Come ha dimostrato anche il suo penultimo film,
Batman Begins - per molti versi il più convicente della serie, superiore anche ai due Batman firmati dal dotato ma discontinuo Tim Burton -, Christopher Nolan è un regista dal sagace piglio autoriale che riesce a fondere nel suo cinema - un cinema che gioca molto con la visionarietà - il proprio mondo interiore con le esigenze più commerciali dell'industria hollywoodiana.
The Prestige non fa eccezione. E' uno spettacolo
maistream ma è contemporaneamente un film d'autore, è il classico titolo da multisala ma può far la felicità dell'appassionato. Soprattutto comunica un senso potente di cinema allo stato puro. Ed è un'opera intelligente che s'interroga sui meccanismi dello spettacolo mettendolo al contempo in scena, in piena e consapevole chiave postmoderna.
La storia incrocia i destini - con tanto di rivalità, odio e desiderio di vendetta - di due illusionisti nella Londra vittoriana di fine Ottocento: il perfezionista Alfred Borden (Christian Bale) contro il più estroverso Ruper Angier (Hugh Jackman). Il primo è alla ricerca del numero perfetto, il secondo è più a suo agio con la teatralità del palcoscenico. Dapprima compagni di magia al servizio del maestro Cutter (Michael Caine), poi - per colpa di un incidente sul lavoro dagli esiti nefasti - acerrimi nemici tendenti all'annientamento dell'altro a colpi di trucchi e inganni, non escludendo da questo gioco illusionistico - come da copione - nemmeno lo spettatore.
Ne esce un
feuilleton d'intrigo e d'atmosfera, ambientato tra teatri e macchine prodigiose in un periodo - prima dell'avvento del cinematografo - in cui i prestigiatori erano venerati come divi.
Nolan allestisce un cast assai azzeccato (accanto alla brillante coppia Bale-Caine già sperimentata nel
Batman, alla
presenza volutamente statica di Hugh "Wolverine" Jackman e all'ormai onnipresente Scarlett Johansson, spicca la figura
magnetica di David Bowie nei panni dell'ingegnere elettrotecnico di origine croata Nikola Tesla) e orchestra una partitura filmica - dalla sceneggiatura, firmata con il fratello Jonathan, alla lussuosa, notturna, affascinante
mise en scene in cui gli effetti speciali si mescolano ai trucchi degli illusionisti e s'intrecciano con gli esperimenti scientifici, operando una vera e proprio osmosi del meraviglioso - che recupera quella complessità narratologica che lo aveva fatto conoscere nel suo film d'esordio (
Memento) e che sembrava aver accantonato nelle due opere successive, decisamente più lineari dal punto di vista del racconto (il sottovalutato
Insomnia e il già citato
Batman Begins).
L'ordito narrativo è certo meno radicale di
Memento ma i vertiginosi salti temporali del racconto, costruito su più livelli, non hanno nulla da invidiare agli script di Guillermo Arriaga, Paul Haggis o Stephen Gaghan.
Epicentro tematico dell'opera sono, come già dei film precedenti, i temi del doppio e del dissidio apparenza/realtà.
Così era l'odissea a ritroso dell'investigatore assicurativo Leonard Shelby (Guy Pearce) di
Memento (2000), un film sulla labilità della memoria e sull'incertezza del reale, scompaginato agli occhi e nella mente di un uomo che non riesce a ricordare ciò che ha fatto dieci minuti prima. La sua indagine non potrà così che sortire effetti imprevisti, minando definitivamente un'identità già incrinata dai fantasmi che riposano nel profondo della coscienza, dove si cercano di occultare i ricordi dei traumi.
Così erano le grigie e velate atmosfere di
Insomnia (2002), dove la luce perenne del sole di mezzanotte di un paesino dell'Alaska gettava per giorni un detective al crepuscolo della carriera, Will Dormer (Al Pacino), in una spirale di dubbi, angosce e allucinazioni. Dormer uccide forse accidentalmente il compagno (Martin Donovan) che aveva deciso di denunciarlo alla disciplinare, mentre un assassino di ragazzine (Robin Williams) ha visto tutto e si diverte a giocare con lui come il gatto con il topo. Le due
detection di
Memento e
Insomnia hanno approdi speculari: interrogandosi sulla realtà di una coscienza dove regnano solo confusione e inquietudini, conducono ad un confronto serrato con le proprie colpe.
Così era Batman Begins (2005), in cui il doppio è incarnato dallo stesso protagonista e l'alter ego di turno è rappresentato, più che dal folle dottor Crane (Cillian Murphy) con la sua inquietante maschera, dal maestro-tutore Ducard (Liam Neeson), che nasconde dentro di sè la finzione e l'inganno. Qui l'eroe diventa notturno e spaventoso, non è più solo un'icona di giustizia e salvezza ma un'ombra minacciosa e ambigua che governa abilmente i meccanismi dell'illusione e della paura. Per rimarcare la scissione dell'io del protagonista, la voce di Batman (Christian Bale), cavernosa e terrorizzante, è finalmente diversa da quella di Bruce Wayne.
Così infine è ancora
The Prestige, dove tornano le personalità occulte e il doppio fondo della realtà. Il film è infatti letteralmente dominato dalla figura del doppelgénger di espressionistica memoria, visibile e invisibile, in un gioco di specchi e finzioni che sfrutta abilmente il più classico sistema del trucco annunciato ma abilmente nascosto, pilotando artatamente l'attenzione dello spettatore.
Ma l'incanto della visione non si esaurisce con le rivelazioni dell'intreccio, decretando il trionfo della macchina-cinema: come già accaduto per
Memento,
Insomnia e
Batman Begins, anche per
The Prestige l'istinto sarà quello di poter rivedere questo film al più presto, facendosi nuovamente sedurre dalle meraviglie immaginifiche del cinematografo, al di là dei colpi di scena della storia.