Titolo originale: Caché Regia: Michael Haneke Sceneggiatura: Michael Haneke Fotografia: Christian Berger Montaggio: Michael Hudecek, Nadine Muse Musica: Matthieu Chabrol Interpreti principali: Juliette Binoche, Daniel Auteuil, Maurice Bénichou, Annie Girardot, Bernard Le Coq Origine : Francia / Austria / Germania / Italia, 2005 Durata: 117'
Colore
La vita di una coppia di intellettuali borghesi (Daniel Auteuil e Juliette Binoche) viene sconvolta da una serie di
videocassette anonime che riproducono interi spezzoni della loro vita. Che cosa c'è dietro: una strisciante vendetta o una
macchinazione metafisica? Haneke, cineasta della rappresentazione estrema (Funny Games, La pianista), sposa la struttura
aperta mescolando senza soluzione di continuità flusso del reale e riproduzione filmica, voyeurismo e oggettività,
piani-sequenza e interrogativi narrativi. Lo spettatore naviga a vista tra ipnosi e distonia aspettando un chiarimento che
non potrà arrivare: dietro le domande sull'identità del reale, sulla (illusoria) natura diegetica del cinema e il tenue
sottotesto di un tema socio-razziale, emerge infatti tanto la crisi dello statuto della percezione quanto la possibilità
- irrimediabile - di un complotto ontologico.. MASSIMO ZANICHELLI
La vita del conduttore di un noto talk show culturale (Daniel Auteil) viene sconvolta da una serie di VHS, fatte recapitare
anonimamente, in cui la telecamera lo riprende mentre esce di casa. Un’inquadratura fissa e nient’altro. Chi sta dietro la
telecamera? Cosa significano quei disegni? Chi è che fa questo e perché? L’ultimo film di Michael Haneke va in due direzioni
. Una inquietante, che coinvolge lo spettatore nell’intreccio narrativo e lo porta a nutrire compassione e timore per la
vittima. L’altra sconvolgente e destabilizzante perché spinge lo spettatore su un piano emotivo/visivo e assolutamente
colpevole. L’astuzia di Haneke si evolve in questo duplice gioco: chi guarda è vittima e complice. Uno straordinario
esempio di cinema che penetra gli occhi e scava in profondità. Perché Haneke non si accontenta solo di mostrare. Taglia
con una lama affilatissima le convinzioni di chiunque. Le smonta e non le ricostruisce. Lascia lo sguardo annegare in
un’altra inquadratura fissa. Lo sguardo cerca. Cerca. Cerca. Cerca. Cerca. Cerca. Cerca. Cerca. Cerca. Ma poi trova? MATTEO MAZZA
Cominciamo dal titolo: Niente da nascondere c’entra relativamente; perché nel film di Haneke tutto è nascosto allo
spettatore: Cachè, appunto.
E’ una questione di sguardo e di paternità del punto di vista. Chi sta dietro la macchina da presa? Chi dirige lo sguardo?
Chi enuncia? Dopo due ore di spiazzamenti, depistaggi, false piste lo spettatore alla fine deve arrendersi: il “colpevole”,
il depositario del punto di vista è extra dietetico, è altrove, è altro: un “io” onnisciente che tutto sa, tutto vede,
principio scopico dell’enunciazione. E’ empre così nel cinema: un segno, qualcuno o qualcosa che guarda per lo spettatore,
del quale, comunque, ha profondo bisogno affinché il segno si faccia significato. Haneke utilizza in questo senso lo
spettatore ma lo priva dell’identità di tale punto di vista facendone, quindi, un ostaggio. Attorno al suo sguardo (che è
quello dello spettatore) tutto vacilla, il reale scivola nella sua rappresentazione e viceversa senza soluzione di
continuità e in maniera indistinta e indistinguibile. Quel che resta alla fine è uno spettatore prigioniero dell’inganno e
delle visioni di uno dei registi più sadici del panorama cinematografico contemporaneo. Trionfano il principio dubitativo
(chi e che cosa ci sta facendo vedere? A che piano pertiene, reale o sua riproduzione?) e il disorientamento; uno sguardo
senza bussola nell’abisso della psiche umana.
GIANLUCA CASADEI
Haneke ci consegna un nuovo agghiacciante brano della sua antropologia contemporanea, freddo e destabilizzante.
La problematicità si innesta sin dalla prima sequenza, che prendiamo per “reale”, sulla quale all’improvviso parte il
rewind del nastro. Al grado zero del significato dell’immagine (la ripresa a camera fissa di un banale scorcio parigino),
corrisponde il mistero del significante: perché quelle immagini, perché quella ripresa monotona e senza senso della casa
dei protagonisti? L’incipit ricorda quello di Strade perdute di Lynch, ma qui non si parla dell’horror della violazione
dello spazio identitario e della destrutturazione narrativa, ma dei segreti della borghesia occidentale (qualcosa a che
vedere con le banlieu francesi in fiamme in questi giorni di novembre 2005?), talmente radicati nel profondo da diventare
una sorta di inconscio collettivo rimosso e condiviso (il titolo francese, Cachè, è trasparente, esplicito, non si
permette nemmeno l’ironia del titolo italiano). Nell’ombra di qualsiasi agiato cittadino dell’Occidente post o
neo-colonialista, qualcuno sputa sangue. Ci riguarda tutti, purtroppo, e prima o poi bisognerà rassegnarsi a farci i conti.
MAURO CARON