FUORISCHERMO

 

BODY ART E FORME DISPERATE
Il cupo e lo sfregio di Sweeney Todd e Francis Bacon
Figura con la carne - Francis Bacon «Alt. Questo è il mio genere. Lascia stare, Bob!»
Il Joker davanti al quadro Figura con la carne (1954) di Francis Bacon in Batman (id., 1989, Tim Burton)

Nominale (come Frankeweenie, Pee-Wee, Beetlejuice, Batman, Edward, Ed Wood, Charlie) e duplice (come Edward Scissorhands, Ed Wood, Mars Attacks!, Sleepy Hollow, Big Fish, Corpse Bride), Sweeney Todd ricalca lo stile burtoniano fin dal titolo. Un film che mette in luce un elemento visivo fondamentale come il sangue, presente ma nascosto da sempre nel cinema del regista di Burbank. Nascosto e, solo a volte, scelto come segno di un racconto. L’ambiguità malinconica di Ed Wood e l’imperturbabile doppiezza di Bruce Wayne/Batman, poi, sono i caratteri che fanno di Sweeney Todd la trasformazione, il distacco dalla realtà, la nuova forma, la maschera di una presenza irrequieta e in ricerca (si spiega così la natura paradossale della vicenda nella quale tutti mostrano due facce, due versioni, due identità).
In un brillante saggio dedicato alla comparazione tra due serie epocali come Alien e quella dell’uomo pipistrello (L’alieno e il pipistrello. Alien, Batman e la dialettica dell’ibrido in L’alieno e il pipistrello), secondo Gianni Canova Batman, si sforma. Sfregia le sue forme. Le taglia e le disarticola, le fa a pezzi e poi le brucia. Un processo di sfiguramento identico a quello che Joker opera sui capolavori pittorici esposti al Flughelheim Museum di Gotham. Campione della body art e artista della morte, Joker imbratta Rembrandt (Autoritratto e La pesatrice d’oro), danneggia le ballerine di Degas, distrugge la statua della danseuse, segna il proprio passaggio con una sigla simile ad una tegga di un freestyler appartenente a qualche gang di strada. Danza leggero e canticchia sfottendo l’arte, le icone di un sistema in crisi risparmiando solo l’opera di Francis Bacon per la sua tonalità cupa, per lo stridore della sue risate, per una certa ‘affinità del sentire’.
Joker - Batman Il Joker e Bacon condividono il gusto della carne e della mutazione, della defigurazione e dell’avvilimento dell’originale. Sognano il riciclo estetico e criticano una civiltà di immagini e simulacri. E Christopher Nolan, che ha in mano il progetto di ricontestualizzazione della saga di Batman, a proposito del personaggio del Joker ha detto: «Realizzando la continuazione della storia, non volevamo dare l'impressione che si sarebbe trattato del solito sequel, ricalcato sulla base di mille altri sequel. Volevamo che fosse uno sguardo definitivo su chi è il Cavaliere Oscuro e cosa esso rappresenti, e soprattutto quale significato ha questo appellativo. Riguardo a Joker, il suo devastato viso da clown è stato costruito sull'icona del Joker, ma abbiamo deciso di dargli un approccio alla Francis Bacon. Vogliamo lo stesso tipo di corruzione fisica, di disfacimento del tessuto stesso del suo look. È qualcosa di sudicio, marcio. Possiamo quasi immaginare di cosa puzzi». Un’arte oscura e spietata, quella di Bacon, che si trasforma nel lato oscuro del cinema di uno dei registi più ispirati e visionari dell’epoca post contemporanea, quello di Burton, fatto di sogni, incubi, morti malinconiche e disperazioni alterate.
Un’arte, quella di Bacon, che è possibile riscoprire o scoprire dal 5 marzo a Palazzo Reale a Milano. Un’arte che indaga l’urlo del corpo e dell’anima, il disfacimento dei sensi, le percezioni, le alterità cromatiche, i graffi della realtà. Un’arte che mescola l’inquietudine alla rabbia, la complessità agli specchi, le sfumature alla rigidità, l’assurdo all’estremo. Le gabbie agli spazi aperti, gli uomini chiusi e dispersi.
Forse anche per questo l’ultimo film di Tim Burton sembra, in apparenza, lontano dall’idea di cinema sognante e evasiva del regista. Ma Burton rimodella da sempre le forme del suo cinema. Il carattere distintivo, sovversivo, originale e innovativo dei suoi mondi e delle sue creature consiste proprio in questa continua ricerca e affermazione dell’autorialità all’interno di prodotti diversi e diversificati. Da una parte per sfidare la noia e raffinare la spinta creativa, dall’altra per celebrare, con il suo modo goffo, impacciato, misterioso e dolce, graffiante e doloroso, romantico e giocoso, i diversi di Sweeney Todd cui si sente parte dalla nascita. L’ossessione per l’altra faccia della medaglia, gli altri punti di vista, quelli nascosti, è ben sviluppata in ogni suo film. Dall’eccentrico road movie Pee-Wee’s Big Adventure (id., 1985) fino alle mirabolanti avventure letterate de La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory, 2005), lo spettatore può ammirare in successione i codici visionari, le figure, i rimandi e le fonti di ispirazione di un cinema capovolto, sensibile e virato al negativo dove l’apparenza non è solo qualcosa che inganna.
Alcune strutture, come l’incipit del film, scandito dalla tradizionale forza semantica dei titoli di testa (che come sempre rivelano e anticipano, non solo presentano), il flashback (altro grande segno rivelatore burtoniano) e il sogno, ricordano la solitudine di Edward mani di forbice (Barker è esiliato come la giovane creatura incompleta). I due, pur condividendo la potenzialità di un oggetto (la lama), la solitudine e il desiderio dell’amore, intraprendono presto strade diverse.
Sweeny Todd esplode di libertà, forse, più di qualsiasi altro film di Burton (che da sempre affronta e racconta la libertà ma, in questa direzione, il titolo più significativo, spontaneo e suggestivo rimane Ed Wood) perché mescola le sfumature dark alle visioni distorte, i freak al romanticismo, la tragedia al comico, gli istinti bestiali al gusto per il grottesco. È un film in cui il sangue diventa protagonista immediatamente (anche se il rosso è sempre stato un colore protagonista nel cinema del regista di Burbank, basti pensare al colore della bicicletta di Pee-Wee, alla bocca del Joker, ai costumi di Babbo Nachele, al circo di Big Fish) più che in Sleepy Hollow (in cui la matrice cadaverica e orrorifica veniva dichiarata attraverso una testa mozzata che schizzava sangue su una grossa zucca arancione e, subito dopo, la cera usata per sigillare una lettera perdeva gocce simili al sangue). In Sweeney Todd si raggiunge l’esaltazione della forma burtoniana (una miscela di romanticismo deturpato con una buona dose di inquietudine disperata) nella sequenza onirica cantata da Nellie Lovett. L’impossibilità dell’amore tra i due è tradotta non dalle parole o dagli scenari che si Sweeney Todd rimescolano di continuo, ma dal corpo di Benjamin Barker, dal suo volto, dai suoi occhi. Sempre più meccanico, sempre più impassibile, sempre più spenti. Una sequenza fondamentale per scoprire la vera entità del film. Destinato ad essere tragicamente reale e sovrabbondante di surrealità.
Forse, anche in questo caso, l’arte psicologica di Bacon servirebbe da bussola.

Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, 2000.

FRANCIS BACON. PALAZZO REALE, PIAZZA DUOMO 12, TEL. 899.666.805. DAL 5 MARZO AL 29 GIUGNO. www.francisbacon.it