Quante libertà si è preso nel portare sul grande schermo la sua vita e la vita dei suoi amici d’infanzia?
Mi sono preso delle enormi libertà. Non era il libro di James Frey! Ma si tratta della combinazione di un milione di storie
diverse (reali ed immaginate). Il personaggio di Mike O’Shea è in realtà un mix tra uno dei fratelli minori di Antonio e un
tizio di nome Mike O’Shea che veniva dall’Irlanda, che oggi vive in Inghilterra e che è vivo e sta bene, e quindi sarà
sorpreso quando scoprirà che nel film muore. Nel film racconto una storia, e la verità è nelle emozioni dei personaggi. Mio
padre viene dal Nicaragua, dove è nato e cresciuto, mentre mia madre è irlandese ma è nata a Coney Island, a Brooklyn.
Quando ero piccolo mio padre mi chiamava Casper perché ero molto bianco, ma sono cresciuto in un quartiere per lo più
italiano e greco dominato non dal razzismo, quanto dall’ignoranza.
Quali sono state le maggiori differenze tra scrivere un’autobiografia e girare un film basato sulla stessa?
L’idea di fare un film che fosse in qualche modo biografico non mi sembrava interessante e non lo era neanche per le altre
persone che hanno partecipato al progetto. Guardando un film come The Aviator di Martin Scorsese si può dire “quella sì
che è stata una vita interessante da raccontare”. Ma nel mio film quello che volevo catturare era semplicemente lo spirito
del libro che contiene almeno sessanta storie diverse mentre nel film ne puoi raccontare al massimo due senza diventare
pesante. Volevo concentrarmi su un preciso momento ed esplorarne i sentimenti, piuttosto che raccontare una storia
autobiografica.
Ha dovuto prendere decisioni importanti soprattutto riguardo ai momenti più tragici?
Una parte importante nella realizzazione di questo film, così come nella scrittura dell’autobiografia, è stata evitare di
giudicare o di mettere in cattiva luce qualcuno. Volevo semplicemente mettere le cose sotto gli occhi del pubblico. Odio
vedere le cose attraverso delle lenti colorate di rosa e quindi il pensiero dominante è stato mantenere i sentimenti il più
reali possibile. Si è trattato più di catturare le emozioni del libro, e anche tutto il loro calore, spero di esserci
riuscito.
Ha messo insieme un cast eccezionale grazie al quale ha vinto pure un premio al Sundance. Come ci è riuscito?
E’ stato uno strano viaggio ed è una domanda particolarmente difficile perché ci sarebbero tante risposte diverse da dare.
All’inizio ero letteralmente terrorizzato quando mi sono trovato davanti tutti quegli attori perché non avevo mai avuto
l’intenzione di fare un film pieno di star. Adoro film come Raising victor vargas e City of God che cercano di mantenere
le cose il più reali possibile. Ma questi attori hanno fatto un qualcosa di miracoloso. So che questa è la tipica risposta
di ogni regista quando vuole fare i complimenti ai suoi attori ma sono sincero quando dico che ognuno di loro singolarmente
ha fatto un qualcosa di molto speciale per me.
Cosa ha apportato Robert Downey Jr. al ruolo di Dito nel film?
Robert Downey Jr. è forse il più complesso tra tutti gli attori con cui ho lavorato. Quando ho scritto la parte, avevo in
mente proprio lui e quando gliene ho parlato, mi ha detto che avrebbe cercato di imitare l’accento del Queens o cose
simili, e questo mi ha veramente preoccupato. La cosa più difficile nel dirigere gli attori – ed è una cosa che ho imparato
alla svelta - è che una volta che hai messo qualcosa nero su bianco, quel qualcosa smette di esistere. A meno che non si
tratti di interpretare un personaggio come Gandhi, ma anche in quel caso non esiste più. Ciò che Robert ha messo nel suo
ruolo è esattamente l’opposto di quello che ci avrei messo io, perché Robert ci ha messo un qualcosa di molto reale. E’
arrivato sul set pensando che si trattasse di interpretare un tizio che torna nel quartiere in cui è nato e cresciuto e
capisce che tutti coloro che appartengono al suo passato sono dei perdenti – e invece non si trattava affatto di questo,
anche se io non glielo ho detto mai. Ma lui ha portato al suo ruolo una sorta di indifferenza, che sembrava quasi una forma
di risveglio lento e ha fatto un qualcosa di molto speciale.
Dito in realtà è lei, non è vero?
L’ho chiamato con il mio nome perché mi piaceva l’idea, ma una volta portata sul grande schermo, quella che vedete non è più
la mia storia anche se tutti pensavano il contrario e questo è stato molto buffo. Robert Downey Jr. non ha certamente
interpretato me in questo film. Io gli ho affidato un ruolo e lui lo ha fatto suo, e ha deciso lui come sentirsi in quel
ruolo. Quindi, anche se era naturalmente molto strano sentire ripetere in continuazione il mio nome, il film non è
autobiografico al 100%.
Come ha trovato Channing Tatum per il ruolo di Antonio? Sembra che fino ad oggi sia stato nascosto nei film per
adolescenti.
Ero molto preoccupato per quel ruolo perché il personaggio che avevo scritto era alto circa 1 metro e 80, aveva tratti
irregolari ed era tosto come Channing, ma certamente non così bello. E quando è arrivato Channing, mi sono detto: “Ma
questo è un fotomodello!”. Occhi azzurri, capelli biondi e inoltre viene dal sud. Ma poi siamo stati un po’ insieme e
abbiamo cominciato a discutere del ruolo. E alla fine ho scoperto che nonostante la sua evidente bellezza e il suo essere
del sud, aveva un qualcosa dentro che faceva sì che sarebbe stato in grado di interpretare quella parte, e così è stato.
Per me, come ho già detto prima, quello che conta sono le emozioni e lui è riuscito ad incarnare alla perfezione tutte le
qualità perdute che volevo mettere in Antonio. Non so come sia riuscito a compiere azioni che sono più o meno degli atti
criminali e a farle sembrare piene di compassione.
Quali sono le differenze tra la New York della sua adolescenza e quella odierna? E’ stato difficile trovare delle vie che
potessero sembrare uguali al 1986, considerato il generale imborghesimento della città degli ultimi vent’anni?
Astoria non é affatto cambiata rispetto al 1986. E’ vero che ci sono stati tanti cambiamenti a Brooklyn e a Manhattan ma il
Queens ha sempre dato l’idea di essere un agglomerato di tanti piccoli paesetti piazzati all’interno di una metropoli.
Abbiamo girato più o meno nelle stesse strade in cui erano avvenute le scene del film. Solo un giorno siamo stati nell'East
Village, e questa è stata la parte più difficile perché nei miei ricordi l'East Village era solo un cumulo di macerie. Ora
è diventato un pianeta a sè, con dei ristoranti alla moda anche su Avenue C. Tuttavia siamo riusciti a trovare un isolato
(East Third Street) che aveva conservato più o meno l'atmosfera degli anni '80, o almeno come me la ricordavo io. Ad
Astoria è stato molto più facile perché è restata più o meno come era.
Un elemento che è ruscito a rendere particolarmente bene è stata l’idea di un angusto appartamento di New York City in
un’estate insopportabilmente calda e afosa: come è riuscito a farlo senza cadere nei luoghi comuni?
Abbiamo lavorato facendo l’esatto contrario di quello che ci si sarebbe aspettato. Eric Gautier, il direttore della
fotografia non è mai invadente come cameraman, non è uno di quelli che si vuole infilare sotto la pelle dei personaggi o
fare una zoomata su un termosifone surriscaldato. E tutto il film è stato girato seguendo questo principio. Ero convinto
che le cose sarebbero emerse anche senza insistere sugli elementi più ovvi e banali. Ed è lo stesso ragionamento che
abbiamo applicato a tutto, dalla recitazione ai costumi. Sapevamo che le cose sarebbero emerse da sole. Non avevo certo
bisogno che gli attori ripetessero in continuazione espressioni tipicamente newyorchesi e sapevo di non avere bisogno di
mostrare di tanto in tanto l’Empire State Building, per far capire che eravamo a New York. E' così che abbiamo lavorato ed
è questo che intendo quando affermo che abbiamo lavorato facendo l'esatto contrario di quello che ci si sarebbe aspettato.
Abbiamo cercato di mettere in evidenza le cose meno ovvie che forse riescono meglio a descrivere le cose.
Guida per riconoscere i tuoi santi è per molti versi é un film di atmosfere nel quale ha usato espedienti un po'
particolari, ad esempio i momenti in cui i personaggi parlano rivolti verso lo schermo o alle voci fuori campo che sono
usate in una maniera piuttosto anticonvenzionale. Ha tentato in tutti i modi di fare un film che uscisse dagli schemi?
Devo confessare che non c’è stata alcuna sorta di pianificazione, di nessun genere. L'unica cosa che abbiamo pianificato è
stata cercare di far sembrare le cose il più reali possibile. La speranza era che il pubblico avesse la sensazione di vivere
il film più che di vederlo. Molte scene del film, essendo ambientate nel 1986, sono concepite come frammenti di memoria. E
come si fa a rimettere insieme quei pezzi dopo tanto tempo? E' stato questo l'unico pensiero che avevamo in mente e che
abbiamo seguito.
E le voci fuori campo?
Abbiamo cercato di allontanarci il più possibile dall’uso più tipico dei voice over e dei flashback. Non so molto di cinema,
so solo che è una forma di arte che amo. So che il tizio che ha scritto Midnight Cowboy ha detto che era piuttosto nervoso
all’idea di mettere dei flashback nel film. Non voleva ottenere un effetto del tipo: “Oh, ricordo quando…”. E per quanto
riguarda le voci fuori campo, non avevamo stabilito alcunché e non c'era nulla di pianificato, come nella scena in cui Dito
e Mike sono sulla metropolitana e parlano. Ricordo di aver osservato la scena e di aver pensato che non bisognava
meravigliarsi se nessuno voleva fare questo film, perché quello che dicono si sente appena. Ma in questo film contano più
i non detti, e in effetti la storia parla di persone che non dicono le cose. Se ascoltate con attenzione le voci fuori
campo vi renderete conto che sono delle conversazioni e non tanto delle spiegazioni.
Il film ha preso vita durante la post-produzione?
Si è trattato di una combinazione di fattori ed è per questo che è stato molto divertente. Girare per le strade è stato
divertente perché ho cominciato a vedere dei pezzi del film che prendevano forma. Prendiamo per esempio i “giornalieri”,
termine che fa parte di uno slang tutto nuovo che ho dovuto imparare e che in genere indica quella cosa di cui tutti si
innamorano sul set ma che poi tutti trovano deludente al momento del montaggio. Bhé, la mia esperienza con i giornalieri è
stata esattamente il contrario. Ogni volta che li guardavo mi sarei sparato. Mi sembravano solo un ammasso di sciocchezze e
follie ma tutto è cambiato quando ho visto un attore del calibro di come Chazz Palminteri che esprimeva il suo
apprezzamento.
Non deve essere stato facile scrivere la sua autobiografia e in un certo senso liberarsi di tutti i traumi che ha
vissuto. Come è stato trasformare la sua autobiografia in una sceneggiatura? E' stato catartico per lei in un certo
senso?
Quando ho iniziato a lavorare con Eric Gautier gli ho detto che avevo amato molto Requiem for a dream di Darren Aronofsky,
ma in questo caso di trattava di un quartiere diverso. Avevo amato molto anche Clockers di Spike Lee, ma anche in quel
caso il film si svolgeva in un altro quartiere. Volevo che Astoria sembrasse un bel posto, perché è così che me lo
ricordavo. Ma la bellezza comporta sempre una certa dose di dolore perché così è la vita. E ho detto ad Eric che volevo
tornare a camminare per quelle strade e innamorami di nuovo di Laurie. E quindi non è stato troppo doloroso, perché è stata
una sorta di passeggiata per le vie della memoria.
Dove sono ora i personaggi del film, quelli che sono ispirati a personaggi realmente esistiti e che hanno fatto parte
del suo passato?
Mia madre è morta. Nerf sta ancora alla grande, e guida le ambulanze. Il fratello minore di Antonio è fuori di testa, e ho
messo in bocca a Nerf alcuni dei suoi dialoghi. Giuseppe fa il criminale di professione, Antonio è ancora in prigione e
Laurie è morta di AIDS due anni fa.