Se notoriamente il cinema è nato ispirandosi al preesistente teatro (recitazione, scenografie, storie, ecc.), oggi sempre
più spesso succede che sia il teatro a rubare temi, personaggi e storie dal cinema.
Nel corso dell’ultimo mese (tra gennaio e febbraio 2008) ho visto a teatro almeno tre spettacoli in cui le due forme di
rappresentazione si intrecciano in diversi modi.
Il primo è
Protocole de re’ves, visto al Teatro Arcimboldi di Milano. In quest’occasione si può ben affermare che il
cinema era presente in carne ed ossa sul palcoscenico. Lo spettacolo è infatti un
recital tenuto da Hanna Schygulla,
l’indimenticata musa del cinema di Rainer Werner Fassbinder (con il quale ha girato oltre venti film), e, per meritevole
estensione, di quello che negli anni ’70 si definì – a ragione – il Nuovo cinema tedesco, approdata poi anche su set
italiani, grazie a Marco Ferreri, o francesi con Jean-Luc Godard. Recentemente è ricomparsa sugli schermi in
Ai confini
del paradiso, del regista turco-tedesco Fatih Akin.
Il recital della Schygulla, che canta in francese (con sopratitoli in italiano), è una sorta di lunga autoanalisi dal punto
esistenziale, cinematografico, politico. La Schygulla vi figura di volta in volta come figlia, come amante, come attrice,
come militante, come donna a tutto tondo; ma al centro del racconto autobiografico giganteggia la figura di Fassbinder, una
presenza che senza dubbio ha marcato indelebilmente la vita di Hanna sotto tutti i punti di vista. Il geniale e rimpianto
regista è presente nel film anche con alcune sue immagini, delle sequenze che hanno sempre per oggetto del desiderio
cinematografico – e non solo – la giovane attrice. Provini, sequenze inedite, spezzoni per film da girare e mai portati a
termine. Il progetto sulla carta era senza dubbio intrigante, ed è effettivamente estremamente coraggioso nel mettere a
nudo l’identità e l’intimità della protagonista; ma la somma dei diversi elementi dello spettacolo dà un risultato a mio
parere largamente al di sotto delle aspettative. La Schygulla si impegna, sicuramente ha studiato, ma non è una cantante;
l’accompagnamento esclusivamente pianistico finisce per conferire una certa monotonia alla sequenza delle canzoni, la
ricerca di atmosfere raffinate sembra un po’ fine a sé stessa e le stesse immagini, di qualità diciamo amatoriale, non
aggiungono e non spiegano nulla più di quanto già non sapessimo sull’attrice o sul regista. Il grande palco degli
Arcimboldi obbliga poi in una dimensione grandiosa ed enfatica uno spettacolo al quale avrebbero probabilmente maggiormente
giovato intimità e un’atmosfera raccolta.
Diversa è la chiave adottata in
Marilyn, visto al Teatro Verdi di Milano. Lucilla Giagnoni (che ha scritto lo
spettacolo insieme a Michela Marelli che ne ha curato anche la regia) impersona, con spigliatezza, coraggio e anche una
buona dose di autoironia il
sex symbol più potente e famoso dell’immaginario collettivo. Due attrici allo specchio:
una scomparsa ed entrata nella memoria del secolo, l’altra sul palcoscenico – arredato in maniera essenziale con luci ad
effetto e con una sexy-poltrona ovviamente rosso fuoco, come un cuore o come labbra, - a vestirne i panni e a rievocarne la
vita infelice e difficile, ma anche l’insondabile mistero del
sex appeal che ne ha fatto un’indiscutibile e
indistruttibile icona del ‘900. La prova della Giagnoni, che senz’altro non è all’altezza delle attrattive fisiche del
personaggio (e come potrebbe?) è convincente, e il monologo non annoia, benché non aggiunga molto di nuovo a quanto già
sapevamo sulla breve vita infelice di Norma Jeane Mortenson.
Altra chiave ancora, decisamente più originale, in
Roma ore 11, in cartellone al Teatro dell’Elfo di Milano. Il
testo dello spettacolo è tratto dall’inchiesta di tipo giornalistico che Elio Petri, futuro regista di capolavori del
cinema italiano come
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto o
La classe operaia va in
paradiso, condusse per conto del regista Giuseppe De Santis sull’incidente realmente occorso che fornì lo spunto per
il film omonimo, girato nel 1952 nel clima del tardo neorealismo. L’anno precedente, 200 ragazze presentatesi per un
colloquio per un unico posto di lavoro precipitarono nel crollo della scala di condominio sulla quale si erano accalcate.
Una morì, decine di altre rimasero più o meno gravemente ferite. Petri cercò e intervistò molte di queste ragazze; dalla
sua inchiesta emerge il ritratto di una metà d’Italia del dopoguerra, quella delle donne, in bilico tra tradizione e
modernità, tra casa e lavoro, tra cultura patriarcale ed emancipazione - anche forzosamente indotta dalle necessità del
periodo bellico -, tra la campagna delle regioni e la metropoli-capitale, in tumultuosa e spesso caotica crescita; ma
anche tra la dura realtà di tutti i giorni e il sogno dorato del cinema che la presenza del giornalista fa balenare davanti
agli occhi. Le quattro attrici – e registe di se stesse, riunite nella compagnia Mitipretese (il nome è ispirato ad uno
dei requisiti essenziali richiesti alle aspiranti dattilografe attirate da un annuncio) - protagoniste dello spettacolo
riesumano l’inchiesta e si moltiplicano in una moltitudine di ruoli, intervistatore e intervistate: piccolo-borghesi e
proletarie, entusiaste e rassegnate; tutte comunque inviperite per aver dovuto pagare perfino le spese dell’ospedale per
le cure avute in seguito all’incidente - ma anche un coro di portinai e portinaie, sorelle e mariti, zie e bimbette. Sono
tutte molto brave, e l’utilizzo delle canzoni popolari durante lo spettacolo oltre a restituire l’ambientazione d’epoca
servono a rievocarne le emozioni. La scena è sommariamente composta da qualche lenzuolo bianco appeso, insieme quinte ed
evocazione del lavoro domestico; nello spettacolo non si vedono le immagini del film, bensì quelle dei cinegiornali
dell’epoca, ambientati tra i quartieri della Roma borghese e le baraccopoli delle periferie, vere e proprie
favelas
dell’Italia d’allora. Sia nel prologo che nel corso dello spettacolo, non manca la sorpresa di vedere rievocati problemi
ancora vivi e di stretta attualità: la discriminazione nei confronti delle donne nel mondo del lavoro, il
mobbing
sessuale, ma ancor più la reincarnazione nei nostri tempi di forme di lavoro temporanee, precarie e ricattatorie. Uno
spettacolo riuscito e piacevole, che diverte, emoziona e offre utili spunti di riflessione.