E’ stato difficile ripercorrere questa esperienza personale?
Attraverso la scrittura si crea una distanza. Non ho mai riscritto quello che è realmente accaduto. E’ per questo che amo il
mio film. Parto da una situazione traumatica, ci lavoro sopra, mi interrogo su cosa è accaduto, la drammatizzazione e la
finzione fanno poi il loro effetto. E’ persino piacevole come processo.
Uno degli aspetti interessanti del film è di aver riunito due veri fratelli per interpretare Thierry e François. Come hai
pensato ai fratelli Rénier?
Ho conosciuto Yannick prima che Jérémie facesse La promessa. L’avevo visto lavorare a teatro con Frédéric Dussenne, di cui
sono stato assistente alla regia. Ho sempre pensato che avesse qualcosa d’interessante. E poi Jérémie ha avuto successo al
cinema e ho avuto voglia di riunirli per Proprietà privata. Quello che non sapevo è che ci sarebbero voluti sette anni per
fare il film. Ma fin dalla prima stesura della sceneggiatura gli ho proposto di partecipare al mio progetto. Volevo una
recitazione credibile e ero convinto che due veri fratelli potessero darmela.
Isabelle Huppert è arrivata tardi sul progetto e il ruolo della madre a quel punto doveva essere già costruito. Cosa ha
portato al film?
La difficoltà della scelta di Isabelle Huppert era di conservare la pertinenza del triangolo – madre e due figli. Questa
pertinenza è quanto di più impressionante nella sua recitazione. Isabelle ha un rapporto piuttosto spontaneo con la scena.
Le riflessioni che fa prima di immergersi nel suo ruolo sono molto interessanti. E ciò che è straordinario è il suo essere
intuitiva e riflessiva allo stesso tempo.
Dall’origine del progetto alla sua concretizzazione, il personaggio della madre, Pascale, si è trasformato?
E’ stata una delle grandi questioni fin dalla sceneggiatura, attraverso tutte le altre tappe fino al montaggio: la madre è
il personaggio principale o no? Il film è la descrizione di un sistema familiare e in questo sistema non c’è una persona più
importante dell’altra. E’ sufficiente allontanarsi dal sistema perché il conflitto cessi. Affinché lo spettatore prenda
coscienza della perversità dei rapporti tra i
personaggi, dovevo poter trattare ciascuno di loro con lo stesso coinvolgimento. Per me tutti e tre i personaggi sono
ugualmente importanti.
E il quarto protagonista è la casa.
Sì, c’è anche un problema di materialismo. Ho assistito a molti litigi per la divisione di una casa. Un luogo è interessante
se ci sviluppa qualcosa. Diventa pericoloso non appena diventa un campo di concorrenza. Proprietà privata è una riflessione
sul godimento che si può avere dalla proprietà. E in fondo fare cinema permette anche di godere di tutta una serie di cose
senza possederle.
Perché la scelta di utilizzare dei piani sequenza fissi?
Volevo che ogni personaggio fosse costretto ad uscire dall’inquadratura se voleva allontanarsi. L’inquadratura è come una
casa che i personaggi non riescono a lasciare. Per me era una scelta coerente rispetto al soggetto del film. Un altro
aspetto del film è l’incapacità di lasciare il posto a una terza persona. Volevo mostrare attraverso questi piani fissi
che quando ci sono solo due personaggi va tutto bene, ma all’arrivo di un terzo c’è una disfunzione che genera il conflitto.
E c’era anche il piacere di lasciare uno spazio agli attori e al loro lavoro.
E’ sorprendente notare che ogni volta che c’è una scena in cui si sta seduti a tavola, c’è un momento di tensione.
Mangiare è una delle cose che facciamo più spesso nella vita. E alla lettura della sceneggiatura molti dicevano che c’erano
troppe scene a tavola. Ma il cibo è libido, è pulsione di vita. I due fratelli non smettono mai di mangiare e la madre non
smette mai di nutrirli: è una rappresentazione significativa di quello che succede all’interno di questa famiglia.