna i due film e che svolge una funzione tragica è l’accompagnamento musicale, che in questo modo si
rivela essere non mero accessorio, ma strumento altamente significativo. Difatti, se solitamente il regista newyorkese si
affida nelle sue commedie al ritmo sincopato del jazz, una volta modificato il genere, cambia anche il registro musicale.
Così, se in
“Match Point” passiamo dal consueto Gershwin a “La Traviata” di Verdi, il cui motivo ritorna per tutto il
lungometraggio, anche nel film del 1989 la vicenda dell’oculista, e in particolare il crimine compiuto, sono associati
alle note di Schubert, uno dei compositori preferiti del protagonista.
La musica classica sembra essere la partner ideale per lo scontro tragico tra l’Individuo e il Caso.
Alla luce di tutto questo, possiamo arrivare a definire
“Match Point” come una lunga riflessione, che prosegue e si evolve
rispetto al lavoro precedente, ma che non viene risolta.
“Match Point” come un difficile interrogativo.
Forse una possibile, temporanea e “consolatoria” risposta possiamo trovarla in “Crimini e Misfatti”, nelle parole del
professor Levi: “Per tutta la vita siamo messi di fronte a decisioni angoscianti, a scelte morali e noi siamo determinati
dalle scelte che abbiamo fatto. Gli eventi si snodano così imprevedibilmente e così ingiustamente. Siamo solo noi che
possiamo dare un significato all’universo indifferente”.
Questo discorso ci porta a concludere che probabilmente l’unica colpa di Chris non è stata tanto quella di aver “agito”
male, ma quella di non aver agito, di non aver re-agito, di non aver cercato di dare in prima persona un significato
all’universo indifferente, giustificandosi dietro alla maschera nichilista di chi non crede alla Vita e però, con
l’omicidio, contribuendo egli stesso a definirla crudele e ingiusta.