Silenzio, primi piani di Kim Rossi Stuart, musica, poi stacco e ci si ritrova tra gli esotici colori di una spiaggia
tropicale e i suoni dolci e nostalgici di una musica dalle parole ‘incompresibili’. Questi i primi minuti di
Piano, solo, ultimo film di Riccardo Milani. Regista affermato, già noto al pubblico (come ad esempio
Auguri
Professore con cui esordisce nel 1997,
La guerra degli Antò due anni dopo e
Il posto dell’anima del
2003), questa volta porta sul grande schermo la storia di Luca Flores, jazzista italiano dal grande talento, vissuto nella
penombra delle sue stesse ‘gabbie’ e caduto nell’oblio dei più.
Alla base del racconto cinematografico si trova la biografia del jazzista,
Il disco del mondo-vita breve di Luca Flores
musicista, scritta da Walter Veltroni. Il titolo del libro si rifà a
Il clavicembalo ben temperato di Bach,
disco amato da Luca (nel film ricordato come regalo della madre a Luca bambino e anni dopo ritrovato dal padre e ripreso
tra le mani da Luca-Kim Rossi Stuart) mentre Piano, solo vuole far echeggiare la musica per solo pianoforte di Sergei
Rachmaninov con cui le prime inquadrature iniziano a raccontare il grande talento di Luca. È infatti con un brano del
compositore russo che Luca incanta ed emoziona la platea, sia essa quella della finzione filmica (professori e uditori al
Conservatorio) sia quella della realtà della sala. A rimanere entusiasti sono, in particolare, due ragazzi, Raffaele ed
Alessandro, un contrabbassista e un batterista, che non perdono l’occasione per proporre a Luca il jazz. Un genere musicale
sconosciuto al neo-diplomato, dedito fino ad allora alla musica classica e per questa ben voluto dal padre (Michele
Placido), pronto infatti ad ammonirlo “…non vorrei che ti allontanassi troppo dalla musica classica”.
Ma Luca ‘entra’ subito nel ritmo jazz. Gli piace. Nasce il trio e il successo non tarda a venire. Chiamati a suonare a
‘La Rosa’, locale notturno che segna il debutto per il trio, trovano già nel quotidiano del giorno dopo la conferma del
‘trionfo’. Così Luca, iniziato al jazz da un disco di Bud Powell, sembra relegare in secondo piano la classica, ma i
fantasmi del passato non lo dimenticano.
Nell’alternarsi di presente-passato la regia di Milani trova la soluzione spazio-temporale per intrecciare quei fili della
memoria di Luca che nel disorientamento di una vita ‘a metà’ trovano continui nodi, sia che si guardi al passato, al
presente o (qualora ci si riesca) al futuro. Da qui, la costruzione narrativa poggia su un uso del montaggio che trova
nel flashback un costante ‘interlocutore’ agli anni del presente, ai loro ‘fantasmi’, ai loro ‘incomprensibili’ stati
d’animo e sentimenti. Già tra le prime righe, qui scritte, si può intuire un luogo e tempo ‘altro’, entrambi lontani e
vicini insieme (tanto vicini da mescolarsi e provocare ‘vertigine’ in Luca, ma altrettanto lontani da rendere questo
Luca un sofferente estraneo alla sua stessa famiglia).
Il presente è la Firenze degli ultimi anni di Luca (si ricorda che Luca Flores, nato a Palermo nel 1956 muore suicida
trentanov’enne, nel 1995, a Firenze), il passato sono gli anni dell’infanzia in Africa, in Mozambico, dove vive con tutta
la famiglia: un fratello (Pablo), due sorelle (Barbara e Heidi), la madre Jolanda e il padre Giovanni. Milani mette subito
a fuoco il carattere ‘particolare’ di Luca bambino che vive con disagio le assenze del padre (geologo) e l’insonnia della
madre (simbolico sintomo, non certo reale problema). Ed è proprio attorno al personaggio della madre, Jolanda, che la
tragedia trova, per i Flores, il duplice modo di consumarsi. Un campo-controcampo sui generis, tra gli occhi di Luca e
quelli della madre riflessi allo specchietto retrovisore dell’auto, accompagna ‘bene’ la tensione dello spettatore verso
la prima tragedia. Gli occhi, lo sguardo tra madre e figlio, l’ ‘inganno’ dello specchio, la relazione difficile di Luca
con la famiglia, l’auto che corre, la madre che non sa staccare gli occhi da quel figlio ‘capriccioso’, da quello sguardo
che forse le sembra un ‘regalo’ inaspettato o da quell’anima che forse le nasconde ‘troppo’, insomma forse uno sguardo
‘giusto’, d’intesa, nel momento ‘sbagliato’ però perché l’auto sbanda e… quello sguardo è perso per sempre. Luca si salva
ma Jolanda no: qui qualcosa in Luca si spezza in due (Luca stesso, si potrebbe dire) e mai verrà ricucito. Il successo di
jazzista che lo porterà a rompere il trio iniziale per seguire il grande trombettista Chet Baker e la relazione con
Cinzia, una cameriera de ‘La Rosa’, non saranno mai abbastanza ‘importanti’ per sottrarlo alla sua paura più grande,
la paura di diventare pazzo. Le gite in montagna con Cinzia e poi anche con il padre e le serate a suonare in pubblico
tengono, sotto l’apparente ‘normalità’, un incorreggibile senso di colpa e un incoercibile risentimento verso il passato
sempre vivo attraverso le immagini della madre, ferme nelle memoria o immortalate nelle fotografie.
Solo “…quando faccio le scale… mi dimentico di tutto”, dice Luca. Forse l’ordine che impongono, la logica che seguono,
il ‘senso’ che hanno, i legami che stabiliscono, forse tutto questo o forse altro, riesce ad essere ciò che più assomiglia
a quanto perduto (o mai avuto), che poi sia musica non ha importanza perché Luca ha compreso che “La musica è il
linguaggio dell’anima” e, allora, da qui, a ognuno sia dato immaginare quale suono (ammesso che ne abbia di differenti)
può avere una scala musicale per un’anima ‘spezzata’.
Il disagio di Luca si legge in tutte le relazioni, familiari e non. L’impaccio che riempie la scena del primo incontro con
Cinzia, la ‘chiusura’ che comunque caratterizza il rapporto con i due amici, Raffaele ed Alessandro, il ‘freddo’ che
continua a sopravvivere tra Luca e il padre, se nella musica trovano il più sicuro rifugio, nella sorella Barbara (la Baba
interpretata da Paola Cortellesi) due braccia sempre aperte. È il padre per primo a dire “…sembri matto…” quando Luca,
cercando di tradire se stesso, la rabbia e il rancore, porta al padre un atlante (omaggio al suo amore per il viaggiare)
e salta fuori con “…non è colpa tua se non siamo più una famiglia”. Regalo sincero o ironico oggetto tanto ‘inutile’
quanto efficace? ‘Consolazione’ credibile o mai creduta verità?
È difficile, forse (giustamente) impossibile leggere il padre in ‘bianco e nero’, una figura ben interpretata da Michele
Placido (invecchiato nei connotati) che, nonostante il personaggio di padre autoritario, mai prende il sopravvento su
Rossi Stuart. E così tutti i personaggi, in primo luogo la madre che, se per esigenze di copione non interpreta una
‘grande’ parte è pur vero che rimane sempre fedele ai mezzitoni dei suoi ruoli drammatici, di cui, invece, Paola Cortellesi
sa ben condurre il ‘gioco’ emotivo qui sostenuto nel ruolo (pur sempre secondario) di sorella. Nemmeno Cinzia emerge (sia
sempre perché così vuole il copione, sia perché così Jasmine Trinca ‘vuole’ o sia perché questo entrambi vogliono…ognuno
provi a vedere) così come i due ragazzi del trio jazz.
Ma perché soffermarsi a elencare tutti questi personaggi secondari quando, si sa, il protagonista è Luca Flores? Certo, un
Luca che interpretato da Kim Rossi Stuart sa tenere ‘alto’ il coinvolgimento alla storia (e qui si vuole ricordare che
questo è il secondo approccio di Kim Rossi Stuart con un personaggio psichicamente instabile, il primo risale a
Senza
pelle del 1993 di Alessandro D’Alatri), tuttavia un attore che non sembra trovare abbastanza spazio per liberare la
creatività del personaggio. Non è la musica a mancare e nemmeno qualche attimo di ‘leggerezza’, si tratta piuttosto di un
Luca che, nonostante la musica amata e suonata, ha già (o ormai) chiaro che nella sua vita non c’è più musica che lo
strappi al passato.
Il dramma è forte, il ritratto che Milani ne fa è duro (elettroshock incluso), i grossi temi proposti, fra cui quello del
‘genio incompreso’ e della follia non cadono nel banale patetico ‘facile’ simbolismo, forse uno dei maggiori rischi dei
‘grandi’ temi portati sullo schermo, tuttavia la ‘lotta’ di Luca rimane come ‘ovattata’ in mono-tono bilico e in un
inevitabile sottomissione, la sua carica al pianoforte rimane là imprigionata e sempre lo abbandona se si tratta di uscire
dalla solitudine (è solo un caso che Luca si tagli il dorso della mano sinistra sopra il pianoforte per poi urlare “Mamma,
papà!”?).
E così, di conseguenza, Kim Rossi Stuart convince, ma sempre più laddove lo sguardo intimista del regista lo vuole
intrappolato nel passato e nella famiglia più che nella ‘difesa’ della sua musica. Questa, accompagna quasi l’intero film,
ma la colonna sonora sembra voler ricordare il ‘genio’, il genio e la sua musica, piuttosto che l’incomprensione di questo:
mentre Milani affida alle immagini il racconto tragico lascia che la musica sia vero omaggio a Luca Flores.
Saranno i due amici, Raffaele ed Alessandro, a suggerirgli di continuare a suonare, ma Luca finisce col battere i tasti con
un dito, poi con i pugni infine con i gomiti: una delle poche scene in cui Luca ‘rifiuta’ il pianoforte. Ma il pianoforte
lo riprenderà per ‘scrivere’ il suo addio. Una lettera e tre pezzi registrati è ciò che Luca manda al padre prima di
togliersi la vita. Mentre nella prima confessa che avrebbe voluto essere più forte, magari avere una sua famiglia, ma che
ha sempre occupato il tempo tra il pianoforte e lo stare attento ai pensieri che lo portavano via, tra i pezzi include uno
dal titolo
How far can you fly – domanda, dice, che si è posto per tutta la vita e che nemmeno il ritorno nella
terra africana, sempre presente nel cuore e nella testa di Luca, riuscirà ad essere qualcosa di più di un temporaneo
‘sospiro’.
La morte della madre in Africa e quelle immagini ancora vive, il ricordo delle lunghe spiagge del Mozambico, della madre
che lo sta a guardare e dei filmini girati continuano ad ‘torturare’ Luca, poi la difficile relazione con Cinzia e poi
ancora la notizia della morte dell’amico Chet Baker segnano sempre più il passo verso quella pazzia che Luca stesso
descrive alla sorella Barbara come la sensazione di “uscire dal corpo”, di doverlo controllare e tenere con i fili. Così,
stritolato tra il senso di colpa per la morte della madre, di Chet…e , forse anche del figlio che Cinzia avrebbe potuto
avere, il dolore, la solitudine e la paura della pazzia… decide di risparmiare al padre la pena di vederlo ridotto
‘vegetale’ fino al momento di doverlo seppellire.
La solitudine del bambino diventa l’insostenibile peso di un uomo che, vulnerabile, si sente sempre più ‘aggredito’ (siano
i ricordi, sia la medicina, sia il ‘vuoto’ attorno a farlo) e che, impaurito, rimane sempre più vittima della sua
impotenza. Il suicidio, allora, e subito le immagini e la musica riconducono all’Africa… forse quel ‘posto dell’anima’ già
ricercato in passato (ma ben altrove) dal regista.