1. “Palcoscenico cinematografico”
Una lussuosa villa nella campagna inglese racchiude un universo al suo interno: la moltiplicazione della personalità del suo
proprietario, che tutto vede e ascolta attraverso un’infinità di piccoli schermi e telecamere a circuito chiuso. La
scaltrezza e l’egocentrismo dell’uomo portati alle loro estreme conseguenze e, soprattutto, il gusto accurato e perverso
della
messa in scena.
Se pensiamo al fatto che
Sleuth è il testo teatrale di Anthony Shaffer vincitore del Tony Award nel 1970, rivisitato
da Mankiewicz due anni più tardi con il film
Gli insospettabili e ora ri-scritto sotto forma di sceneggiatura da
Harold Pinter per la regia di Kenneth Branagh, la vicenda ci restituisce una inevitabile sensazione di “iperbole creativa”.
Alla base del film del regista irlandese c’è un lavoro di vera e propria ri-elaborazione del testo teatrale che da
quest’ ultimo al tempo stesso scaturisce e si allontana, sfociando in una storia “altra” rispetto all’ originale.
Un punto di partenza ricco di potenzialità narrative e visive: è affascinante ripensare a termini spesso abusati come
“teatralità”, “contaminazione”, “teatro filmato” parlando di chi come Branagh ha fatto delle traduzioni di testi teatrali
sullo schermo il fulcro della propria poetica.
Il cinema è un’arte magnificamente impura che da sempre si è alimentata degli stimoli provenienti dalle altre arti, non
ultimo il teatro.
«I personaggi di Shakespeare che ho interpretato non sono solo parole su una pagina arida, libri su uno scaffale. Sono
persone vere. (…) La cosa importante è riuscire a far sì che gli spettatori si dimentichino che si tratta di Shakespeare
(…) con il suo straordinario mondo, passionale e violento». Secondo Kenneth Branagh è il cinema lo sguardo privilegiato e
più ampio che può farci accedere a questo “mondo”. La sua filmografia ha inizio nel 1989 con
Henry V (Enrico V) ,
che ha già nel suo incipit la rappresentazione visiva di quello che è l’ “ingresso” del testo teatrale nella dimensione
cinematografica: oltre i battenti dell’enorme porta sospinta da Derek Jacobi si dischiude l’immagine filmica, dove
Shakespeare viene portato a nuova vita. Questa dichiarazione autoriale di poetica sarà affrontata dal regista con coerenza
in tutte le sue traduzioni sullo schermo: da
Much Ado About Nothing (
Molto rumore per nulla, 1993) ai più
recenti
Love’s Labour’s Lost (
Pene d’amor perduto, 2000),
As you like it (
Come vi piace, 2006).
Menzione a parte merita il suo poderoso
Hamlet (
Amleto, 1996): la vicenda umana forse più emblematica e ricca
nella storia della letteratura: ragione, istinto, passione e morte nella cornice dell’eterno rapporto tra l’individuo, la
società e il potere.
Nei film di Kenneth Branagh, per sua stessa ammissione, vediamo scorrere un preciso solco di malinconia e dolore: la “paura
della perdita”, la sua anticipazione o il suo attraversamento: in
Dead Again (
L’altro delitto, 1991) e
Peter’s Friends (
Gli amici di Peter, 1992), la morte è una presenza forte, sia essa reale (l’omicido di
Margaret Strauss e il suo ri-vivere nella giovane Grace, interpretata da Emma Thompson), immaginata, futura (l’annuncio di
Peter agli amici della propria implacabile malattia.)
Nel 1994 con il suo
Frankenstein di Mary Shelley, Branagh ribadisce, con una regia a tratti “eccessiva”, quali siano
le pulsioni umane più profonde e radicate: il legame intimo tra l’uomo e ciò che è “violenza” e sfida alle leggi stesse che
regolano la vita e la morte. Nella iperbolica esplorazione del proprio ego, Victor Frankenstein spinge alle estreme
conseguenze l’onnipotenza della mente creatrice, in un climax a tratti delirante molto simile ai “giochi cerebrali” tra
Andrew Wyke e Milo Tindle. In un vortice di (auto)distruzione e morte.
2. “Playing Branagh”
Dove iniziano e dove hanno fine l’immaginazione e la menzogna di Andrew Wyke, il suo gioco?
“Obey the rules” è il sottotitolo di
Sleuth, ed è un monito minaccioso ed affascinante al tempo stesso: la sfida
psicologica sottile ed estrema che si gioca tra Andrew e Milo Tindle è fatta di simulazione, lusinga, inganno,
messa in
scena. Così intimamente vicina alla moltitudine di significati del “playing” teatrale, il gioco recitativo per
antonomasia dell’Attore: identificazione ed interpretazione del personaggio separate da un labile confine. Un reale senso
di claustrofobia e perdita di orientamento che lo spettatore “si sente addosso” sin dalle prime, geometriche, sequenze del
film: lo sguardo algido e ambiguo di Caine e l’arguta ironia di Law si incontrano, si specchiano, si indagano nel chiuso
della lussuosa villa. Efficaci movimenti di macchina da presa e di montaggio la percorrono in senso orizzontale (stanze
spesso corredate da pareti mobili), quanto verticale (l’ascensore che conduce alla camera da letto che fu di Andrew e della
moglie Meggy, ora amante del rivale), senza che la casa sia raggiunta da eco di ciò che sta al di fuori di essa, isolata
ed imperscrutabile, inanimata ma al tempo stesso viva ed artefice essa stessa, attraverso le numerose telecamere a circuito
chiuso, delle immagini del film. In un abile gioco di visioni moltiplicate e angolazioni differenti da cui osservare i
fatti, la regia si concentra su cosa debba stare all’interno dell’inquadratura proprio perché è ancor più rilevante ciò
che ne viene (volutamente) escluso. Pinter ha dichiarato di aver pensato ai due protagonisti di
Sleuth come “…Uomini
in guerra, da tanto tempo che alla fine si sono dimenticati il motivo della guerra stessa, pensano solo a lottare per
vincerla.”
Il film può essere idealmente diviso in tre segmenti narrativi: nella prima parte è il personaggio di Andrew Wyke che
detiene il “potere dello sguardo”; egli architetta la propria messa in scena e ne attende gli sviluppi da spettatore
onnisciente e cinico, concedendosi anche di valicare la finzione allorché, nel corso della simulazione del furto di
gioielli, aggredisce realmente Tindle. Ogni frase ed ogni gesto, movenza, sono spia di una progressione psicologica dei
due protagonisti che con arguzia e sarcasmo cercano l’un l’altro di mettere alle corde l’avversario. È Wyke ad ammettere:
«Il gioco è appena iniziato… i gioielli erano solo una messa in scena!».
Solo che, poco dopo, di quella stessa
messa in scena egli rimarrà vittima, grazie al brillante ribaltamento di fronte
che Milo porta a termine, fingendo di aver abbandonato la casa per poi, invece, ricomparire sotto le mentite spoglie di un
laido ispettore di polizia.
Ancora una volta assistiamo a falsificazioni, moltiplicazioni di identità e di verità, che Branagh esprime con l’utilizzo
reiterato di primissimi piani e dettagli (labbra e mani dei due interpreti) e di campi/controcampi velenosi e ravvicinati.
I toni sono cupi, le frasi ficcanti, il nero è il colore dominante, nell’arredo e negli abiti dei protagonisti; nelle
stanze della villa tutto è algido, iper-tecnologico, ingannevole; illuminato dalle fiammelle di un fuoco virtuale che si
accende premendo un telecomando.
La vorticosa dinamica del “playing” si avvolge e riavvolge su se stessa; lo spettatore ne è preda poiché la sua visione
delle cose non può che essere parziale, manipolata. Dalle immagini a circuito chiuso e dalla mente creatrice di chi, tra i
due rivali, è forse il più abile e perverso.