La rapina che finisce (nel) male è un classico del cinema americano, da
Giungla d'asfalto di John Huston (1950),
capostipite del genere, a
Le iene di Quentin Tarantino (1992) - originalissimo
script dove la rapina non si
vede mai e se ne mettono in scena solo gli effetti collaterali - passando per
Rapina a mano armata di Stanley
Kubrick (1956) e
Strategia di una rapina di Robert Wise (1959). Sidney Lumet (classe 1924, Oscar alla carriera nel
2005), vecchio leone del cinema hollywoodiano (ricordiamo almeno
A prova di errore del '64,
L'uomo del banco dei
pegni del '65,
Serpico del '73,
Quinto potere del '76,
Il principe della città dell'81 e
Il
verdetto dell'82), tornato prepotentemente a ruggire dopo un ventennio di saliscendi espressivi, aveva già affrontato
il tema in
Rapina record a New York (1972) e soprattutto in una delle sue maggiori opere,
Quel pomeriggio di un
giorno da cani (1975).
Onora il padre e la madre recupera i
losers e il tono dolente quanto disperato
proprio di quest'ultimo (qualcuno ricorderà la grande interpretazione di Al Pacino e John Cazale, reduci dal Vietnam e dai
due
Padrino di Coppola), occhieggiando alla collateralità del film di Tarantino (anche qui la rapina, come la sua
preparazione, sono accessorie nei confronti dell'economia del racconto, che ha ben altri intenti che quello di sondare le
parti più critiche del piano criminoso), e soprattutto alla complessa partitura narrativa del primo capolavoro kubrickiano,
virata però secondo i dettami contemporanei di una frammentazione cronologica che gira continuamente intorno a se stessa.
L'epicentro narrativo di
Onora il padre e la madre è la balorda idea che il laido Andy (Philip Seymour Hoffman)
propone al fratello minore Hank (Ethan Hawke): svaligiare la gioielleria di famiglia, recuperando un po' di soldi per
sanare i debiti e le frustrazioni del loro quotidiano, contando poi sul rimborso dell'assicurazione per sanare il senso di
colpa. Il furto, che Hank avrebbe dovuto gestire in prima persona, ma che invece decide di affidare a un criminale di mezza
tacca, finisce male, e nel sangue. La madre di Andy ed Hank, che non doveva essere al negozio, spara sul rapinatore,
venendo a sua volta colpita mortalmente. Andy, che faceva il palo in auto fuori dalla gioielleria, scappa dopo lo scontro
a fuoco. Il resto del film è una reazione a catena verso il peggio.
La sceneggiatura di Kelly Masterson va avanti e indietro nel tempo, alternando fatti e azioni precedenti e successivi alla
rapina, articolando l'intreccio lungo tre principali assi narratologici (i due figli Andy e Hank più il padre Charles,
interpretato da Albert Finney) incastrandole internamente attraverso puntali raccordi. La struttura è indubbiamente
à la
page, e il meccanismo è talmente studiato da sfiorare il virtuosismo, ma l'operazione non è gratuita. Come già in
21 grammi di Iñarritu, ma senza il suo radicalismo, anche qui il mondo va infatti a pezzi e non ricomporlo è più
possibile, con conseguenze drammatiche anche per il racconto, che non può più procedere in modo lineare. Ma la mancanza di
linearità è anche funzionale allo scavo del vero movente della rapina, latente sotto la superficie delle cose, e svelato
poco a poco attraverso questi continui andirivieni spazio-temporali.
Il colpo alla gioielleria, infatti, si rivela poco a poco come la rivalsa di Andy verso gli elementi maschili della
famiglia, la sua personalissima vendetta contro il padre Charles, ai suoi occhi ingiusto quanto ingombrante dominatore, e
il fratello Andy, visto da sempre come il "bello" e il "cocco" di casa, che oltretutto è l'amante della moglie (Marisa
Tomei). Il
noir lascia così spazio alla tragedia familiare, ai suoi rancori mai assopiti, alle sue faide interne,
alle sue deliranti, assurde, maldestre rese dei conti. Il nero del sottosuolo psichico emerge in tutta la sua drammatica
sgradevolezza sotto le mentite spoglie di una rapina che vuole essere la distruzione fisica e morale dei veri colpevoli
agli occhi di Andy. Per colpire a morte il padre bisogna fargli svuotargli la gioielleria dal figlio prediletto, diventato
nel tempo un debole e un fallito, uno che non riesce a pagare gli alimenti alla ex moglie ma che va a letto con la moglie
del fratello, incassando insulti e umiliazioni da tutti. Ma chi compie questa vendetta del sangue è un uomo moralmente
abietto, un immobiliarista che falsifica i conti, un tossicodipendente, un uomo volgare. E chi muore, in realtà e da
subito, è la madre, vittima non predestinata e inconsapevole. Ma tutti finiranno nel gorgo, e tutti si sporcheranno le
mani. Andy non riuscirà a uccidere Hank, che probabilmente fuggirà con una parte di un bottino che non è quello della
rapina, mentre Charles, scoperta la verità, non esiterà ad assassinare Andy, soffocandolo a morte. Dalla vendetta alla
vendetta. Parallelamente il film svuota di senso (quantomeno "canonico") il meccanismo della rapina, usandolo come il più
classico degli specchietti narrativi per le allodole o dei McGuffin d'hitchcockiana memoria (senza che qui Hitchcock
c'entri qualcosa, beninteso). Non più infatti l'esplorazione del meccanismo ad orologeria, del piano perfetto (
Giungla
d'asfalto e
Rapina a mano armata, ma anche
Inside Man di Spike Lee, senza contare i lambiccati manierismi
della serie
Ocean's firmati Steven Soderbergh), puntualmente sbeffeggiati dal destino beffardo (sempre
Giungla
d'asfalto e
Rapina a mano armata, ma anche
Strategia di una rapina), né l'irreversibile gioco al massacro
del "dopo" (
Le iene), ma solo il pretesto per dirigere l'attenzione verso qualcos'altro che si nasconde dietro e
dentro la flagranza del reato.
Lumet, da sempre un grande direttore d'attori (hanno lavorato con lui, offrendo spesso interpretazioni indimenticabili,
alcuni dei più grandi attori della tradizione americana, da Henry Fonda a Rod Steiger, da Paul Newman a Sean Connery, da
William Holden a James Mason, da Al Pacino a Peter Finch), dirige da par suo un quartetto d'interpreti al loro meglio. A
partire da un Albert Finney (già nel cast di
Assassinio sull'Orient Express) da applauso (la sua recitazione è tutta
di volto, nel muovere una palpebra, nello sgranare gli occhi, nelle smorfie della bocca) per arrivare al camaleontico
Philip Seymour Hoffman, che alterna corpo e mimica facciale, carnalità e silenzi, accessi d'ira e stasi immote (guardateli
recitare insieme nel serrato faccia a faccia finale). Fino alle migliori prove di un convicente Ethan Hawke nei panni di
un uomo fragile e passivo, mai cresciuto davvero e fregato dalla vita, e di una Marisa Tomei solida e inconsapevole
moglie/amante dei due fratelli.
C'è una luce bianca, diafana, in chiusura di film, un'assolvenza che non assolve nessuno, un barbaglio di luce prima del
buio definitivo, e c'è veramente da sperare per i protagonisti di questa tragedia familiare che il diavolo, come suggerisce
il brillante titolo originale (
Before the Devil knows You're Dead, da un proverbio irlandese), non si accorga di
questi morti né del nero delle loro anime, destinate senz'altro a bruciare all'inferno.