Lasciate le rovine fumanti di Dogville, Grace continua la sua fuga attraverso l’America degli anni ’30 e i suoi paradossi
politico-morali. Stavolta finisce in una piantagione di cotone dove la schiavitù sembra non essere mai essere stata
abolita. Fiduciosa nella potenza rigeneratrice della ragione come il Candido di Voltaire, e nella potenza della virtù come
la Justine di Sade (e sempre condannata allo scacco e alla frustrazione), Grace si adopera per portare agli schiavi neri
libertà e democrazia, salvo scoprire ambigue verità morali che in parte ribadiscono i peggiori stereotipi razzisti (i neri
sono esattamente così come la vecchia padrona della piantagione li aveva classificati) in parte ribaltano le più elementari
fedi democratiche (la schiavitù è
meglio della libertà). Più ancora delle provocazioni politiche (ribaltate in
senso politicamente corretto dalla scioccante galleria di immagini della storia del razzismo americano nei titoli di coda,
ancora una volta sulle note di
Young Americans), sconcerta la pertinacia di von Trier nel costringersi/ci ad un
altro lungo tour de force a base di scenografie assenti, fotografia cupa, camera a mano, dialoghi dimostrativi e voce
narrante didascalizzante. In
Dogville la provocazione etica-formale era fulminante. Qui contraddice se stessa e
induce a sperare che von Trier, che effettivamente non teme di contraddire se stesso, ripensi al completamento della
preannunciata trilogia.
MAURO CARON