Come si è avvicinato a questo progetto e perché ha scelto di portare la storia di Jean-Dominique Bauby sullo schermo?
Ero molto amico di un uomo che si chiamava Fred Hughes. Lavorava per Andy Warhol. Dirigeva la Factory di Andy Warhol. Fred
viveva al 15 di rue de Cherche-Midi, a Parigi, dove aveva una casa anche Andy. Dopo la morte di Andy, Fred – che soffriva da
sempre di sclerosi multipla – andò peggiorando fino al punto che non potè più venire a Parigi e dovette rimanere nel suo
appartamento di New York. Viveva su Lexington Avenue, verso la 90° strada. E finì bloccato a letto nel suo appartamento,
lui stava lì e io andavo da lui e gli leggevo dei libri. Non poteva più parlare. Stava steso lì e mi guardava mentre
leggevo. Aveva un infermiere che si chiamava Darin McCormack, lui mi diede una copia de Lo scafandro e la farfalla. Avevo
sempre pensato di fare un film su Fred perché aveva avuto una vita così attiva e poi era rimasto prigioniero del suo corpo.
Qualche anno fa è morta mia madre, a 89 anni. E poi mio padre. Sono stati sposati per sessant’anni. Mio padre, malato di
cancro da quando aveva 83 anni, ne aveva quasi 92, aveva tenuto a bada la sua malattia perché si occupava di mia madre. Ma
dopo che lei era morta…
Vivevo nel mio studio. Anche mio padre viveva lì. Era Natale, dovevo portare i bambini da qualche parte per le vacanze e
avevo bisogno di qualcuno che si occupasse di mio padre perché non poteva venire con noi. Chiamai Darin McCormack. Così
venne a casa mia per stare con mio padre. Quando arrivò la sceneggiatura de Lo Scafandro e la farfalla da Kathy Kennedy,
mio padre aveva terribilmente paura di morire e io pensavo che mi sarebbe molto piaciuto aiutarlo a non aver paura…Ma non
ci sono riuscito. Era terrorizzato perché non era mai stato male. Tempo prima avevo scritto una sceneggiatura per il film
Profumo che non era mai stata utilizzata. Bernd Eichinger, l’uomo che aveva comprato i diritti, non voleva fare il film che
io avrei voluto fare. C’è una cosa che Grenouille aveva in comune con Jean-Dominique Bauby. In entrambe le storie, il
pubblico è il confidente del protagonista. Sappiamo cosa succede nella testa di Grenouille e sappiamo cosa succede nella
testa di Jean-Do. C’erano molte cose che avrei voluto mettere in Profumo che ho potuto mettere in questo film. Ero libero
di fare quello che volevo. In un caso la libertà dell’olfatto di Grenouille, nell’altro la libertà dell’immaginazione di
Jean-Do. Potevo attraversare il tempo, potevo fare qualsiasi cosa. Per me, come regista, come artista, era una grande
opportunità poter mettere qualsiasi cosa volessi nella struttura di un film. Potevo costruire la mia storia, il mio
linguaggio. Sapevo che avrei dovuto fare il film in Francia, in francese, nello stesso ospedale. Perché se non lo potevo
fare nell’ospedale dove era stato lui, non penso che avrei avuto le sensazioni giuste. E per quanto riguarda il modo in cui
la storia è raccontata, anche se è una storia universale, è stata raccontata da un francese. Così sono andato a Berck, in
ospedale e le persone sono state veramente carine e tutti volevano che io facessi il film. Nessuno voleva che facessi
questo film in francese. L’unica persona che voleva davvero che io lo girassi in francese era Jon Kilik. All’inizio Ron
Harwood ci aveva dato una sceneggiatura in inglese ma io ho continuato a riscrivere tutto insieme agli attori, cercando di
conoscere più dettagli possibile da Claude Mendibil, Anne-Marie Perrier, Bernard Chapuis…
Come ha scelto Mathieu Amalric per il ruolo di Jean-Dominique Bauby?
All’inizio il film lo doveva fare Johnny Depp. Tracy Jacobs, che è l’agente di Johnny, aveva parlato con Kathy Kennedy.
Johnny voleva fare il film con me perché ci piace lavorare insieme. L’avrei circondato di francesi e lui avrebbe parlato
francese. Ma poi era troppo occupato con Pirati dei Caraibi e allora non ebbe più tempo per fare il nostro film. Allora
Kathy Kennedy pensò a Eric Bana o un altro attore americano. Ma qualche anno fa, ero in giuria al Festival di San Sebastian
e vidi un film che si chiamava Fin août, début septembre. Consegnammo a Jeanne Balibar il premio come migliore attrice
quell’anno. Ma io mi ricordavo di Mathieu Amalric. E ho subito pensato che sapevo chi avrebbe dovuto interpretare questo
ruolo. E ho fatto il suo nome a Kathy, lei non lo conosceva. E’ passato del tempo. Poi due o tre anni dopo girano Munich e
Kathy conosce un giovane attore che si chiama Mathieu Amalric. Torna dalla Francia e mi dice che ha conosciuto un attore
francese veramente fantastico che potrebbe interpretare questa parte, allora possiamo fare il film in francese. Io le
chiedo come si chiama questo attore e lei mi dice Mathieu Amalric, allora io dico che è una grande idea. Così l’ho chiamato.
Ci conoscevamo perché qualche anno fa Olivier Assayas e Jeanne Balibar mi erano venuti a trovare a New York. Mathieu non
era venuto ma sapeva chi fossi e io sapevo chi fosse lui. Così è venuto per il Ringraziamento e abbiamo cominciato a
leggere la sceneggiatura insieme. Sapevo che se avessi girato questo film in francese, non avrei voluto essere un turista.
Il mio francese non è perfetto però conoscevo bene il testo. Ho lavorato con tutti gli attori, analizzavamo ogni singola
scena e io chiedevo “Cosa avreste detto in questa situazione?” Perché le parole devono venire fuori dalle loro bocche. Ho
riscritto la sceneggiatura con tutte le persone che avrebbero fatto parte del film. E ho trovato nuovi elementi. Per
esempio, Claude Mendibil ha detto ad Anne Consigny che quando è entrata per la prima volta nella stanza di Jean-Do lui le
ha detto “Niente panico”. E quando Anne è entrata e abbiamo iniziato a girare la scena lei me l’ha detto, allora io ho
suggerito di aggiungere quella frase nella sceneggiatura. Lavoro anche come un pittore, sono in un posto, reagisco alle
cose che mi circondano. Avevo notato che il mare ogni giorno indietreggiava di 500 metri e poi tornava in avanti. Questo
frangiflutti sarebbe stato sommerso dall’acqua e poi sarebbe riemerso. Così ho detto “Va bene”. C’è una mia foto in cui
ho Mathieu sulle spalle, lo metto sopra a questo frangiflutti con la sedia a rotelle, in acqua. Questa scena non c’era nella
sceneggiatura. E la stessa cosa per la scena dell’uomo che lo tiene in braccio in piscina. Ho visto la piscina e ho detto
“Ok, mettiamolo lì dentro”. Sembrava la Pietà. Daniel, l’uomo che interpreta la scena, era stato il terapista di Jean-Do.
Che rapporto ha avuto con il libro?
Ci sono tornato sopra moltissime volte. Mi piaceva molto quella bellissima immagine di lui che guarda il soffitto in piscina.
Volevo trovare del testo da usare in quella scena. E ho scelto la parte sulla pentola a pressione. E poi improvvisamente
arriva quest’ altra parte su Eugenie. Quando lui dice “E’ un sogno”. Lei entra, lo bacia come se lui potesse stare in piedi
e poi lui sta di nuovo sulla sedia a rotelle. E dice, “Quando nuoti nelle nebbie di un coma, non hai il lusso di vedere i
tuoi sogni evaporare.” Penso che la differenza fra questi due posti sia sempre più sottile. Non si poteva distinguere fra i
sogni e la realtà. Quando sei malato è così. E’ stato così con mio padre. Mio padre cominciò…Chiesi a Darin McCormack di
scrivere quello che mio padre diceva. Ci ammaleremo tutti un giorno. Diventeremo il centro dell’attenzione e poi
diventeremo invisibili. Succede a tutti, se conosci qualcuno che si sia ammalato o se ti ammali o quando invecchi, è un
problema di coscienza. In un certo senso quello che Jean-Dominique diceva è, “Quando stavo bene, non ero vivo, non c’ero,
ero molto superficiale. Ma quando sono tornato – il punto di vista della farfalla – Ero rinato come un io.” Così è potuto
diventare un grande scrittore.
Pensa che la storia di Jean-Dominique si possa paragonare alla vita di un artista?
Sì, naturalmente, la scrittura l’ha salvato. La sua vita interiore ha preso forma perché lui ha iniziato a scrivere il libro.
Lo stesso succede con l’arte. Il libro gli ha dato una ragion d’essere, ha dato la vita a lui, alla sua famiglia. Grazie al
libro, per loro, in un certo senso, è come se lui fosse ancora vivo. E’ un modo di affrontare il dolore. Nel suo lavoro di
artista, sia pittore che regista, che posto ha la letteratura? Fare cinema è riscrivere, tutto il tempo. Montare è
riscrivere. Quando dipingo non
reinterpreto, non trasferisco nulla. Lo faccio e basta. Non c’è nessuna trasposizione. Nella scrittura non c’è trasposizione
se stai scrivendo, per esempio, un romanzo. Ma se scrivi qualcosa che poi sai che diventerà un film, allora devi
trasformare un testo in un’altra forma. Una volta che hai fatto questa trasposizione, ti puoi comportare come se stessi
dipingendo.