Lo stile di Giorni e nuvole è molto diverso da quello usato nei tuoi film precedenti. Stai molto addosso ai
personaggi. È il tipo di storia che racconti a richiedere questo sguardo?
Sicuramente. A dir la verità mi chiedo se venga prima la storia e poi lo sguardo di cui parli, o se è vero il contrario.
Quando inizio a scrivere ci sono solo delle suggestioni, e quelle che ho forse più chiare non riguardano tanto la storia
ma il tipo di film che vorrei fare. Lo sguardo sui personaggi, sulle cose, sulla città dove è ambientata la storia, nasce
a partire da queste prime idee che lentamente maturano man mano che i personaggi e la storia prendono corpo. Era da un po’
che volevo fare un film molto legato alla realtà, a questo momento storico. Dopo
Agata e la tempesta, una commedia
così corale e surreale, ho capito che era arrivato il momento. Avevo proprio voglia di fare un film più piccolo, che si
concentrasse su due personaggi principali e li seguisse da vicino. Ho iniziato a scrivere con Doriana Leondeff e Francesco
Piccolo – Federica Pontremoli è arrivata in una seconda fase – dopo aver rivisto vari film tra cui alcuni di Cassavetes,
Guédiguian... Abbiamo elaborato una storia inserita nella situazione socioeconomica di oggi, partendo da una sensazione di
insicurezza che tutti e tre percepivamo come qualcosa di nuovo, di preoccupante. E lo stile doveva essere in linea con tutto
ciò, dare l’idea di essere in presa diretta sulla realtà mentre le cose accadevano. Non volevo che la messa in scena fosse
visibile, la volevo precisa e rigorosa ma nascosta nella sua funzione. La macchina a mano, il fatto di seguire gli attori
da dietro, l’uso del piano sequenza, tutto questo era per dare la sensazione di essere lì, insieme ai personaggi, mentre
le cose stanno avvenendo.
Un lavoro impegnativo anche per il direttore della fotografia.
Ramiro Civita è molto bravo con la macchina a mano e ha fatto un ottimo lavoro. Per un direttore della fotografia credo sia
sempre una grossa sfida fare in modo che la macchina da presa possa spaziare a 360 gradi, o seguire un personaggio che
attraversa di stanza in stanza tutto l’appartamento: ogni luce che mette dev’essere nascosta, appesa sul soffitto o altrove.
Ramiro mi ha lasciato la grande libertà di inventare giorno per giorno, insieme agli attori, i movimenti per ogni scena. Un
piano sequenza perché funzioni dev’essere mosso, la macchina deve poter passare da un personaggio all’altro anche con
l’aiuto dei movimenti degli attori, altrimenti può diventare piatto e noioso. L’idea era di evitare, dove non era veramente
necessario, l’uso del campo-controcampo e del montaggio. Spezzettare il meno possibile in tante inquadrature e riprendere
la scena che nasceva davanti ai nostri occhi nella sua completezza e verità.
La storia di Elsa e Michele si mantiene sempre in equilibrio tra dramma e commedia.
Forse parlare di commedia è un po’ tanto, ma è vero che i momenti di tristezza profonda o di dramma coesistono con altri più
lieti e divertenti. Come nella vita. Per Michele, ad esempio, arriva nel film il momento di una piccola rinascita in cui
ritrova la voglia di vivere, una leggerezza nuova. E poi ecco di nuovo il tracollo. Mi capita di vedere film drammatici che
restano drammatici dall’inizio alla fine, si fa fatica a vedere un sorriso; a volte la vivo come una forzatura. Non posso
dire che sia stato un film semplice da scrivere, anzi. Non è stato semplice nemmeno trovare i finanziamenti per produrlo e
se Lionello Cerri non avesse creduto molto nel progetto non so come ci sarei riuscito. È stata molto dura anche arrivare ad
un finale che gettasse luce su tutta la vicenda. La storia a un certo punto ci portava da un’altra parte, a uno di quei
tragici epiloghi a cui ci hanno abituato le pagine della cronaca o un certo cinema. Ho lottato per arrivare a un finale che
contenesse una speranza e che fosse al tempo stesso verosimile. Un punto di arrivo che ci raccontasse un cambiamento, uno
scatto nei personaggi. Da lì in avanti il loro atteggiamento verso quello che verrà sarà diverso perché hanno capito
qualcosa in più, anche di se stessi. Non a caso la scena finale ha un’atmosfera molto diversa dal resto del film. Volevo
che i miei due protagonisti fossero immersi in un tempo sospeso, che ci fosse qualcosa di quasi magico nell’aria. Lo stile
di ripresa cambia, come in attesa di ciò che deve accadere. Con Carlotta Cristiani abbiamo montato e rimontato la scena
parecchie volte prima di trovare il ritmo e il respiro che cercavamo.
È difficile oggi raccontare la storia di una coppia?
Fin dall’inizio sapevo che sarebbe stata una vera sfida, anche perché è la prima volta che mi cimento in un’impresa del
genere. Alla fine è proprio questo il cuore del film. Sentivo l’esigenza di affrontare il tema del rapporto di coppia, del
matrimonio, di raccontare cosa può essere una relazione d’amore tra due persone che vivono insieme da vent’anni, i rapporti
con una figlia ventenne... Mi interessava capire come due persone legate da anni di vita in comune possano far fronte alle
avversità esterne. A pensarci bene, questo è anche il mio primo film che non racconta di personaggi che partono, che si
spostano alla ricerca di qualcosa. I due protagonisti sono lì dall’inizio alla fine, come imprigionati dagli accadimenti,
impossibilitati a fare il viaggio che avevano programmato. Elsa e Michele sono sempre andati in giro per il mondo, il
sentimento che li unisce è anche fatto dei tanti viaggi condivisi, e ora non possono più muoversi.
E’ la prima volta che lavori con Margherita Buy e Antonio Albanese. Cosa ti ha colpito di loro?
Mi ha colpito la loro generosità, la loro disponibilità ad accogliere ogni mia idea e ogni mio appunto per andare ad
approfondire le scene. Sono rimasto sorpreso di come Antonio riesca a tirare fuori una violenza inaspettata. Lui è
protagonista di momenti molto forti, che scuotevano anche sul set. Margherita invece ha la straordinaria capacità di entrare
in parte l’attimo in cui si batte il ciak e in quell’attimo diventare il personaggio, vivere realmente la scena davanti ai
tuoi occhi.
Scene molto lunghe avranno richiesto molte prove con gli attori.
Abbiamo lavorato molto sulle scene, leggendole e provandole, anche quando nessuno aveva molta voglia di farlo perché eravamo
stanchi ed era tardi. Soprattutto bisognava costruire il rapporto tra Margherita e Antonio: dovevano essere credibili come
un marito e una moglie che stanno insieme da vent’anni, con una figlia, Alba Rohrwacher, che doveva sembrare veramente loro
figlia. Era forse questo il mio più grande timore: la credibilità della famiglia. Ci siamo quindi concentrati sui gesti,
sul modo in cui si parlano, sul rapporto con la figlia. Anche Alba ha fatto la sua parte, il suo contributo è stato
fondamentale. A volte provavamo anche prima che andassero al trucco, la mattina presto. Non avevo uno story board in testa,
quindi il lavoro di messa in scena l’ho fatto insieme a loro, cercando quotidianamente delle soluzioni nello spazio in cui
si doveva girare.
Una delle qualità che caratterizzano il tuo cinema è l’estrema cura dei personaggi secondari.
Questa è una delle poche cose che veramente mi interessa del cinema americano, qualcosa che ancora noi dobbiamo imparare.
Nei loro film non c’è mai nessuno fuori posto, neanche il barista sullo sfondo. I piccoli ruoli possono rimanere molto
impressi, a volte ci si ricorda addirittura solo di quelli. Non capisco perché in Italia un attore che deve fare una o due
scene in un film debba essere trascurato. Con Jorgelina Depetris sono abituato a fare un casting molto approfondito anche
per ogni piccolo ruolo minore, a fare prove anche con chi è in scena per pochi minuti, e cerco di dare a tutti del
materiale su cui lavorare. Tra gli attori di Giorni e nuvole ci sono molte nuove scoperte, anche attori di teatro che
lavorano a Genova. Poi c’è Giuseppe Battiston, certo, con lui siamo già al quinto film insieme! Teco Celio è l’unico ad
essere arrivato all’ultimo momento, a riprese già iniziate; ma l’avevo visto in due o tre film recenti e già sapevo che
con lui sarei riuscito a lavorare bene.
Perché sei tornato a girare a Genova?
È una città che mi affascina e che dal lato fotografico trovo molto forte. Avevo ambientato lì una parte di Agata e la
tempesta e per la prima volta, finite le riprese, mi era rimasta la voglia di tornarci. A un certo punto gli sceneggiatori
premevano perché girassi a Milano, ma ho pensato che in una città chiusa su se stessa questa storia sarebbe forse diventata
claustrofobica. Mi piaceva l’idea che Elsa e Michele abitassero in una città con il mare, il cielo, le nuvole, in cui lo
sguardo potesse spaziare verso l’orizzonte. Il mare dà un respiro diverso, in fondo. Non so se quella con Genova sia
un’esperienza conclusa. È una città difficile, ma molto cinematografica, capace di diventare lei stessa uno dei personaggi
principali di una storia.