Tre notti di sabato (tra novembre, Natale e febbraio) per tratteggiare l'affresco di una generazione, o meglio di una
comunità, della provincia nordpiemontese sull'orlo dell'abisso. Paravidino parte con molte idee e (quasi) tutte confuse,
accellerando il ritmo, giocando con le immagini (e le citazioni) e facendo capire poco (tanto sul piano temporale del
racconto che su quello del contesto narrativo). Poi, passo dopo passo, stabilizza lo sguardo, focalizza i caratteri,
disegna l'ordito, incastrando i vari destini, ma senza l'adire di portali alle estreme conseguenze, anche se qualcuno si
leccherà le ferite della notte brava. MASSIMO ZANICHELLI
Paravidino, enfant prodige del teatro italiano, ci prova con il cinema, e fa cilecca. Non tanto perché fa del teatro filmato;
anzi, si preoccupa di scongiurare il rischio filmando da ragazzo moderno e andando avanti e indietro nel tempo per
spiazzare e tener desto l’interesse dello spettatore (che però ne ha viste tante, e anche di meglio, che ci vuol ben altro).
Ma perché sbaglia tutta l’impostazione, pensando forse che infilare una sfilza di macchiette che ripetono la stessa
frase/azione per tutto il film (ad es.: ruttare) porti alla fine a comporre un ritratto generazionale. Non funziona così,
e ci voleva poco a capirlo. Gli attori adulti stanno a galla grazie al mestiere, i ragazzi sprofondano negli abissi e non
si sa se si riuscirà mai a recuperarne i corpi. E pensare che c’era del buono, e che il proposito di raccontare un’Italia
poco o nulla rappresentata, quella nascosta tra i capannoni della Padania, perduta tra i campi e gli Internet point, tra
il minestrone nel tinello contadino e il fast food, non era male, e alcuni tocchi d’ambiente famigliare non sono affatto
da buttare. Facciamo finta che Texas non sia mai esistito, e diamogli un’altra chance. MAURO CARON