FUORISCHERMO

 

SILVIO ORLANDO
L’ attore: passione, consapevolezza, sfida
Bianco e nero Un’interpretazione faticosa, attuale, profondamente umana. Con il personaggio di Michele Casali Silvio Orlando aggiunge un altro significativo tassello alla sua ormai ventennale carriera: “Con gli anni, come attore, cerchi sempre più di andare nella direzione di un’analisi più profonda delle relazioni umane e non ti va più di rimanere in superficie… e alla mia età si ha bisogno come il pane di personaggi così intensi come quello affidatomi.”
Sensibilità e qualità nella scelta dei film e una costante capacità di orientarsi tra teatro, televisione e cinema. La recitazione, infatti - secondo Orlando – “ (…) è recitazione e basta. Poi certo, può arricchire le proprie caratteristiche a seconda dei mezzi espressivi utilizzati. L’attore è il mestiere dove è più impossibile fare dei calcoli.”
Gli esordi a Napoli, in palcoscenico, con Carpentieri, Taiuti, Neiwiller e poi la svolta a Milano con i due spettacoli Comedians (1986) ed Eldorado (1987), per regia di Salvatores. Con quest’ultimo girerà nello stesso anno Kamikazen – Ultima notte a Milano. Tra il 1988 ed il 1991 con ironia e graziosa leggerezza prende parte alle serie televisive Zanzibar, Emilio, Vicini di casa, dove porta con sé anche la propria verace anima partenopea.
Bianco e nero Silvio Orlando è versatilità, impegno, consapevolezza: “Amo questo lavoro perché è dialettico, mai oggettivo, si modifica a seconda delle persona con cui lo si fa (…) il lavoro dell’attore è soprattutto di ascolto; ecco che cosa consente di amalgamarsi, creare un’ armonia, abitare bene il film…” Perché spesso vediamo il cinema italiano produrre film “disabitati”, in cui i singoli elementi compositivi non riescono, nel complesso, a dare il risultato sperato. Declinando la gamma dei sentimenti umani per registi quali Luchetti, Mazzacurati, Calopresti, Virzì i personaggi interpretati da Orlando vivono la complessità del quotidiano, il lato poetico e faticoso assieme della realtà, le fragilità emotive e soprattutto la tenacia di uomini talora sconfitti dagli episodi della vita e della Storia, ma non vinti. Mi tornano alla mente numerose immagini: Arriva la bufera, La scuola, Ferie d’agosto, Auguri Professore, Il posto dell’anima, Un’altra vita, Preferisco il rumore del mare…
E il mio personale ricordo di spettatrice si posa su due “ricorrenze artistiche” della carriera di Orlando: i due film interpretati per Giuseppe Piccioni ed il sodalizio umano ed artistico con Nanni Moretti.
La Milano rarefatta di Fuori dal mondo (1999), fa da sfondo al personaggio di Ernesto, un’interpretazione ulteriore, nuova per Orlando, di un uomo silenzioso e solo che sotto la scorza indurita Bianco e nero dalle delusioni dell’esistenza fa riaffiorare una sconosciuta emotività. Roma invece, nell’ irrisolto Luce dei miei occhi, dove Piccioni vuole Orlando come cinico strozzino che si introduce tra le esistenze sofferenti dei due protagonisti Luigi Lo Cascio e Sandra Ceccarelli. Amplissimo il ventaglio espressivo sperimentato da Silvio Orlando a contatto con l’ingombrante personalità morettiana: da Mario, allenatore di pallanuoto in Palombella rossa (1989), in bilico tra comico e nevrotico al professor Sandulli umano e coraggioso nello squallore italiano di tangenti e corruzione ne Il portaborse. E ancora in Aprile (1998), una sorta di divertente autobiografia di attore nei confronti dell’imprevedibile regista, che continua a rimandare l’inizio delle riprese del musical anni ’40 sul pasticcere troztkista; il commovente ma logorroico Oscar, che affronta lunghe sedute sul lettino dello psicanalista Moretti ne La stanza del figlio (2001). E l’ultimo - per ora - atto della convivenza artistica tra i due: la creazione ad hoc per Silvio Orlando del controverso e caotico produttore cinematografico Bruno Bonomo ne Il Caimano (2006). Primo David di Donatello come attore protagonista per questo ruolo di grande maturità espressiva e personale, di complessità a tratti buffa e di “ (…) grande rispetto che richiede, esige, reclama, pretende, questo piccolo personaggio perché alla fine la differenza dell’amore che ci mette chi fa La dolce vita o un film di nessun valore è minima: c’è lo stesso spreco di vita, lo stesso modo di darsi senza senso, senza nessun calcolo e questo piccolo personaggio che ha fatto film improbabili alla fine assume la figura di un gigante come se avesse prodotto i film di Fellini o di Scorsese.”