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Titolo originale: Come Dio comanda
Regia: Gabriele Salvatores
Sceneggiatura: Niccolò Ammaniti, Gabriele Salvatores, Antonio Manzini
Montaggio: Massimo Fiocchi
Musica: Mokadelic
Fotografia: Italo Petriccione
Interpreti principali: Alvaro Caleca, Filippo Timi, Elio Germano, Fabio De Luigi, Angelica Leo
Origine : Italia 2008
Durata: 103 Min
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Prendete le atmosfere calde e soleggiate di Io non ho paura, gli scenari pugliesi e una storia d’Italia malata. Fatto? Ecco, ora tenete solo l’ultima delle tre cose elencate: la storia d’Italia malata. Ambientate tutto nel nord Italia e provate a disegnare i volti brutti e sporchi di un’umanità lontana ma reale. Salvatores torna a dirigere Ammaniti e lo fa con una determinazione tale da lasciare pietrificato lo spettatore. La crudeltà ambientale, non solo umana, è la vera protagonista di questo film oscuro e penetrante come un pugno nello stomaco o un coltello dentro una ferita. È la conferma di un cinema che muove passi lunghi e ben distesi dentro i confini nostrani pur concedendosi l’estro e la necessità di un’estetica originale, mai ruffiana, mai banale. Il ritratto è spietato, curdo, vero. Addirittura troppo forte. Eppure, la realtà è così.
DAZEROADIECI:: 7,5
MATTEO MAZZA
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Salvatores da anni riflette sul rapporto padri e figli: naturale che abbia trovato congeniale al proprio cinema le storie di Ammaniti, incardinate sullo stesso tema. Ma dopo la buona riuscita di Io non ho paura tornare subito a filmare una storia dello stesso scrittore sembra una scelta intellettualmente un po’ pigra. D’altra parte lo stile di Ammaniti è già ampiamente cinematografico, e la sceneggiatura se la cava con il problema di ridurre le centinaia di pagine del romanzo in una durata cinematograficamente ragionevole sfrondando alcune linee narrative e sgonfiando alcune dilatazioni temporali. Rispetto a Io non ho paura a cambiare è soprattutto lo sfondo: dal sud assolato e bruciato tra i campi di grano maturo al nord est livido e piovoso tra villette, capannoni e centri commerciali; dopodiché il soggetto è simile: un adolescente deve trovare la propria via per emanciparsi da una figura paterna negativa, sullo sfondo di un’azione delittuosa. Ma qui il padre razzista e filonazista è “innocente” (più ancora che nel libro) e alla fine padre e figlio si riconcilieranno in un abbraccio liberatorio e poco credibile. Stavolta qualcosa non funziona nell’alchimia: i protagonisti sembrano recitare indipendentemente gli uni dagli altri, l’aspetto metaforico e sociologico non riesce ad emergere, la critica è rimasta tiepida, il pubblico pure.
DAZEROADIECI: 7
MAURO CARON
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