Nel mese di marzo si è tenuta a Milano la 17° edizione del Festival del cinema africano, d’Asia e America latina. Il Festival promosso dal Coe – Centro orientamento educativo – e sostenuto da svariati enti è nato anni fa da pionieristiche rassegne milanesi dedicate al cinema africano, e negli ultimi anni ha allargato i propri orizzonti fino a comprendere sostanzialmente tutto il cinema che si potrebbe definire non occidentale.
In una prospettiva tutto sommato provincialistica (anche nel senso di provincia di un impero dell’immaginario
hollywoodcentrico) com’è quella italiana e milanese, il Festival rappresenta una ghiottissima possibilità di gettare uno
sguardo sul mondo – inteso come realtà geografica, politica, sociale, antropologica – che generalmente sfugge alla nostra
conoscenza e su un “altro cinema” praticamente invisibile sui nostri schermi.
Decine i film presenti, sparsi in diverse sezioni tra cui alcune in concorso (lungometraggi, cortometraggi africani,
documentari, documentari africani) e altre no (panoramica sul cinema africano, fuori concorso, cinema arabo), retrospettive
(dedicata quest’anno al grande regista burkinabè Idrissa Ouedraogo) e programmi speciali (documentari italiani
sull’immigrazione, il terrorismo visto attraverso il cinema arabo).
Come negli anni precedenti, ho cercato di seguire una parte del festival, privilegiando l’ambito
fiction, e vorrei
qui tentare di elencare una cinquina di motivi per cui secondo me vale la pena di seguire questo festival poco conosciuto e
tanto significativo.
Innanzitutto, direi che c’è una motivazione
EPISTEMOLOGICA. Il Festival è una vera e propria occasione di entrare in
contatto con realtà che altrimenti difficilmente potremmo conoscere. Sia attraverso il documentario, che ha sempre
un’esplicita finalità didascalico-didattica, ma anche attraverso il film di finzione, dove la forma-racconto offre uno
spaccato di vita quotidiana su realtà insolite e da prospettive spesso inedite, lontane tanto dal filtro in qualche misura
spersonalizzante del documentario, che, eventualmente e ancor più, dal
reportage turistico.
Si veda ad esempio in
Crossing the Dust la mutata prospettiva – quasi una soggettiva dei protagonisti - in cui ci si
trova a guardare le strade di Baghdad dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, un luogo e un momento che ci sembra –
illusoriamente - di aver visto e conosciuto da tutte le angolazioni, fino alla saturazione.
Un’altra funzione potrebbe essere definita
ANTROPOLOGICA. Il cinema diventa un mezzo di
conoscenza del
diverso e nello stesso tempo uno strumento di
attenuazione della diversità. Entrare in contatto con realtà umane
lontane e diverse dal nostro modo di vita ci permette di capire che in fondo l’umanità possiede in tutti i luoghi del globo
- al di là delle differenze di climi, di mentalità, di costumi, di status economico, di religione e così via - le stesse
speranze, gli stessi bisogni, gli stessi desideri, le stesse paure. Forse dopo aver visto alcuni dei film del festival ci
è possibile guardare i nostri vicini, magari con il colore della pelle un po’ diverso dalla nostra, con minore diffidenza
e pregiudizio.
Si veda ad esempio come
Batad, un godibile film ambientato nelle Filippine d’oggi, potrebbe indurci a qualche
riflessione sul valore e i pericoli degli status symbol, che finiscono per rendere schiavi della propria immagine chi li
possiede: nel film si tratta di un paio di scarpe – per chi non ne ha mai possedute -, per noi potrebbe trattarsi di abiti,
telefonini, automobili…
Quindi una funzione
CINEMATOGRAFICA. E’ un pregiudizio sbagliato, e facilmente smentibile, quello di credere che i
film prodotti nei vari Sud del mondo siano prodotti rozzi, dalla forma cinematografica approssimativa, penalizzati magari
dalla mancanza di mezzi e risorse. Si tratta invece di un cinema che spesso, a dispetto di
budget forzatamente
contenuti - è inaspettatamente maturo dal punto di vista contenutistico e formale, spesso ben recitato, ben fotografato e
ben diretto (a volte con l’ausilio di tecnici o di post-produzioni occidentali); la tecnologia digitale, laddove “abbassa”
la qualità visiva dei film (e peraltro adottata anche da grandi autori occidentali: vedi ad esempio David Lynch con il suo
ultimo
INLAND EMPIRE), permette d’altra parte grazie alla sua relativa economicità una maggior produzione e quindi
una maggior varietà e un maggior numero di occasioni di espressione.
Penso che chiunque potesse avere la fortuna di vedere lo splendido brasiliano
Proibido proibir non penserebbe neppure
per un attimo di trovarsi di fronte ad un film girato con mezzi ridottissimi, grazie anche al lavoro volontario.
Inoltre una funzione propriamente
ESTETICA. Quello del resto del mondo è non solo cinema di buon livello qualitativo
(a giudicare dagli esiti delle ultime edizioni del festival sarei tentato di dire mediamente più interessante del cinema
che passa normalmente sui nostri schermi), ma anche un cinema “diverso”. Volti nuovi, ma anche forme nuove e diverse del
racconto, meno stereotipate e prevedibili di quelle cui ci hanno abituato il cinema hollywoodiano o americano o italiano o
europeo. Lo stile appare generalmente, senza essere per questo ingenuo, più diretto, più “naturale”, meno gravato da
stilemi e sclerotizzato come accade spesso al nostro cinema.
Sarebbe bello imparare qualcosa dalla lezione estetica e morale del bellissimo messicano
El violin, che riesce a
raggiungere una tensione altissima con ritmi pacati e lenti, e dalla recitazione dell’anziano protagonista, tutta in
sottrazione eppure di un’umanità eccezionale.
Infine una motivazione
LUDICA. E’ un altro pregiudizio (alimentato da quei “film da festival” che riescono ad
approdare sui nostri schermi, generalmente dal lontano Oriente, grazie a qualche premio nelle grandi manifestazioni
internazionali) quello che vuole queste cinematografie dedite a film lenti, solenni, noiosi, laconici, tristi. Quello che
si vede passare al festival milanese è cinema fresco, vitale, coinvolgente, umanistico, il più delle volte godibile e non
di rado francamente divertente (pur facendo spesso discorsi molto seri).
E’ il caso anche di molti cortometraggi africani, da
Djap Djap a
Menged o a
Andrè.
Per chi volesse farsi un’idea di cosa c’era dentro il festival di quest’anno, fornisco una panoramica a volo d’uccello sui
film che ho avuto tempo e modo di vedere. Si tratta in ogni caso di cinema di
fiction, proveniente dalle varie
sezioni del festival (la maggior parte dal concorso): li ripartisco solo tra lungo e cortometraggi.
LUNGOMETRAGGI
La tendresse du loup è un lungometraggio che dipinge una Tunisia urbana cupa e depressa. La storia si svolge tutta in
una notte: quattro balordi accantonati dalla società stuprano per strada una ragazza che fa la squillo d’alto bordo e
l’episodio scatena una catena di violenze dove anche gli innocenti pagano il loro prezzo e faticano a rimanere tali. La
concatenazione degli eventi è serrata e drammatica; poi il ritmo del film si allarga e rallenta nel suggerire la possibilità
di un contatto umano reale e non basato sulla violenza, ma la luce del nuovo giorno dissiperà ogni illusione.
Il film ha una buona tenuta drammatica e soprattutto nella prima parte ha buone idee (la sequenza del trasporto all’ospedale
del protagonista attraverso la città, prima su un carretto per il trasporto dell’immondizia e poi su un lentissimo carro a
cavallo che trasporta verdura) e rime interne (la doccia di ciascuno dei protagonisti dopo la violenza subita, il
personaggio che rompe una bottiglia per strada e più tardi si ferirà ad un piede con una scheggia di vetro); la macchina di
presa è innamorata della bella protagonista, ma l’
handicap principale del film sta forse nella sostanziale
inespressività del personaggio maschile principale.
Batad è un lungometraggio filippino, ambientato nella località del titolo, inserita nelle liste del patrimonio
dell’umanità dell’Unesco (ma dichiarato in pericolo nel 2001) per le risaie coltivate con i metodi tradizionali sul
versante delle montagne e per la conservazione dell’antica culturale orale. La storia è degna del neorealismo italiano, ma
ambientata ad una sessantina d’anni di distanza verso la contemporaneità: lo sguardo è quello di Ag-ap, adolescente e
bravissimo ragazzo che si dà da fare per aiutare la famiglia, che vive in una dignitosa ristrettezza di mezzi, che
concepisce un suo sogno: possedere un paio di scarpe (che non ha mai avuto in vita sua), come quelle che vede ai piedi dei
turisti che si recano a Batad per effettuare
trekking tra le montagne. L’acquisto è perennemente rimandato a favore
delle esigenze famigliari più impellenti (il ragazzo si improvvisa anche guida e poi attrazione turistica), ma quando i
suoi sforzi alla fine vengono premiati, alla felicità iniziale subentra lo scontento: le scarpe diventano ben presto uno
status symbol, un feticcio che esige un culto che lo allontana tanto dalla vita tradizionale che dalle relazioni con
gli altri. La lotta tra l’esigenza di conservazione della vita tradizionale, sentita come più pura ed autentica, e la
voglia di modernità, con i suoi bisogni indotti e falsi, si risolve a favore della prima al termine di una vicenda narrata
con uno stile piano ma fresco e accattivante, ricco di momenti di umorismo.
El violin ci trasporta in un Mexico in bianco e nero, dalle tonalità contrastate, dove impera la violenza poliziesca
e dove i contadini sono costretti ad organizzarsi in gruppi armati per opporsi alle angherie governative. I protagonisti
sono tre maschi appartenenti a tre diverse generazioni, figlio, padre e nonno (gli altri componenti della famiglia sono
stati trucidati dai soldati), ma quest’ultimo conquista adagio adagio lo statuto di protagonista assoluto, grazie anche
alla mirabile interpretazione dell’attore che lo impersona. Vecchio violinista, dapprima sulle tracce della figlia ormai
morta, poi impegnato a recuperare di nascosto armi e munizioni da un terreno controllato dall’esercito, sembra riuscire ad
un certo punto un rapporto umano con il comandante della guarnigione, affascinato dalla sua musica. E’ un’illusione, e la
violenza riprende il suo corso. Il film è intenso, e riesce a creare una forte tensione drammatica malgrado o grazie ad un
ritmo narrativo pacato e senza facili
escamotages melodrammatici (semmai pesa qualche schematismo didascalico nel
ritratto del padre e del suo gruppo guerrigliero). Il finale è da brividi. Un film eccellente.
What A Wonderful World è firmato da Faouzi Bensaïdi, già autore di
Mille mesi, film premiato e uscito
brevemente anche sugli schermi italiani, e coautore di Loin con il francese Téchiné. Rispetto al tono realistico del film
precedente,
WWW ha ambizioni da film d’autore, che finiscono però per schiacciare la credibilità e l’autenticità
della storia. Che è raccontata in maniera molto laconica, con l’evidente ambizione di affidasi alla forza delle immagini –
un killer solitario si innamora di una donna-poliziotto: e i due sono destinati a inseguirsi per tutta la durata in un
labirinto amoroso senza uscita -; Bensaïdi ha visto evidentemente molto cinema europeo e asiatico, ma ne abbiamo visto
abbastanza anche noi da non sentire il bisogno di un ricalco in salsa marocchina.
Africa Paradis si basa su un’idea geniale: il mondo si è capovolto, l’Europa si è avvitata in una crisi
economica-finanziaria-sociale senza scampo mentre l’Africa è progredita e ora rappresenta il paradiso per i molti europei
che cercano di raggiungerla, anche clandestinamente, in cerca di fortuna, di lavoro e di benessere, scontrandosi con misure
burocratiche e poliziesche di chi, ricco e tranquillo, non gradisce l’arrivo degli extrafricani, poveri e disoccupati. Ma,
gettate le fondamenta surreali della storia, il film ivoriano non riserva altre sorprese, istradandosi ben presto su un
percorso narrativo ultratradizionale, con nodi dramamturgici elementari, messa in scena
naif e caratteri
convenzionali. Un’occasione decisamente sprecata.
Altrettanto non si può dire di
Proibido proibir, splendido film brasiliano che racconta l’amicizia tra un gruppetto
di studenti universitari di Rio de Janeiro. La storia sembra limitarsi a raccontare le storie dei giovani, tra libri e
amori, birre e spinelli, camere ammobiliate, aule universitarie e spiagge, quando la storia piano piano comincia a deviare
verso un dramma che ci porta tra le
favelas, a contatto con la povertà, la piccola criminalità e le violenze dei
poliziotti, che anziché difendere l’ordine e la giustizia si mettono al soldo dei commercianti per eliminare i commercianti
abusivi più intraprendenti. Lo spettatore e i protagonisti sono coinvolti lentamente ma inesorabilmente in un processo di
presa di coscienza e di assunzione di responsabilità. Gli interpreti sono ottimi, la tensione narrativa è splendida, la
credibilità eccellente, l’afflato politico-morale encomiabile. Un film che sarebbe molto bello far vedere in Italia, magari
ai coetanei dei personaggi del film.
Making Of è un discorso sul terrorismo islamico fatto da un regista tunisino (l’esperto Nouri Bouzid) che per esso e
per i suoi fautori non ha la minima simpatia; ma, come dice il titolo stesso, è anche un film sul cinema, che mostra il
rapporto conflittuale che si viene a creare tra un regista che gira un film sul terrorismo e il suo ignaro interprete
principale, che nel corso delle riprese deve trasformarsi da ballerino
hip-hop a
kamikaze, e che si vede
coinvolgere in una storia più grande di lui e delle sue capacità di giudizio. L’esperimento è interessante, il discorso è
chiaro; un po’ meno il risultato cinematografico che rimane un po’ ibrido, e che soffre dell’interpretazione di un
protagonista assoluto non sempre all’altezza.
Crossing the Dust è un film curdo-iracheno, che descrive la confusione seguita alla caduta del regime di Saddam
Hussein. Lo sviluppo narrativo è abbastanza semplice (due
pashmerga curdi trovano un bambino disperso e se lo
portano dietro in una Baghdad sconvolta dagli eventi) e quello che più interessa nel film è la descrizione di un momento
storico, che sta condizionando da anni le vicende mondiali, che sembra fatta in presa diretta e sui luoghi reali degli
avvenimenti.
Daratt, già presentato e premiato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2006, sta per arrivare dal Ciad sui nostri
schermi. In un Paese africano appena liberato dalla dittatura si fronteggiano un ex-miliziano del regime, ora fornaio, e
un giovane venuto dal deserto armato di pistola per vendicare la morte del padre. Il giovane esita, il vecchio lo assume
come garzone, e la vita a stretto contatto, il lavoro comune, l’intimità procurerà ad entrambi più di una sorpresa.
L’ex-aguzzino è menomato da una ferita alla gola, è sposato con una donna giovane che aspetta un figlio da lui, lavora con
le proprie mani e fa carità ai bambini poveri: riuscirà il giovane a portare a termine la propria vendetta o rinuncerà? Il
film non offre facili soluzioni e propone una narrazione asciutta, scabra, basata sull’essenziale e insieme ricca di
umanità e di
pathos.
Kato Kato fa parte dell’omaggio ad uno dei più grandi registi africani, il burkinabè Ouedraogo, autore di numerosi
capolavori del cinema di questo continente. Girata in video, questa non è certo la sua prova migliore. Il film ha evidenti
intenti edificanti-didascalici, ma la narrazione e i caratteri sono troppo semplicistici, lo stile piattamente televisivo
(e non mi riferisco certo alla
fiction televisiva più contemporanea), la morale della storia banale e buonista.
Indigenes, che ha visto premiato tutto il gruppo di interpreti maschili al Festival di Cannes dell’anno scorso, è al
contrario una super-produzione (in termini africani), un
kolossal bellico che racconta la partecipazione di soldati
africani, all’interno dell’esercito francese, al Secondo conflitto mondiale. Il film è stato apprezzato dal pubblico, ma
grazie probabilmente alle caratteristiche che lo rendono più accattivante e gradevole al palato occidentale, che può
riconoscervi gli stilemi del film di guerra e di pattuglia, il delinearsi dei vari caratteri, il finale con i nostri che si
battono contro forze soverchianti. In particolare, tutta la parte finale sembra prelevata di peso da
Salvate il soldato
Ryan: e se ciò gratifica dal punto di vista spettacolare non è altrettanto apprezzabile dal punto di vista
dell’originalità. Ben più interessante il sottotesto politico, che mostra come le truppe africane fossero considerate
razzisticamente di serie B sia durante che dopo il conflitto; sembra impossibile, ma ci viene detto che alcuni dei reduci
sopravissuti non hanno ancora avuto riconosciuto dalla magnanima Francia il diritto alla pensione di guerra.
CORTOMETRAGGI AFRICANI
L’albero degli spiriti è un film d’animazione digitale in 3D, della durata di circa mezz’ora, realizzato da Cilia
Sawadogo. La regista viene dal Burkina Faso ma vive e lavora da anni in Quebec, dove ha realizzato questo film in
collaborazione con alcuni studenti canadesi e con Gaston Kaborè, uno dei rinnovatori del cinema africano. La tecnica
digitale si sposa qui con una storia dai sapori tradizionali, ambientata nel cuore della savana africana e, per buona
parte, all’interno di un
baobab, l’albero appunto del titolo. Se è sorprendente l’utilizzo di una tecnica così
“contemporanea” per un immaginario così profondamente africano, lo sarà meno scoprire che in questo caso i cattivi sono il
demone della siccità, ma soprattutto il padrone dell’acqua, un capitalista senza scrupoli che vende a caro prezzo la poca
acqua disponibile. La morale è limpida: il ragazzo veggente non potrebbe nulla se non fosse aiutato da uno spiritello
femminile a raggiungere nel cuore del baobab gli spiriti degli antenati e lo spirito della pioggia, che lo aiuteranno a
loro volta; ma nulla tutti questi potrebbero se non fossero aiutati dalla sorella più giovane del ragazzo che nulla
potrebbe se non fosse aiutata da una scimmietta dispettosa… La qualità visiva del film (vista anche la limitatezza del
budget a disposizione) assomiglia, più che ai sofisticati prodotti di Pixar e simili, a quella dei videogame; il
disegno e l’animazione sono gradevoli, il ritmo c’è e la storia si segue volentieri; la tavolozza cromatica è forse un po’
cupa.
Casa è un corto marocchino su un giovane che lascia di nascosto la famiglia per recarsi a Casablanca in cerca di
lavoro (la descrizione del viaggio ha belle annotazioni), ma una volta in città viene immediatamente derubato;
Djay
Diap è un
divertissement senegalese di pochi minuti, in cui viene descritta una partita a carte all’aperto in
cui i perdenti rimangono letteralmente in mutande; la narrazione è tutta giocata sul ritmo: tamburi, parlato
(incomprensibile) a velocità accelerata e montaggio serrato.
Andre, opera prima di due giovani cineasti sudafricani, ci mostra del Paese uno scorcio decisamente inedito: lontano
dai problemi economici, sociali, razziali, sanitari del Sudafrica, lo sguardo dei due si sofferma a tratteggiare il
ritratto del protagonista, un giovane bianco ed effeminato che vorrebbe fare il modello. Il film è molto tenero e
divertente, l’attore protagonista (uno dei due registi) è perfetto; e la scena del provino per lo
spot
pubblicitario all’inizio del film è da antologia.
L’etiope
Menged ha ricevuto diversi premi (di cui uno proprio al
festival milanese) ed è un divertente
apologo con protagonisti un padre con un bambino e il loro asino, in viaggio verso il mercato. Preti, commercianti,
cooperanti stranieri (la scelta è paradigmatica) danno loro consigli (sempre più strampalati) su come affrontare il
viaggio: i tre scopriranno che è meglio fare di testa propria, e come hanno sempre fatto i loro antenati.
Molto insolito e audace invece il tunisino
Ordure, su un uomo solitario che per amore raccoglie, ordina e conserva
la spazzatura della donna amata. Una metafora sgradevole ma potente, che si smarrisce però per ambizione tentando una via
noir e melodrammatica che da una parte annacqua l’idea originale e dall’altra avrebbe avuto eventualmente bisogno
di ben altro respiro narrativo.