APPUNTI VENEZIANI 2009
|
|
Venezia Epilogo
Ha vinto Lebanon il film israeliano di Samuel Maoz. Venezia 66 si conclude così, con la proclamazione del miglior film di questa Mostra che ha messo in evidenza il suo carattere sociale e politico, che ha puntato il suo sguardo sul mondo che cambia e sugli uomini, che devono fare sempre la differenza. Lebanon credo abbia vinto quasi a mani basse e per il resto è sembrata una premiazione equilibrata che ha fatto tutti contenti, compresi gli italiani. Leone d’argento per la miglior regia a Nadine Sheran con il film Women Without Men (e continuo a sostenere che Ang Lee abbia gradito molto il film), Premio Speciale della Giuria a Soul Kitchen (e tenuto conto delle atmosfere e delle musiche, direi che Ligabue può aver detto la sua), Colin Firth e Ksenia Rapporport si sono aggiudicati la Coppa Volpi (per il primo vittoria a mani basse, per la seconda un po’ di sorpresa visto che se la giocava con Sylvie Testud di Lourdes e Margherita Buy di Lo spazio bianco). Il Premio Mastroianni ad un giovane attore o attrice emergente è andato a Jasmine Trinca, protagonista di Il Grande Sogno. Magra consolazione per il cinema italiano? Può darsi, ma forse è andata già bene così. I due premi tecnici sono andati a Life During Wartime (scontatissima e meritatissima Osella alla sceneggiatura) e a Mr. Nobody (Osella alla scenografia). Il premio Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” al filippino Engkwentro di Pepe Diokno.
Nelle sezioni collaterali hanno esultato: Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli (Controcampo – menzione speciale pure al film Negli occhi il documentario di Daniele Anzellotti e Francesco Del Grosso), Engkwentro di Pepe Diokno (Orizzonti, per lui una doppietta importante), 1428 del cinese Du Haibin (Orizzonti Doc). Lourdes di Jessica Hausner si è aggiudicato il SIGNIS (Premio ecumenico). The last days of Emma Blank del regista Alex van Warmerdam e’ il film vincitore dell’Europa Cinemas Label 2009 come miglior film della sezione Giornate degli
Autori - Venice Days. Tehroun di Nader Takmil Homayoun si è aggiudicato i 5000 euro per il Miglior Film della 24. Settimana Internazionale della Critica (ma se fosse stato presentato in Concorso avrebbe dato del filo da torcere persino a Lebanon, e speriamo lo distribuiscano).
Venezia 2009: il mio pugno di voti
9 - Lebanon
9 - Soul Kitchen
8,5 - Life During Wartime:
8 - Women Without Men
8 - Lourdes
7,5 - Accident
7,5 - Persecution
7,5 - Capitalism: A Love Story
7 - Bad Liutenant: Port Of Call New Orleans
7 - My Son, My Son What Have Ye Done?
7 - 36 Punti Di Vista
7 - Lo Spazio Bianco
7 - Lola
7 - A Single Man
6,5 - The Road
6,5 - Baaria
6,5 - La Doppia Ora
6 - White Material
6 - Between Two Worlds
6 - Survival Of The Dead
5,5 - Prince Of Tears
5,5 - Il Grande Sogno
5,5 - The Traveller
5 - Mr. Nobody
Fuori Concorso
8,5 - The Informant!
8 - Scheherazade, Tell Me A Story
8 - The Man Who Stare At Goats
6,5 - Rec [2]
6,5 - South Of The Border
6,5 - The Hole
Giornate Degli Autori
7 - La Horde
6 - Desert Flower
5,5 - Barking Water
Settimana Della Critica
8,5 - Tehroun
8 - Una Soluzione Razionale
7 - Kakraki
6,5 - Good Morning Aman
Orizzonti
7,5 - Buried Secrets
6 - Adrift
|
|
Venezia 11 settembre 2009
Lo sapevo, lo sapevo e lo sapevo. Ma ci stavo quasi per scommettere, non ci credo, ma lo sapevo. Facciamo così. Mi limito a ribadire una cosa. Soul Kitchen di Fatih Akin è una divertente commedia capace di pungere al punto giusto e in grado di sollevare più questioni di tanti altri film pseudo-socio-politici. Qualcuno l’ha quasi paragonato alle commedie di Nuti, Pieraccioni e Veronesi. Io continuo a non crederci. Ma cosa centra? Lo sapevo che andava a finire così.
A proposito di finire. Gli ultimi due film della Mostra hanno un po’ deluso le mie aspettative. Soprattutto Mr. Nobody di Jaco Van Dormael, che ha avuto la pretesa, ma forse è solo presunzione, di creare un maxi puzzle sulla materia ricordo-futuro-passato-scelta tirando in ballo un repertorio infinito di film e citazioni (anche musicali) più o meno gratuite. Se il film si fosse limitato a raccontare una sola delle tante storie aperte avrebbe decisamente funzionato e divertito di più. Ecco, chi sostiene che Lebanon sia un videogame (assurdo, eppure una l’ha detto) dovrebbe magari guardarsi Mr. Nobody (davvero abile a frullare l’immagine). E poi c’è stato A single man di Tom Ford che sullo sfondo di un amore omosessuale ha messo in scena l’infelicità di un uomo (Colin Flirth) e le tappe di avvicinamento alla felicità (che coincide con la morte). Tom Ford, rispetto a Van Dormael, è coerente. Vuole quello che realizza e cioè un drammone melenso, verboso, che rinchiude i personaggi senza lasciarli respiro. Un po’ troppo di tutto questo per un film che coinvolge poco, che lancia qualche suggestione a proposito della paura di andare avanti e della paura del diverso (la storia è ambientata nel 1962 durante la questione cubana). Precedente al film di Ford c’è stata la proiezione di The Hole in 3D di Joe Dante, che mi ha divertito soprattutto per l’affetto nei confronti del regista.
Il treno è prenotato e speriamo che il posto sia ok. Devo ancora sbrigare due o tre faccende. Stasera sono a Milano. E qui domani premiano. Aspetta e spera.
|
|
Venezia 10 settembre 2009
Il mio sarà pure un commento vano, superfluo, più vicino alla polemica che alla cronaca, ma fa sorridere il fatto che proprio oggi Fatih Akin abbia presentato Soul Kitchen, esilarante commedia ambientata in un animato ristorante d’Amburgo, mentre proprio ieri Michele Placido si sfogava platealmente con i giornalisti e metteva in guardia dalle future, troppe, commedie che si faranno in Italia. Ecco, suppongo (e ci spero) che Placido si riferisse alle commedie cazzare, perché dopo aver visto Soul Kitchen ti rendi subito conto che legge meglio la società di qualsiasi grande sogno autobiografico. Suppongo che Placido sostenga le commedie intelligenti, come Soul Kitchen cariche di ritmo, musica, colori, personaggi originali e gag esilaranti, come Soul Kitchen è capace di mettere in scena. Fatih Akin ha realizzato un film sulla svendita dei valori, dei sentimenti, dei luoghi ed ha saputo mescolare amarezza e comicità in un vortice di musica soul che spinge direttamente lo spettatore verso un cinema, che almeno in Italia, non si vede (e forse l’unico film che si avvicina ad un prodotto simile è stato, con le dovute distanze, Non pensarci di Zanasi).
L’egiziano The traveller, non è andato come speravo, anche se è stata una visione bizzarra e curiosa, impreziosita dalla presenza nell’ultimo atto di Omar Sharif. Ecco Omar Sharif oggi teneva a precisare che si considera una persona che non guarda indietro nel tempo, cioè che non sta tanto a rimuginare sul passato, che non si fa prendere dalla nostalgia e che non continua a dirsi quanto era bello un tempo. Lui vive ogni volta un’esperienza nuova. Non ce l’ho con Placido ma ascoltando Sharif sembrava di assistere alla versione opposta del film di Placido. Stranezze.
L’ultimo film italiano presentato in concorso, La doppia ora di Capotondi a me è piaciuto, ma forse poteva anche stare in qualche sezione collaterale, fuori concorso. Comunque mi è sembrato un film coerente con due ottimi attori come Timi e la Rapporport. Una storia in bilico tra noir e horror, con punte di tensione notevoli. E mi pare che tra i quattro film del concorso, forse, Lo spazio bianco di Francesca Comencini sia stato il migliore e La doppia ora gli sia dietro di poco. Per quanto riguarda Baaria, credo che se avesse detto meno cose ne avrebbe guadagnato e per Il grande sogno, forse, di cose avrebbe dovuto dirne di più.
Mancano ancora due film in concorso, Mr. Nobody di Van Dormael e A Single Man di Tom Ford. E oggi è stato presentato l’ultimo dei quattro film a sorpresa, il filippino Lola di Brillante Mendoza, già premiato quest’anno a Cannes con la miglior regia per Kinatai. Chissà, magari saranno due film folgoranti (l’anno scorso la Mostra si chiuse con lo splendido e vittorioso The wrestler). Aspetta e spera.
|
|
Venezia 9 settembre 2009
Io continuo a pensare a Shirin Neshat e al suo splendido film Women Without Men. Non so che destino avrà questo splendido film, non so se questo splendido film vincerà dei premi (ma penso potrebbe piacere ad Ang Lee) ma francamente non mi interessa. Penso solo che questo splendido film è l’esempio di un mondo che cambia e che si racconta al mondo anche grazie al cinema. Come ha detto Shirin Neshat oggi in conferenza stampa, rispondendo ad una mia domanda, il cinema ha la forza di raggiungere lo spettatore, le masse, i cittadini del mondo e ha il potere di resistere. Women Without Men sarà distribuito in Italia dalla Bim, ma io voglio comprare il dvd. E poi vorrei andare in Iran, ma questa è una faccenda vecchia. Difficilmente riuscirò a trovare qualcuno a cui mostrarlo (il film è impegnativo) ma sono convinto che resti un’esperienza liberatoria, gratificante. Si è parlato tanto di politica, di società, di donne, di libertà, ecco, questo film riassume tutte le cifre tematiche di questa Mostra. Senza dimenticare le condizioni in cui il film è stato realizzato tra censure e soppressioni. Ci sono film iraniani che per essere realizzati devono dichiarare di essere documentari e non film di finzione, e devono dichiarare che gli attori non sono professionisti. «Oggi in Iran un artista è automaticamente un criminale. I film non escono, i libri sono banditi praticamente in uscita, le fotografie rimangono nascoste e la musica inascoltata. Ufficialmente. Per contrastare gli scandali elettorali e non solo del fondamentalista Ahmadinejad oggi la delegazione del film farà la passerella indossando sciarpe o abiti verdi». Coerente e coraggiosa. A dimostrazione che l’arte, il cinema in questo caso, è lo strumento per contrastare chi da anni subisce le soppressioni dei regimi.
È per questo motivo che ho storto un po’ il naso dopo aver visto Il grande sogno di Michele Placido, un film che non vuole denunciare niente, difficilmente possiede la forza per stimolare una riflessione (rivoluzione) e raramente incide nel suo intento. Intendo dire che Placido è più a bravo a tratteggiare l’intimità della maturazione del personaggio di Scamarcio (che è bravo), nella storia d’amore con Jasmine Trinca (che è brava) o nella propria evoluzione/vocazione che l’ha portato a fare l’attore. Non c’è la rabbia di Romanzo Criminale e un po’ manca quello sguardo sporco che avrebbe reso il film più avvincente. Ma la storia va presa così com’è, cioè per una storia d’amore verso una ragazza e verso una passione (Scamarcio fa il poliziotto ma vuole diventare attore). Tutto qui. Ma forse è un po’ poco. No?
Il film di Romero è divertente. Ma forse stava meglio Fuori concorso. È strano che il suo Survival of the dead sia in concorso e The informantdi Soderbergh no.
Aspetto e spero in una delle ultime scommesse, ovvero l’egiziano The traveler di Ahmed Maher. La Mostra ha ancora qualche pedina da schierare? Spero di si. La locandina e l’idea di base di La doppia ora di Capotondi sembrano ok. Poi c’è ancora Fatih Akin, un film a sorpresa e Tom Ford e Van Dormael. Domani e dopodomani. Oggi c’è l’egiziano.
|
|
Venezia 8 settembre 2009
Non è mica facile scrivere di un film come Lo spazio bianco, di Francesca Comencini. La questione molto delicata delle nascite premature e l’idea di un’attesa come di uno spazio, di un luogo da visitare, abitare, percepire, rappresentano le cose migliori di un film che soffre dei suoi stessi tanti elementi. Ecco magari un film più asciutto avrebbe funzionato di più, forse con meno semplificazioni e, forse, con meno voglia di voler far quadrare ogni cosa a tutti i costi. Margherita Buy fa fatica a convincere ma trasmette con forza la propria sofferenza, il proprio disagio. Il film fa fatica a convincermi anche perché forse è troppo ridondante nell’uso della musica. Ma non si può non ammettere da parte di Francesca Comencini l’esigenza, formale e concettuale, di mettere in scena la solitudine. E poi secondo me questo film piacerà al pubblico quando uscirà al cinema.
Gli umori bassi sono subiti stati rialzati dal film The Men Who Stare at Goats di Grant Heslov. Prendete un film di guerra e mettetelo dentro un racconto narrato in prima persona dal giornalista Ewan Mc Gregor. In più ci aggiungete l’idiozia di un clan hyppie capitanato da Jeff Bridges che sceglie Clooney come discepolo, un guastafeste come Kevin Spacey e, insomma, ne esce una frittata di sarcasmo e cinismo davvero esilarante e intelligente che ha nella parapsicologia un’arma letale (per tutti). In più, Gianni Letta (amministratore delegato Medusa che distribuirà il film) ha dichiarato che siccome non è ancora stato scelto il titolo italiano del film attende proposte ( L’uomo che fissava le capre? Capre in guerra? Ciccio e Franco e le capre del deserto?).
Lebanon pare piaccia a molti. Resto dell’idea che sia il miglior film, finora, ma tra poco ci sarà un'altra delle mie attese, Shirin Neshat con Women Without Men. Aspetta e spera. Ecco, diciamo che faccio fatica a capire chi dice che Lebanon è un videogame. Non è vero. È l’esempio, pacifista, di come si possa raccontare l’assurdità della guerra attraverso le parole, gli sguardi, i corpi di quattro (più uno) soldati rinchiusi all’interno di un carro armato. Insomma, spero venga distribuito. Altrimenti, per il cinema, sarebbe grave.
|
|
Venezia 7 settembre 2009
Mancava il film festivaliero in cui metà degli spettatori si da alla fuga e quindi ci ha pensato Between two worldsdi Vimukthi Jayasundara. Intendiamoci, a parte il fatto che ho capito molto poco (ignorante io, per carità), il film l’ho visto tutto, ma fino a questa proiezione, quest’anno, non avevo ancora assistito al remake di Fuga dalla sala. E sono stato accontentato. Neppure il vietnamita Adrift di Bui Thac Chuyen, nella sezione Orizzonti, è riuscito a soddisfare i desideri cinefili della serata. Non sempre può andare bene.
Il successivo filotto però non è stato affatto male: The informant di Soderbergh, con uno straripante Matt Damon, film che andava inserito in concorso tanto è significativo, il film di Rivette, 36 vues du Pic Saint Loup con Castellitto, che rientra nelle visioni curiose, Una soluzione razionale di Jorgen Bergmark, che è molto di più di quello che speri (un film cioè che non banalizza, ma, anzi, racconta l’amore sotto diversi punti di vista e con diversi registri) e Lebanon, di Samuel Maoz, che ha superato ogni tipo di aspettativa.
Lebanon, che film! Tutto dentro un carro armato. Pazzesco. Mai visto. Una visione emozionante. Una visione che mi ha suggerito, ancora, quanto sia fondamentale e necessario, per chi fa cinema, avere qualcosa da raccontare. Questo film è la conferma che un certo tipo di cinema vive ancora nell’esigenza di esprimere, di portare fuori dal proprio mondo la verità.
E il pensiero, immediatamente, è tornato ai film di Moore e Stone. Ma ho pensato anche al film di Solondz, a quello di Chereau, a Lourdes della Hausner e al film di Yousry Nasrallah, che in questa Mostra mi sta facendo un po’ da spiritual guidance.
Domani è il giorno della Comencini. Ho scoperto che ha vissuto in Francia per 18 anni e che lì, almeno secondo qualche giovane critico francese, è molto apprezzata. Ma domani sarà anche il giorno del film The Men Who Stare at Goats di Grant Heslov con Clooney e dell’atteso, da me, iraniano Women Without Men di Shirin Neshat.
Ma Lebanon è stato una rivelazione.
|
|
Venezia 6 settembre 2009
Ogni tanto è giusto staccarsi dalla routine festivaliera. No? O forse è bello tornare ogni tanto alle cose che contano per davvero, alle cose di casa nostra, o altre questioni più serie. Il 6 settembre è il giorno di Michael Moore e del suo Capitalism: a love story, e di Claire Denis che presenta White material con Isabelle Huppert.
La Mostra proprio oggi, proprio nel giorno in cui celebra la Pixar per la sua creatività e per la sua costante voglia di movimento negli scenari mondiali del cinema e delle nuove strategie e tecniche di intrattenimento e arte, si mette in discussione e sposta la riflessione verso una direzione precisa. La mondialità, le sue contraddizioni, le piaghe dure della quotidianità, i poveri. E tanto il film di Moore, concentrato sulla crisi mondiale e sulle conseguenze del capitalismo, quanto il film della Denis, incentrato sugli effetti del colonialismo in Africa, ma pure South of the border, il documentario di Oliver Stone presentato in Orizzonti, si sono spinti ad analizzare e ad indagare la contemporaneità. Tutti film politici o sociali, che interpellano direttamente lo spettatore. E mentre guardavo mi chiedevo a quanti interessava tutto questo. In fondo il cinema resta ancora oggi uno strumento fondamentale per mettere a conoscenza l’uomo dei propri limiti e di ciò che esiste oltre il proprio naso, la propria vita. Il cinema in un Festival credo abbia anche il dovere di mostrarsi come uno strumento per la mondialità. Chavez e Lula nel film di Stone parlano di ottimismo, ma a proposito di cinema, e di quello che gli gravita intorno, ogni tanto, anzi spesso in queste occasioni, soprattutto quando capita di incontrare una certa schiera di giornalisti o presunti tali, addetti del mestiere o presunti tali, mi sembra che le cose più importanti siano quelle più inutili. Mi sbaglierò.
Gustoso antipasto a George Romero (che arriverà a Venezia mercoledì, in concorso con Survival of the dead) è stato lo zombie movie francese La horde di Dahan e Rocher. Interessante pure il film di Claudio Noce Good morning Aman con Valerio Mastandrea, tanto per rimanere in tema di quotidianità e problemi di casa nostra il film mette in scena l’ansia, la solitudine, la disperazione e la difficoltà di integrazione di un ragazzo somalo. La curiosità per il film cingalese in concorso Between two worlds di Vimukthi Jayasundara si è trasformata in delusione per un’opera decisamente spiazzante, certamente incomprensibile. E sto cercando ancora qualcuno qui a Venezia con gli strumenti adatti ad una interpretazione del film. Fuori è pieno di palloncini colorati, il red carpet è invaso dai personaggi Pixar. Meno finti loro di tanti altri qui presenti. Almeno fanno sognare i bambini. E non solo.
Michael Moore conferma di essere un tipo interessante. Cosa denuncerà nel prossimo film?
|
|
Venezia 5 settembre
Werner Herzog si e ci concede il bis (in realtà il tris, visto che qui a Venezia c’è pure un suo cortometraggio intitolato Boheme) e per la prima volta nella storia della Mostra del cinema di Venezia, succede che vengono presentati in concorso due film dello stesso regista. Dopo l’ambiguo Bad Liutenant: Port of Call New Orleans, decisamente travolgente solo per un’ora e decisamente sghembo per il resto della durata, il regista di Aguirre, Fitzcarraldo e dei recenti Grizzly Man e White diamond, porta in concorso il suo ultimo film My son, my son what have ye done, con Michael Shannon e Willem Defoe. Prodotto da David Lynch (ma Herzog ha ammesso che Lynch ha messo mano anche alla sceneggiatura, e si vede), il film è complementare in un ceto senso al suo “cattivo tenente”, mette in scena incubi, ossessioni e tematiche centrali del cinema del regista, ma soffre, pure lui, di una sindrome ambigua che lo spinge ad essere solo bello a metà. La prova di Michael Shannon, uno squilibrato omicida di cui s’indaga la vita attraverso continui flashback, potrebbe valere la Coppa Volpi.
E poi sono arrivati, un po’ inaspettati, due film diversamente molto gustosi. Il primo, Accident, di Soi Cheang (ma prodotto da Johnny To che qui a Venezia è praticamente di casa), frenetico e spiazzante racconto della vita di un uomo che cerca nella vendetta la risoluzione del suo dramma personale, ma che poi si trova costretto a fare i conti con le proprie ossessioni. Il secondo, Persecution, di Patrice Chereau, complesso ma significativo racconto della relazione ostile e sofferta di Daniel (Romain Duris) e Sonia (Charlotte Gainsburg), tra presenze misteriose e una casa (e una vita) da restaurare. Due film diretti verso l’indagine dei rapporti umani, le ossessioni del corpo e dell’animo. Con modi e forme diverse, ovviamente. Il film di Chereau e quello di Cheang si avvicinano così al mio preferito (finora), il film di Solondz. A seguire c’è sicuramente Lourdes di Jessica Hausner. Poi i due di Herzog, Hillcoat e Tornatore.
Quest’anno la Mostra ha presentato pure una sezione collaterale (Controcampo italiano) dedicata al cinema italiano a cui però è difficile accedere a causa di orari, disponibilità posti e affluenza nelle sale. In questi giorni sono stati presentati film interessanti come Cosmonauta, di Susanna Nicchiarelli, con Sergio Rubini e Claudia Pandolfi (presto nelle sale), Dieci inverni, di Valerio Mieli con Isabella Regonese e Io sono l’amore, di Luca Guadagnino, con Tilda Swinton e Alba Rohrwacher.
Per rimanere in tema, questa sera vedrò Good morning Aman, di Claudio Noce con Valerio Mastandrea. E tra le visioni “nascoste” mi è parso molto interessante Buried secrets di Raja Amari, ma difficilmente arriverà in Italia (spero di sbagliarmi).
Classifica provvisoria dei film in concorso
Life during wartime, di Todd Solondz:: 8,5
Accident, di Soi Cheang:: 8
Persecution, di Patrice Chereau: 8
Lourdes, di Jessica Hausner:: 7,5
My son, my son what have ye done? , di Werner Herzog: 6,5
Bad Liutenant: Port of call New Orleans: 6,5
The road, di John Hillcoat:: 6,5
Baaria, di Giuseppe Tornatore:: 6
Prince of tears, di Yonfan:: 5,5
Tetsuo the bullet man, di Shinya Tsukamoto:: 5,5
|
|
Venezia 4 settembre 2009
Sono un po’ preoccupato perché, finora, le cose stanno filando liscie. Mi riferisco ai film visti, soprattutto a quelli del concorso. Non vorrei che dietro l’angolo si nascondessero sorprese poco piacevoli. Resta il fatto che pure i film di oggi sono stati abbastanza significativi.
Su tutti, certamente, spicca il film di Herzog, Bad Liutenant: Port of call New Orleans con Nicolas Cage e Eva Mendes. Nonostante non si tratti di un remake del film di Ferrara (stando alle parole di Herzog, lui Abel Ferrara non lo conosce e non ha mai visto suoi film…) la trama si avvicina molto a quella del film con Harvey Keitel. Ma questo, al momento, non conta. Il film di Herzog è innanzitutto divertente, poco cattivo, molto furbetto e con uno sguardo puntato verso l’assurdo, l’incomprensibile, il deviato squilibrio dell’umanità. E non si tratta di un’umanità a caso. Si tratta di un’umanità ferita, dispersa, spezzata dall’uragano Cathrina. C’è un’ambiguità di fondo nel film che lascia perplessi.
È solo affascinante, invece, il film Prince of Tears, di Yonfan, melodrammone su Taiwan negli ’50 e decisamente pazzo il nuovo episodio della serie Tetsuo the bullet men di Tsukamoto. Si vede di tutto e a volte serve. Almeno per poter capire meglio quanti possano essere gli sguardi, le prospettive sul mondo.
C’è ancora un film in concorso, ma è a sorpesa, ma pare si l’ultimo di Herzog… dal trailer sembra ok. E poi, qua e là, qualche visione nascosta che potrebbe sorprendere come Buried Secrets di Raja Amari…
|
|
Venezia 3 settembre 2009
Non so cosa si possa pretendere da una Mostra del cinema. A me basta, credo, per ora, a questa età, incontrare film intelligenti che spingono lo spettatore ad andare oltre una visione superficiale delle cose. E poi mi “basta”, per così dire, incontrare nuovi mondi, varcare nuove soglie così da scoprire realtà che nemmeno potrei conoscere ad occhio nudo. Il cinema ha la forza e il potere di far viaggiare lo spettatore.
Ecco perché film come The road di Hillcoat e Life during wartime di Solondz sono preziosi. I due film del concorso, pur prendendo spunto da pozzi d’ispirazione diversi (quello di Hillcoat è tratto dall’omonimo romanzo di Cormac Mc Carthy, quello di Solondz, invece, è una sorta di sequel di Happiness), delineano nuove forme di umanità. Personaggi disperati, in costante ricerca, aggrappati alla vita per sopravvivere. Film ispirati, che mettono in scena anche qualcosa di già visto (il primo la rappresentazione apocalittica e il cammino dell’uomo, il secondo il cinismo e le perversioni di una certa società americana) ma che non mancano di sottolineare l’importanza profonda dei legami e delle relazioni. Il ruolo della relazione è al centro delle tematiche dei film finora visti a questa 66 Mostra del cinema. Non solo la relazione familiare, anche se è quella più rappresentata, ma pure tutta una serie di fitte trame che si estendono ai confini del bene col male, che spingono i personaggi (e lo spettatore) a chiedersi quale sia la giusta strada da percorrere.
L’altro film in concorso è stato Lourdesdi Jessica Hausner, rappresentazione in bilico tra sacro e profano, ma molto realistica. Anzi, forse il realismo del film è anche un po’ il suo limite (qualcuno si è chiesto non fosse meglio realizzare un doc, piuttosto che un film di finzione…), ma resta il fatto che il film della Hausner, giovane regista austriaca, mette in mostra tutto un mondo di contraddizioni, superstizioni, speranze e fede che ruota intorno ad un luogo sacro, si, ma anche profano.
Qui parlano tutti di Francesca di Bobby Paunescu, film rumeno e pare interessante secondo voci vicine e fidate, e di Videocracydi Erik Gandini, italiano emigrato in Svezia. Il primo è piuttosto polemico nei confronti dell’Italia, il secondo si scaglia contro la tv commerciale.
Interessante per la tematica, un po’ meno per come viene realizzato, è il film Desert Flower di Sherry Hormann. Tratto da una storia vera il film racconta la vita di una donna fuggita dalla Somalia e giunta a Londra che, raggiunto il successo come modella, arriva a denunciare all’Onu le mutilazioni subite da bambina.
|
|
Venezia 2 settembre 2009
Venezia è completamente un work in progress in attesa che il nuovo palazzo del cinema prenda forma e lo è anche per il semplice fatto che prova a seguire le parole profetiche del suo direttore Muller che anche quest’anno ha messo insieme un programma senza dubbio curioso. «Il cinema deve far muovere, deve dare forma», ha detto il direttore della 66° Mostra del cinema e sembra un augurio deciso e coraggioso, come saranno, molto probabilmente i titoli di questo festival. Qualcuno dice già che quest’anno qualcun altro ha puntato troppo in alto e che forse i gusti del pubblico e quelli della Mostra andranno in direzioni opposte. Io non lo so. Credo comunque che un Festival come quello di Venezia, che di fatto muove una grassa fetta di mercato, italiano e internazionale, e soprattutto il cinema in generale, abbiano il diritto e il dovere di fare come dice Muller, cioè dare forma alle idee e mettere in movimento l’animo dello spettatore. Che deve essere diverso perché è giusto che sia diverso. Come i gusti.
A proposito di gusti, i pareri dopo Baaria di Tornatore, primo film in concorso e primo film italiano ad aprire Venezia dopo vent’anni, sono stati ovviamente contrastanti. Non c’è da meravigliarsi rispetto allo snobismo di alcuni o alle chiacchiere di altri. A me, passate poche ore dalla visione, è rimasto in bocca il gusto di un film interessante, che propone tante cose già viste e già dette nel cinema di Tornatore, ma che riescono a trasmettere passione, gioia e sentimento. È certamente da sottolineare il grande sforzo produttivo, testimonianza del fatto che Tornatore è uno che punta in alto.
Divertenti (nel senso che mi hanno permesso di staccare e andare alla ricerca di qualcosa di nuovo, diverso, originale….) pure Rec [2], sequel del regista spagnolo Balaguerò e Scheherazade, Tell me a story, dell’egiziano Nasrallah.
Divertimento e intrattenimento, saranno queste le due strade dei film di questo Festival?
Intanto, a proposito, l’evento di quest’anno è certamente il Leone d’oro alla carriera alla Pixar… e Venezia si regalerà due giorni di celebrazioni con tanto di proiezioni speciali e anteprime.
Mi aspetto divertimento (nel senso largo del termine) dal film di Solondz, Hillcoat, Akin, Maoz, Neshat, Maher. Aspetterò e vedrò.
Anche quest’anno Fuorischermo vi racconterà i giorni della Mostra. Seguiteci…
|
|