Finalmente in sala Zodiac, l’ultimo film di uno dei nostri registi preferiti, quello che forse ha insegnato alla nostra
generazione, insieme al Jonathan Demme de
Il silenzio degli innocenti, che al cinema possiamo veramente avere paura,
e per qualche settimana successiva anche a casa nostra quando restiamo da soli al buio. Dobbiamo questo e molto altro al
regista californiano, gli dobbiamo la Propaganda Films, l’estetica ultrarapida e al contempo super raffinata di cui lui è
maestro, mossi dal desiderio di ritrovare nel suo ultimo lavoro ciò che ci ha regalato in passato, non possiamo che
assecondare due tremendi impulsi. Il primo è quello di delineare subito le caratteristiche della sua poetica, per poi
poterci beare del fatto che gli elementi fondanti li abbiamo finalmente ritrovati. Il secondo è la speranza di provare
ancora una volta quel puro, incontaminato e assolutamente cinefilo terrore di incontrare il suo prossimo serial killer e
sperare che non sia il losco figuro seduto affianco a noi con un quintale di popcorn in mano. Con
Zodiac colmiamo
vagamente il primo proposito e resta totalmente disatteso il secondo: ci troviamo di fronte a un prodotto totalmente
inaspettato, diverso, che da un lato dimostra a quali magistrali livelli Fincher sia arrivato grazie alla sua lucida
follia, e da un altro ci avverte che il thriller psicologico dei nostri tempi è finito nel 1995 e, se vogliamo, possiamo
appassionarci a qualcos’altro.
La presenza di una certa dose di fondamentalismo religioso fu segnalata dalla maggior parte della critica sin dall’esordio
del regista con
Alien 3, che valse al regista la definizione di “messianico e millenarista”. Più avanti Fincher, che
tra l’altro non si attribuisce la totale paternità del suo primo film, passa ad occuparsi di etica e di morale individuale
in quanto argomenti di un repertorio più vasto, che riguarda principalmente la condizione di smarrimento interiore
dell’individuo nella società contemporanea (portata al culmine nei successivi
The Game e
Fight Club). E’
sintomatico come, alle soglie del nuovo millennio, un cineasta che abbia utilizzato il genere horror per raccontare la
disgregazione psicologica, emotiva e sociale, sia stato etichettato come regista-predicatore. L’aver snobbato i corollari
postmodernisti del citazionismo, del pastiche, della messinscena della violenza gratuita, manifestando all’opposto
interesse per i disastrosi esiti di una modernità scandita sui ritmi e le regole del capitalismo avanzato, ha fatto della
sua poetica un anacronismo rispetto al disimpegno dell’horror di fine secolo. Soltanto il suo nome si è imposto in quanto
cantore dell’alienazione dell’individuo, della decomposizione e della putrescenza degli scenari urbani in un decennio
cinematografico che non è certamente quello dell’horror. In parte, l’atmosfera iniziale ci catapulta quasi immediatamente
nel suo universo di killer efferati (e freddi, ed è questa una delle cifre stilistiche dominanti nel regista) e di
individui soli, emarginati, relegati al loro universo interiore e ciascuno con le loro difficoltà di interazione. Dopo due
ore e mezza di film non abbiamo alcun dubbio che l’argomento principale non sia affatto lo sbroglio di una torbida psiche
malata, con conseguente risoluzione del caso.
Zodiac è invece il ritratto di quell’umanità disperata, come sempre
quasi assolutamente maschile, incarnato in alcune personalità dipinte nella maniera mai stereotipa e maniacalmente precisa
di Fincher. Paul Avery (Robert Downey Jr) è un giornalista di cronaca nera tanto tossico e autodistruttivo quanto arguto e
ambizioso, che insegue le tracce dell’assassino e la propria affermazione personale. Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal) ne
è il satellite marginale, timido e modesto vignettista che ricerca nel “suo” Zodiac il minimo riconoscimento intellettivo
e sociale. William Armstrong (Anthony Edwards) è l’ispettore stanco e nauseato dalla propria reperibilità e cedevole
disponibilità, che si dissocia dal caso per riprendere in tempo le redini della propria esistenza. David Toschi (Mark
Ruffalo) è invece l’irreprensibile poliziotto, intelligente ma non paranoico, dedito ma non ossessivo, unico vero collante
tra le due indagini. La prima, e fallimentare, è quella condotta dal dipartimento di polizia, la seconda è quella personale
che Graysmith porta avanti sacrificando la sua vita privata e il rapporto con la sua famiglia, nella più classica
tradizione narrativa dell’elemento “a parte” che invece si rivela risolutivo laddove il gruppo ha fallito. Come in Seven,
ma come in tutta la letteratura noir e poliziesca, non esiste il ladro senza il poliziotto alle calcagna, non comprendiamo
la mente di Lupin se non attraverso gli occhi di Zenigata, bianco e nero, nemesi e mimesi. Proprio in questo
Zodiac
rivela la sua anomalia: della mente del serial killer non ci viene detto quasi nulla, nessuna motivazione, nessuna
capillare analisi delle sue modalità operative, nessuna indagine a ritroso che ci accompagna nel suo orrido covo. Arthur
Leigh Allen (John Carrol Lynch) è un boldo pedofilo da scuola elementare, dalla personalità insignificante, nulla delle sue
sciocche lettere ci affascina, men che meno il banalissimo riferimento da cui trae il suo nome e il suo simbolo (una marca
di orologi). Viene spontaneo arguire che l’estrema semplicità con cui è tratteggiata la sua figura sia volutamente un
esempio di quotidiano orrore, quello che può celarsi tra i banchi di una scuola elementare e ad ogni angolo della strada.
Tanto basica la figura del killer, quanto complicatissima la risoluzione del caso, che si snoda attraverso due differenti
percorsi di tipo enigmistico e cerebrale sino al limite. I percorsi della mente diventano percorsi della parola e del
dialogo, con ovvio, purtroppo, sacrificio della tensione e dell’attenzione. Paradossalmente,
Zodiac è un film in cui
il pathos ci viene negato, non si ha la possibilità di empatizzare fino in fondo con i personaggi, talmente arrovellati da
risultare ancora più oscuri dello stesso assassino: cosa vuole dirci Fincher con questa svolta così intellettuale? Che è
passato ad una lucida quanto folle analisi del mondo della stampa e del giornalismo facendosi scudo della sua fama di
regista thriller? Tecnicamente, ha superato se stesso accorciando le distanze con altri grandi registi hollywoodiani (più
di uno i possibili paralleli tra
Zodiac e
The Departed di Martin Scorsese), ma da un punto di vista tematico
è cambiato veramente molto. Il nostro sogno di ritrovarci nella mente del serial killer si interrompe, abbiamo piuttosto
compiuto un incontro ravvicinato nella mente del regista. Che continua a parlare della nostra realtà, ma stavolta con occhi
completamente diversi. Finisce la spettacolarizzazione della violenza, e inizia lo show della vita, delle diverse
professioni a confronto, dell’ansia del caporedattore di concludere il suo servizio, delle riunioni improvvise e concitate,
del poliziotto svegliato nel cuore della notte che tenta disperatamente di riuscire a dormire una notte intera insieme alla
paziente moglie. Con la consueta ironia ed il supporto di un cast che il regista riesce a far brillare, com’è accaduto con
ogni attore selezionato (si inizia con Brad Pitt per finire a Downey jr e Ruffalo forse mai così credibili e nel ruolo), il
cervellotico Fincher matura forse fino a un punto di non ritorno il suo sguardo sul genere umano, ancora più profondo e
capzioso di sempre. Il risultato è affascinante e di notevole pregio di fattura, eppure, niente brividi sulla schiena,
niente sguardi terrorizzati sott’occhio al nostro vicino di poltrona. E’ il prezzo da pagare per l’essersi spinto troppo
oltre. Ci siamo messi sulle tracce dell’assassino e abbiamo incontrato David Fincher, che si è rivelato senza risparmiarsi
ma senza riuscire a coinvolgerci da un punto di vista emozionale. Con la mente, siamo volati ancora una volta in cima ad
un grattacielo ad assistere al crollo della civiltà con i Pixies nelle orecchie, mano nella mano con la squilibrata della
nostra vita. Sperando per l’ennesima volta che il suo prossimo film sia il capolavoro definitivo.