E’ senza dubbio la più fedele trasposizione di un romanzo di Philip Dick (quello, per dire, che ha fornito al cinema gli
spunti per “Blade Runner”, “Atto di forza”, “Minority Report”): Linklater porta sullo schermo situazioni e dialoghi ripresi
fedelmente dal romanzo omonimo, che appartiene alla fase in cui la fantascienza è per Dick un debolissimo travestimento che
maschera appena storie autobiografiche di perdizione e tossicodipendenza (la stessa funzione che il fumetto ebbe per Andrea
Pazienza nell’epoca di “Pompeo”). Il film adotta un po’ la stessa strategia dickiana, travestendo appena appena attori
famosi (Reeves, la Ryder, Harrelson, Downey jr.) da cartoni animati, e lasciando che la storia parli da sé. E la fedeltà
premia: mai prima d’ora (se non in episodi apocrifi) la poetica di Dick era apparsa così limpida. Il labirinto
dell’identità (il protagonista è un poliziotto infiltrato tra un gruppo di tossici, ma la cui identità è sconosciuta ai
suoi stessi superiori, così da avere tre identità e tre nomi), la manipolazione della volontà umana da parte di forze
soverchianti (in questo caso non solo la droga ma la stessa polizia e l’organizzazione che produce e spaccia la droga -
sotto le mentite spoglie di una società statale per il recupero dei tossicodipendenti -, che si contendono la sua identità),
il senso dell’impotenza umana, la solitudine dell’uomo e il senso dell’amicizia e della solidarietà sono i temi che
emergono da questo strano
cartoon i cui personaggi cazzeggiano in attesa della morte, in preda a paranoie a volte
ridicole a volte tragiche. L’elenco finale, in cui Dick rende omaggio agli amici distrutti dalla droga, tra i quali se
stesso, è da brividi.
DAZEROADIECI: 8
MAURO CARON