FUORISCHERMO

 

L’INIZIO DELLA FINE
Dai Coen a P.T. Anderson, la crisi di un mito
Come raccontare il ribaltamento del mito americano. Il cinema dei Coen sferra un pugno nello stomaco del west side scovando le origini della degenerazione commerciale di droga e denaro. Anderson scava fino in fondo e trova l’origine del male e dello sporco. Due tipi di cinema che inseguono un unico soggetto: l’uomo e la sua natura corrotta e ibrida.
Non è un paese per vecchi Capitolo 1 – Uomo di frontiera, vita di confine Ciò che conta, nel cinema dei Coen, non è tanto il fatto che il viaggio sia psichedelico e surreale (Arizona Junior - Raising Arizona, 1985, Il grande Lebowsky - The big Lebowsky, 1997), epifanico (Fratello, dove sei? - O Brother, Where Art Thou? , 2000) o nostalgico (Mister Hula Hoop - The Hudsucker Proxy, 1994, L’uomo che non c’era - The man who wasn't there, 2001, Ladykillers - id., 2004), fatiscente (Barton Fink - id. , 1991) o sanguinario (Sangue facile - Blood simple, 1984, Crocevia della morte - Miller's Crossing, 1989) tragico (Fargo - id. , 1996) o ironico (Prima ti sposo poi ti rovino - Intolerable Cruelty, 2003). Ciò che conta, anche e soprattutto in Non è un paese per vecchi, tratto dal romanzo omonimo di Cormac McCarthy, è che il viaggio rappresenta il veicolo narrativo e morale e supremo e stravagante e ipnotico di un meccanismo cinematografico che, da sempre, volge il proprio sguardo sull’animo umano. Ciò che conta, quindi, non è tanto il genere, il soggetto o il luogo di riferimento. Ogni film dei Coen può essere tutto o niente. Ogni film ha la capacità di raccogliere e raccontare tutto e niente (quindi il cinema dei Coen è, di fatto, un cinema degenere perché ogni volta che lo spettatore tenta di ricollocarlo in un genere di appartenenza si deve interrompere in quanto ogni film risulta, più o meno, indefinibile e incontrollabile). Ciò che conta è il risultato di una forma che insegue i tratti bizzarri, scomposti, sghembi e urticanti di un cinema che conduce lo spettatore a provare sentimenti di diversa natura. Dalla risata scoppiettante, all’ansia della ricerca, dalla paura della morte, al desiderio dell’evasione (che non è mai solo una questione fisica o temporale). Non un solo genere, mai un solo luogo, sempre una sovrapposizione di stranezze e pezzi di cinema, suggestioni, provocazioni, inquietudini.
Non è un paese per vecchi si contorce su questi binari paradossali raccontando una previsione. Ambientato nel 1980 Non è un paese per vecchi (l’unico riferimento temporale ci è fornito da una bara) il film anticipa il degrado urbano/umano a cui gli Usa, rappresentati dalla zona di confine tra il Texas e il Mexico, sarebbe andata incontro nel giro di pochi anni con l’avvento del commercio ultrasfrenato e ultrasviluppato di droga e denaro sporco. Oltre a questo significativo spunto narrativo, il film si ricodifica sequenza dopo sequenza a causa dei tre (forse anche di più) protagonisti: il male, lo spietato killer Chigurh (Bardem), cioè il cacciatore, l’ibrido, il reduce del Vietnam Llewelyn Moss (Brolin), cioè la preda, e il bene, lo sceriffo prossimo pensionato Tom Bell (Lee Jones), cioè la giustizia. Un film di frontiera che racconta l’uomo da tre punti di vista, a loro modo, di frontiera.
La terra ma anche i personaggi diventano, quindi, luoghi narrativi di confine, come il cinema stesso dei Coen. Uno spazio/palcoscenico dove gli esterni entrano in contatto con gli interni, e il deserto scenico è anche un deserto di umanità allestito per mettere in rilievo i caratteri distintivi di chi è pronto a tutto a costo di portare a termine la propria missione, di chi è pronto a tutto a costo di inseguire il proprio sogno, di chi ancora riconosce giusto e sbagliato ma non ha più le forze per affrontare uno e l’altro. È attraverso la caratterizzazione dei tre tipi di umanità (cinica, sognatrice, prudente) che Non è un paese per vecchi arricchisce la propria identità di film umano. Non più solo un viaggio nel passato alla scoperta di una terra in fase di mutazioni, bensì un viaggio interiore nelle ambizioni di chi, nel bene e nel male, l’America la stava già vivendo in quel modo. Un film ossessivo, sanguinario, feroce e selvatico. Un trip frenetico, doloroso e spiazzante.

Capitolo 2 – Oro nero, sangue sotto la terra
Seguendo l’apparente linearità dell’ultimo Ubriaco d’amore (2002), discostandosi quindi dalla coralità di Magnolia (1999) o di Boogie Nights, senza però abbandonare la suggestiva visione prospettica dell’uomo che Il petroliere caratterizza da sempre la sua idea di cinema, Paul Thomas Anderson firma il quinto film da regista e sceneggiatore estrapolando il succo del romanzo di Upton Sinclair Oil, in Italia tradotto con il titolo Petrolio! .
Arrivato da noi con l’anonimo e noioso titolo Il petroliere, il film di P.T. Anderson nasce in origine come There will be blood, mostrandosi coerente al percorso personalissimo (e rischioso) che l’enfant prodiges losangelino sta conducendo dal suo esordio scoppiettante (la doppietta schietta e frizzante di Hard Eight del 1996 e Boogie Nights del 1997) fino alla collaborazione con Altman (aiuto regista in Radio America del 2006).
Il titolo/film possiede una forza esplosiva da un punto di vista semantico, narrativo e fonetico perché suggerisce una serie di stimoli affascinanti. Ci si accorge subito della centralità dell’elemento tempo se si considera il futuro del titolo: Anderson comunica un presagio, un’anticipazione di ciò che arriverà, prima o poi, con le conseguenze rantolanti nel buio.
L’uomo, infatti, questa volta attraverso il personaggio Daniel-Day Lewis, Plainview, è il centro di un universo in fase di mutazione e estinzione. Il tempo, anche in There will be blood, assume quindi i tratti di un countdown frenetico che travolge tutto ciò che incontra (le persone, ma anche i luoghi di una zona di confine). Come accadeva in Boogie Nights per l’industria-sogno del porno, o in Ubriaco d’amore (2002) per i sentimenti e l’ansia di individuarli e viverli.
Anderson usa il pretesto dell’oro nero per raccontare come negli anni, nel tempo, si sia sviluppata dentro l’uomo, e quindi nell’occidente, l’avidità e il male. Dal nero passa al rosso blood, alterando abilmente le prospettive di una visione che si nasconde nella classicità, ma si estende verso forme cinematografiche nuove e sperimentali.
In fondo Anderson rimpasta alcuni temi di Magnolia, dove costringeva tempo, senso della vita e relazioni tra odio e amore e dove completava lo scenario in maniera totalmente orgasmica, con la surreale pioggia di rane.
Il petroliere L’assurdo e il sesso (in tutte le sue parti: cuore, testa, corpo) sono così importanti pure in There will be blood dalle prime sequenze, dove Daniel è alla ricerca dell’argento, ma trova petrolio: il suo corpo è ricoperto di liquido melmoso e nero. È appena stato partorito dalla terra (unica figura femminile del film degna di nota) e qui comincia la sua avventura di uomo della terra.
Infine There will be blood ha un’importanza fonetica perché il titolo, come il film, ha un suo ritmo significativo e alternato. Serrato, sincopato, frenetico, molle, diluito, lento. Anche qui si raggiunge un suono prima ancora che un significato. Forse non come in Ubriaco d’amore (Punch-Drunk Love, 2002) uno dei titoli più musicali e poetici di sempre, anche di Eternal Sunshine of the spotless mind (2004), ma tutto è rivolto alla creazione di atmosfere che mutano con il tempo che scorre, con il ritmo che cambia, con l’uomo che si trasforma.