FuoriSchermo ha voluto addentrarsi nello stupefacente mondo del cinema d'animazione. Abbiamo tracciato, insieme alla
collaborazione di Martina (laureanda in cinema d'animazione presso l'Università degli Studi di Milano) un piccolo profilo
generazionale prendendo in considerazione gli ultimi esempi di cartoni animati e qualche nozione storica.
Da qualche anno
siamo a tutti gli effetti nell'epoca "digit-animata".
I più recenti film d’animazione hanno in comune il fatto di essere stati realizzati al computer grazie ad appositi software.
Molte case cinematografiche, come la
Disney, la
Dreamworks e la
Twenty Century Fox, hanno infatti puntato sulle nuove
tecnologie per portare qualcosa di nuovo nelle loro produzioni. Il fenomeno a cui si è assistito in questi ultimi anni è
stato il progressivo uso del digitale, cioè di immagini in sintesi create al computer, non più solo per gli effetti speciali,
ma come tecnologia autonoma. Il processo che ha portato i film della
Disney/Pixar e delle altre major a battere per incassi
e popolarità i cartoni animati tradizionali è stato lungo e ci sono voluti anni e anni di sperimentazioni e perfezionamenti
per raggiungere gli attuali risultati.
La storia della Computer Animation o Animazione Digitale nasce già nel 1950 con la messa a punto dei primi sistemi come il
CAM (computer-aided manifacture) e poi il CAD (computer-aided design) creati per il disegno tecnico. Nel 1962 Ivan
Sutherland creò lo Sketchpad, un programma lento e complesso, che permetteva di creare disegni bidimensionali lineari e
monocromatici. A metà egli anni ’60 venne introdotta la penna ottica, basata su un sistema grafico vettoriale, dove i segni
tracciati su una tavoletta venivano visualizzati sul display. Negli anni ’70 nascono la Apple e la Microsoft (1976), ma
soprattutto la Industrial Light & Magic di George Lucas la cui divisione di computer animation prende presto il nome di
Pixar (1980).
Star Wars ('77) è stato il primo film con effetti speciali digitali. Nel 1981 escono i primi videogiochi
basati su semplici animazioni di immagini elettroniche bidimensionali con comportamenti interattivi: Pac Man della Namco
e SuperMario della Nintendo.
Negli anni ’80 si assiste alla seconda ondata di nuovi programmi e nuove macchine che permettono di elaborare immagini in
movimento e allo stesso tempo di garantire un sempre maggior realismo. John Lasseter è l’autore dei primi cortometraggi
della Pixar interamente digitali: “Andrè e Wally B” (’84), “Luxo Jr.” (’86), Red’s Dream” (’87), “Tin Toy” (’88) e “Knick
Knack” (’89). Questi vengono spesso proiettati al cinema prima dei lungometraggi della Pixar e sono comunque disponibili
gratuitamente sul suo sito ufficiale. Si dedicano al digitale con buoni risultati anche altri studios come la Dreamworks di
Steven Spielberg, la Digital Domain di James Cameron e la Softimage di Daniel Langlois.
Negli anni ’90 all’attenzione per il realismo si è affiancata la cura per le modalità narrative, per la drammaturgia e per
il montaggio, che ha permesso di fare un salto di qualità. Oggi programmi come Computer Grafica o CGI Computer Generated
Imaginery) permettono di creare immagini animate bidimensionali o tridimensionali costituite da migliaia di pixel che
variano per colore e luminosità. La computer Animation viene usata in molti settori: spot pubblicitari, sequenze per film
ad effetti speciali, grafica per il web e videogiochi. Ma è nel campo dei lungometraggi animati che la nuova tecnologia ha
dato il meglio di sé, dimostrando come le immagini digitali possano trasmettere le stesse emozioni di un film dal vero o di
un cartone animato tradizionale. Due esempi significativi di questo nuovo modo di fare e di pensare il cinema d’animazione
sono
“Gli Incredibili. Una normale famiglia di Supereroi” diretto da Brad Bird e prodotto della Pixar e
“Shrek 2” di Andrew
Adamson della Dreamworks. Il primo, uscito nella sale italiane a fine novembre 2004, è il primo film digitale della Pixar
che porta sullo schermo personaggi umani dalla sorprendente espressività. La “normale famiglia di Supereroi” sono i Parr.
Bob, il padre, ha un lavoro frustrante, che lo costringe ad una vita da pendolare rinchiuso nella sua piccola utilitaria.
Sua moglie Helen fa la casalinga e il suo lavoro è tirar su i loro tre figli: il piccolo Jack Jack, l’irrequieto Dash e la
timida Violetta. Ma sotto le mentite spoglie di una normale famiglia i Parr nascondono poteri da supereroi. Il secondo
invece è l’eccezione alla regola secondo cui il sequel di un film sia sempre inferiore all’originale. I protagonisti sono
sempre Shrek, Fiona e Ciuchino a cui si aggiunge il Gatto con gli Stivali. Ma ciò che stupisce di più, se confrontato con
il primo, è la grafica, sempre più realistica, e la presenza di effetti speciali che solo qualche anno fa erano impensabili.
Anche
“Polar Express”, l’ultimo film di Robert Zemeckis, sfrutta le potenzialità delle nuove tecnologie. Il regista di
“Chi
ha incastrato Roger Rabbit” e di
“Forrest Gump” ha realizzato l’intero film con la tecnica della Motion Capture o
Performance Capture. Questo avanzatissimo sistema prevede che l’attore indossi una tuta di Lycra a cui sono applicati dei
sensori che trasmettono il movimento ad un computer. In questo modo i movimenti virtuali risultano più fluidi e naturali,
soprattutto quelli del viso che sono stati determinati da ben 156 sensori. Per applicarli tutti sul volto di Tom Hanks,
che interpreta cinque diversi personaggi, ci volevano ogni volta due ore. La stessa tecnica è stata usata dall’attore Andy
Serkis per interpretare il ruolo di Gollum nella trilogia
“Il Signore degli Anelli” di Peter Jackson. Anche se non rientra
nel campo della Computer Animation è comunque significativo dell’utilizzo sempre più massiccio delle nuove tecnologie nel
cinema.
In conclusione una piccola considerazione. L’animazione digitale sta portando una ventata nuova nel el settore
dell’animazione, soprattutto ora che è stata eliminata quella freddezza tipica degli esordi.
Guardando i film di Sylvain Chomet, di Michel Ocelot e di tanti altri animatori, magari meno famosi di quelli della Pixar,
mi sono convinta però che, come dice il critico Federico Gironi,
«la differenza non risiede solo nell’utilizzare il
computer o la matita, ma è fondamentalmente in come si usa il cervello».