Con
Non è un paese per vecchi, il cinema di Joel ed Ethan Coen torna a misurarsi, dopo due escursioni non
particolarmente brillanti nel campo della commedia (
Intolerable Cruelty e soprattutto
The Ladykillers,
dimostrazione quest'ultimo di quanto il
remake "diretto" - e non quello "sincretistico" tipico della loro produzione
- non sia proprio il loro "genere" elettivo), con il noir/i>, da sempre epicentro narrativo del loro cinema. Al di là
delle strutture narrative a incastro dei loro film, il cui genere di riferimento è spesso dubbio, per non dire incerto
(poiché derivante da una consapevole contaminazione di generi diversi), tanto da poter definirli come "contenitori
multipli", la traccia (o sottotraccia)
noir si palesa spesso come il filo rosso della filmografia coeniana: da
Blood Simple a
Barton Fink (dove il
noir deraglia nell'horror), da
Miller's Crossing (ovvero
Crocevia della morte, un
gangster-movie in salsa
noir con un
private eye mascherato da
malvivente) a
Fargo (un
noir di ghiaccio, dove il bianco permea e annulla il nero della storia) a
Il
grande Lebowski (originale, quanto geniale, rilettura in chiave di commedia satirico-parodistica di un classico
hard-boiled come
Il grande sonno di Raymond Chandler), fino a
L'uomo che non c'era, omaggio in bianco
& nero ad alcuni classici del genere come
Fiamma del peccato di Billy Wilder e
Il postino suona sempre due
volte di Tay Garnett.
Ma al di là dell'ennesima variazione sul genere -
Non è un paese per vecchi è una sorta di
noir tardowestern
- l'ultimo film dei Coen appare come un sensibile cambio di rotta rispetto alla precedente filmografia. Il film non è
infatti frutto di una sceneggiatura originale ma è l'adattamento del romanzo (omonimo,
No Country for Old Men) di
Cormac McCarthy, che non solo non è uno scrittore del passato (come i numi tutelari dei Coen, da Dashiell Hammett a James
M. Cain a Raymond Chandler), ma addirittura uno dei massimi scrittori americani contemporanei. Nel film non compare - né in
un ruolo principale né in altri più laterali - nessuno degli attori-feticcio dei Coen: in luogo di John Turturro, Steve
Buscemi, Frances McDomand, John Goodman, Jon Polito, Holly Hunter (e recentemente di George Clooney), ci sono i "nuovi
volti" di Josh Brolin, Javier Bardem, Tommy Lee Jones e Woody Harrelson. E (casualmente?) il film segna un sensibile cambio
di rotta rispetto al passato, soprattutto in termini di registro drammaturgico.
Ogni precedente opera dei Coen (almeno fino a
L'uomo che non c'era) mescolava infatti - con dosaggi spesso perfetti
- ingredienti miscellanei (di trama, di personaggi, di generi, di elementi narrativi) in uno scenario tanto sincretistico
quanto "parodistico" (nel doppio senso di "imitazione satirica" e di "contaminazione tra codici di linguaggio e di
rappresentazione"). Una "destrutturazione" che peraltro non ha mai aggredito frontalmente il linguaggio né soprattutto il
meccanismo della linearità narratologica, che nella maggior parte delle loro opere ubbidisce a un rigoroso ordine
cronologico degli avvenimenti, a differenza dei più radicali sperimentatori del nostro presente, da Quentin Tarantino a
Christopher Nolan, da Gus Van Sant a Michel Gondry, a Alejandro G. Iñarritu (e, conseguentemente, gli "script" radicali di
un Charlie Kaufman o di un Guillermo Arriaga). Frequenti sono infatti le riletture "alla rovescia" di alcuni personaggi
chiave dei generi di riferimento: il detective privato laido e corrotto - in luogo di quello tutto d'un pezzo della
tradizione
hard-boiled - di
Blood Simple; il gangster che è invece uomo d'onore di
Miller's Crossing;
le
dark lady molto
sui generis di
Blood Simple e di
Miller's Crossing; lo scrittore fintamente
tormentato (quanto invece vanesio e arrogante), e il piazzista che è in realtà un efferato serial killer di
Barton
Fink; i criminali sbadati (e sbandati) di
Fargo; le parodie impietose - dal reduce del Vietnam ai "nichilisti"
fino alle pratiche manipolatorie dell'arte contemporanea de
Il grande Lebowski. E così le relative contaminazioni
narrative: il
noir di
Blood Simple e la satira graffiante di
Barton Fink sfociano imprevedibilmente
nell'
horror; la traccia dell'
Odissea omerica viene impastata in un dramma sociale nel periodo della
Depressione in
Fratello, dove sei?; Il grande sonno di Chandler è trasformato in una storia bislacca, onirica e
inconclusiva ne
Il grande Lebowski, storia che, come riassume acutamente Vincenzo Buccheri nella sua imprescindibile
monografia sui Coen (Il Castoro Cinema, 2002, p. 105), mostra «un cow boy che racconta le vicende di un reduce degli anni
Sessanta che, accompagnato da un ex combattente del Vietnam, viene trascinato in un intrigo da noir anni Quaranta, e tra un
incidente e l'altro cade in trip psichedelici che assomigliano ai musical degli anni d'oro»…
Infine, il loro sguardo è da sempre cinico e beffardo, si diverte a smontare i meccanismi della rappresentazione e le
convenzioni del genere di riferimento mentre osserva, con l'imperturbabilità di un entomologo e la precisione di un
anatomopatologo, il dibattersi dei protagonisti in meccanismi narrativi "a perdere", in intrighi senza centro (e spesso
senza oggetto), in strade senza uscita che sono veri e propri
cul-de-sac (non è un caso che uno dei registi
preferiti dei Coen sia proprio Roman Polanski).
Ma in
Non è un paese per vecchi tutto questo sembra lontano, come appartenente a un altro mondo narrativo. Lo sguardo
è ancora impassibile ma non è più beffardo: la storia è una spirale di sangue che lascia poco spazio al cinismo sardonico.
Il male non è più qualcosa di grottesco e d'inconsapevole, non sgorga dalle incomprensioni o dal guazzabuglio morale dei
personaggi. Siamo cioè lontani dai tradimenti di
Blood Simple e di
Miller's Crossing o dalla stupidità del
male di
Fargo. Qui siamo di fronte a un male più strisciante, reale, "di campo" prima che di laboratorio, di viscere
prima che di cervello. Lo psicopatico Chigurt - uno straordinario Javier Bardem - è prima di tutto un personaggio, è carne
e ossa, ha un profilo psicologico determinato, non è un carattere, una maschera o una figura che serve per rompere gli
schemi o elaborare una poetica alternativa, ma vive in sé, è autonomo nel suo agire quanto agghiacciante nelle sue
efferatezze. Una macchina omicida perfettamente oliata per resistere agli imprevisti, incutere terrore e spazzare via gli
ostacoli umani che gli si parano davanti, anche
indipendentemente dalla missione da compiere (il recupero del
denaro). La sua vera missione è - si direbbe - osservare lo sguardo attonito delle sue vittime mentre getta la monetina
del loro destino o il sangue sgorgare dai loro corpi senza più vita. La sua è una logica dissociata quanto coerente: uccide
nel finale la moglie di Moss (Josh Brolin, un attore di razza che converrà tenere sott'occhio: si guardi anche la sua
interpretazione in
American Gangster) perché
ha promesso al marito che l'avrebbe fatto e non perché sia
funzionale ai fini della missione. E il destino non gli si accanisce nemmeno contro, come se avesse paura di lui:
l'incidente finale (preso da
Amores perros di Iñarritu e ribaltato di segno), lungi dall'essere l'ingresso della
nemesi nell'economia del racconto, è solo un accidente temporaneo che ritarda l'azione. Siamo davvero lontani dai Carl e
Gaear (Steve Buscemi e Peter Stormare) di
Fargo, o dal caso beffardo de
L'uomo che non c'era. Il tempo del
manierismo stilistico e del cinismo ironico è finito. Almeno a contatto con il romanzo di McCarthy.
Non c'è più redenzione: l'eroe "buono" che ha fatto una, anzi due sciocchezze (rubare denaro insanguinato e tornare sul
luogo della strage per salvare uno dei superstiti), e che si trova così a essere la preda designata di una nefasta "caccia
all'uomo", non gode più di salvezza: la sua morte è la parte più ellittica del film, ma lungi dall'essere l'ennesima
"unghiata" controcorrente è un modo per evidenziarne l'inutilità e la tragedia. Il fuori campo dell'(anti)eroe. E il volto
dello smargiasso Wells (Woody Harrelson) davanti al fucile puntato di Chigurt (e dunque alla morte) è di quelli che non si
dimenticano: la sua sicurezza svanisce improvvisamente e il rossore della paura gli infiamma le gote. Non c'è più spazio
per l'umorismo nero né per gli stupidi e gli sprovveduti che da sempre affollano le storie dei Coen, impietosamente
fotografati con sguardo mordace e beffardo: Ray, Martin e Visser di
Blood Simple; H.I., Gay e Evelle di
Arizona Junior; Johnny Caspar, Bernie e Mink di
Miller's Crossing; Barton Fink; Norville Barnes di
Mister Hula Hoop; Jerry Lundegaard, Carl e Gaear di
Fargo; Walter e Donny de
Il grande Lebowski;
Pete e Delmar di
Fratello, dove sei?; Ed Crane de
L'uomo che non c'era. I toni di
Non è un paese per
vecchi, invece, sono decisamente crepuscolari: il mondo degli eroi classici è finito, ma anche quello dei suoi
discendenti postmoderni. Qui siamo piuttosto dalle parti di un Clint Eastwood o di un Paul Haggis, per non dire di un
Sam Peckinpah (ma senza i suoi parrossismi visivi). Non è certo un caso che il vettore di questo
mood sia proprio
quel Tommy Lee Jones (un volto "da Cormac McCarthy") già protagonista delle opere di Eastwood e Haggis nonché regista di
un film -
Le tre sepolture, su script di Guillermo Arriaga - che segue da vicino le tracce dell'umanesimo dolente
di questi due registi. È sua la voce fuori campo dell'inizio, è suo l'epitaffio di chiusura celato sotto le mentite spoglie
di un resoconto onirico. Ma la voce
off dell'
incipit perde quella valenza dissacratoria che avevamo
incrociato in
Blood Simple (dove la voce di apertura è quella del morituro Visser) o ne
Il grande Lebowski
(dove la voce del narratore - il misterioso, "angelico" Straniero in foggia da cow boy - è così bislacca da perdere il filo
del discorso, sfilacciando l'intreccio in mille rivoli narrativi), e si fa invece mesta, perché constatazione amara del
nulla che ci circonda. Un nulla che non è più il risvolto beffardo del plot (
Blood Simple, Il grande Lebowski, Fratello,
dove sei? ), l'erosione del testo classico o lo svuotamento di senso del genere di appartenenza. Ne è più fenomenologia
formale, ma l'atto disilluso di chi attesta la presenza di un male reale, fisico, connaturato al vivere e vittorioso sulle
cose degli uomini. Non è quindi un caso che sia arrivato anche l'Oscar, anzi gli Oscar (film, regia, sceneggiatura non
originale, interprete maschile non protagonista), lasciando a bocca asciutta la cupa metafora di
There Will Be Blood
di Paul Thomas Anderson, scioccamente ribattezzato
Il petroliere qui da noi, che si misura con temi - sempre scomodi
per l'
establishment hollywoodiano - come la (ri)lettura della storia americana in chiave di sangue e sopraffazione
(si veda anche il caso del mutilato quanto potente
I cancelli del cielo di Cimino). Il sistema premia infatti un
film potente nella sostanza e classico nel linguaggio, formalmente ineccepibile e drammaturgicamente d'impatto, certo più
riconoscibile agli occhi dei più poiché non più morsicato dagli strali mordaci di un'ironia affilata e dirompente. Un film
più "tradizionale" insomma, con più contenuto che forma (se così vogliamo dire), che regala brani di grande cinema
(l'inizio nel deserto, l'inseguimento del cane - così diverso dai folli travelling di
Blood Simple o di
Arizona
Junior -, gli omicidi a sangue freddo di Chigurt), e che solo il tempo saprà dire se punto di non ritorno per il
cinema di Joel e Ethan Coen, oppure momentanea deviazione dalla strada di casa dovuta al rispettoso adattamento di un
"classico" della letteratura contemporanea.